Tommaso Russi | Qualche Parola tra padri e figli (Eretica edizioni, 2019)

Al centro di "Qualche parola tra padri e figli" (Eretica Edizioni, 2019) c’è il rapporto con il tempo limitato che abbiamo a disposizione. Cosa significa diventare adulti dentro un mondo in cui la felicità dipende dal binomio successo/fallimento? Come crescere senza riti di passaggio definitivi? Finalista al premio "Poeti di vent'anni" di Pordenonelegge, la raccolta di Tommaso Russi copre lo stesso percorso di ogni essere umano, attraverso le cinque età: infanzia, adolescenza, età di mezzo, essere adulti e vecchiaia. Ne abbiamo parlato con l'autore, per la rubrica Dialoghi di Fucina Creativa.

Per organizzare la distribuzione della tua raccolta (Qualche parola tra padri e figli, Eretica Edizioni, 2019) , hai trovato questa idea delle “consegne in bicicletta” per Milano,
capitandoti di portare Qualche parola tra padri e figli dal centro alle periferie.
Vorrei chiederti come è nata questa idea, se per necessità oppure per
ispirazione; poi, sarei curioso se ci potessi raccontare cosa ti ha lasciato, questo
incontrarti con le persone, amiche e sconosciute, legato al tuo libro.

Guardando i rider e conoscendo la storia di Luca, il libraio di largo Mahler (che con il suo cargo bike ha una libreria mobile che si sposta per i vari eventi e da cui puoi comprare e ordinare libri) mi è venuta questa idea: consegnare a domicilio, portare direttamente io la raccolta a chi ha deciso di sostenere il progetto e far si che il momento della “vendita” non sia solo un baratto ma anche un momento di umanità in cui ci si apparta.
Finita l’Accademia e tornato a Milano, ho sentito moltissimo questo tempo veloce che detta i ritmi e spesso mi sono sentito atomo, solo, isolato. Questa modalità delle consegne in bici ha fatto si che io prendessi il tempo per girare la città e per stare con le persone. Ho ricevuto moltissimo affetto in questi mesi di consegne a domicilio. Ho rivisto persone con cui negli anni avevamo preso strade diverse, sono stato accolto in casa di sconosciuti a bere il caffè e a chiacchierare, conoscenti hanno sparso la voce e mi hanno aiutato a diffondere la raccolta -la madre di un amico ha preso a cuore il progetto e mi ha creato un vero e proprio giro-, ho avuto la scusa per conoscere meglio persone di cui stimo il percorso artistico e la scusa per stare di più con amici che mi fanno stare bene.

Come poeta e attore, il tuo fare e scrivere non si limita al solo supporto cartaceo: sono molti i progetti in cui sei coinvolto, nei quali unisci poesia, letteratura, teatro e performance (penso alle produzioni realizzate con il collettivo Tempi diVersi, o anche alla tua ultima iniziativa come “Narrastorie senza frontiere”, alle presentazioni-reading a cui ho assistito). In che modo questa doppia tendenza espressiva ti ha segnato, nel tuo scrivere Qualche parola tra padri e figli? Mi vengono in mente i versi a pag. 34: quel ritrovarsi nel corpo di un altro, / quello stare, per andare più in su, lontano // forse esiste un nome a questo calore nel petto?

Credo fortemente che la cultura possa essere un mezzo potentissimo nella creazione di incontro e comunità. Nell’evento culturale è possibile creare aggregazione e si crea un meccanismo di condivisione unico, tra chi è “in scena” e chi partecipa ma anche tra i vari partecipanti. Questa mia esperienza fa sì che io cerchi il più possibile di creare momenti di condivisione pubblici e di trovare anche delle forme in cui la poesia possa passare anche tramite il mezzo dell’oralità e della performance (e in questo l’avventura con i compagni di Tempi diVersi è stata fondamentale). Nonostante poi, nel mio caso, le poesie che scrivo hanno abbiamo una forma abbastanza classica, scritta.
Più che una doppia tendenza mi piace pensare ad un urgenza espressiva che nel tempo si è solidificata in due forme che in alcuni momenti si innestano. Per quanto riguarda la scrittura, la mia attenzione da attore è fortemente presente. Vengo attirato dai comportamenti che mi avvengono intorno, da alcune frasi, dai gesti e dalle azioni. Nel mio caso è da lì nasce il primo verso, quello che ti viene incontro dall’oblio. In alcuni casi le mie poesie nascono da immagini concrete che ho intorno, in altri sono invece frutto di fantasticherie ma si materializzano sempre in una frase o in un comportamento concreto più che in un sentimento o una emozione. Sono sicuro che questo meccanismo creativo derivi dal mio essere attore, lavoro in cui la base di partenza è l’azione, il comportamento e l’immagine concreta e non l’emozione. Quella poi nasce di conseguenza ed è il motivo per cui cerco di diventare un artista: farmi muovere e toccare chi ho intorno. Se partissi invece da un sentimento, per me sarebbe molto difficile uscire dai cliché.

Quali sono le origini materiali della tua scrittura? A cosa si ispira la lingua che hai scelto e quali sono i luoghi e le situazioni da cui sono nate le poesie che hai inserito nella raccolta? Da dove la necessità di mimare attraverso la scrittura poetica la vita di un uomo, dall’infanzia alla vecchiaia?

Oltre che da quel famoso oblio di cui parlavo prima, mi viene da risponderti che per me l’ispirazione proviene due luoghi: il ricordo (mio e di altri) e le città che abito, con le loro strade e i loro personaggi.
Mi sono accorto che rubo immagini da ciò che mi sta intorno: in alcuni casi da sconosciuti appena intravisti, in altri da amici stretti, in altri casi ancora dalle città in cui ho vissuto, Milano, ad esempio, compare spesso molto direttamente mentre Venezia e Perugia hanno creato invece temi e suoni di sottofondo.
Nascendo dal rapporto con l’esterno, le poesie che scrivo hanno personaggi di varie età, con modi loro di approcciarsi col mondo e con il tempo.
Ho deciso di organizzare la raccolta come un arco della vita perché, scrivendo e componendo, ho scoperto che avevo immagini che potevano appartenere a mio padre, altre richiamavano suo padre ancora, alcune invece le esperienze e le paure di un bambino o le scoperte di un ragazzo. Ho sentito come un magma, un’essenza collettiva da cui alcuni temi – qualcuno li chiamerebbe archetipi – affiorano e si manifestano in modo diverso a seconda dell’età.
Ho avuto il presentimento che si potesse scorgere un percorso dove riscoprirsi in vari momenti della vita. Un luogo dove generazioni diverse, padri e figli per l’appunto, potessero incontrarsi nelle esperienze e nei sentimenti comuni. Un luogo dove un bambino che ripete la formazione della Juventus al buio, un padre che si anestetizza davanti alla tv fino alle due di notte e un nonno che rimasto solo a letto chiama la moglie in cucina, possano riconoscersi nella stessa paura o nella stessa scoperta. Un luogo in cui sentirsi insieme insomma.

Alcuni temi – strettamente legati – che possiamo rintracciare lungo il percorso del libro sono quelli dell’assenza di rituali, del vuoto e dell’amarezza lasciate da uno spirito collettivo che non ci accompagna nel nostro vivere sociale e emotivo. Per te, la poesia riesce a conservare in sé un aspetto rituale, qualcosa che permette un contatto originale, assente nel quotidiano?

Sento che ci sono ben due momenti rituali: uno nel momento della creazione ed un altro ancora nel momento della condivisione (in presenza o meno).
Credo proprio che l’atto creativo in sé, che sia nella poesia o nelle altre arti, permetta un contatto con qualcosa di ignoto. Per esempio io mi sento come se allo stesso tempo fossi nello spazio della realtà e in quello dell’inconscio e dell’istinto insieme. Come se si creasse un’incrinatura nel concetto di spazio-tempo. Da scrittore di poesie (aver pubblicato una raccolta non fa ancora di me un poeta) ci sono momenti in cui vengo scritto dalle immagini e dai suoni nati in quel momento di incrinatura. C’è una poesia di Tiziano Scarpa che parla proprio di come si viene attraversati dalle parole che contengono i desideri dei morti e le esperienze di chi non è ancora nato. Anche nel mondo del teatro e della performance d’altronde ci sono dei momenti in cui il performer non agisce ma viene agito.
L’altro rituale è il momento dell’incontro tra chi partecipa e la parola scritta o ascoltata. Da lettore e uditore (soprattutto nella lettura però), la prima cosa che mi accade è un rallentamento generale del tempo, come se la poesia lo allargasse per il bisogno di più spazio. Nei casi più fortunati, accade un riverbero: anche solo un verso o una parola, è come se mi risuonassero dentro il corpo. Per dare un’immagine, succede come se un ago toccasse leggermente ma in modo molto preciso un pezzo del fegato.
In entrambi i casi la poesia permette un tipo di rito dove quello con cui ti relazioni torna ad avere un impatto su di te, a toccarti, a stranirti in senso brechtiano. In contrapposizione alla vita di tutti i giorni dove ognuno deve giustamente proteggersi. Se ci si lasciasse toccare da tutto probabilmente si farebbe una brutta fine.

Se dovessi lanciarti una piccola suggestione, direi che mi sembra che tu abbia cercato attraverso lo scrivere poetico, di (ri)prenderti uno spazio e un tempo per (ri)dire una parola che, dietro ai toni semplici, cerca la scomodità, per procedere a lampi di rabbia, consapevolezza, disillusione: già dall’apertura (pag. 11 […] e tanta gente da farci la rivoluzione / […] i ritmi di tamburi e un maxischermo in alto: / goooooooool. // La grande parola, la prima volta che capisco / che il terzo portiere del Milan guadagnerà /sempre più di me.). 

Se ti ritrovi in questo mio pensiero abbozzato, volevo chiederti di parlarci del rapporto che c’è tra la tua poesia e la realtà sociale e politica che descrivi: per te sono dei temi da affrontare, oppure qualcosa che si connette più profondamente con l’essere poeta e artista?

Cerco un lingua semplice per cercare di affrontare il senso di precarietà, lavorativa ed esistenziale, che sento e vedo. Mi chiedo se sia stato sempre così per tutti o se sia una caratteristica di questo tempo di “assoluto presente”. Questo luogo senza riti di passaggio in cui all’improvviso ti ritrovi adulto senza essertene reso conto. La mie poesie toccano istanze che mi appartengono come essere umano. Come Tommaso Russi, ragazzo di Milano cresciuto tra periferie, movimento e teatro. Cerco di partire dal mio stranirmi, dalle mie paure e speranze, per affrontare con un tono intimo questioni che sento dell’essere umano in quanto tale. Tra queste ci sono anche istanze rivendicative, politiche, che però cerco in tutti i modi di toccare senza diventare un predicatore. In questa ricerca di un tono intimo per parlare di qualcosa di pubblico, spero che escano fuori, oltre ai lampi di rabbia e disillusione di cui parlavi, anche tenerezza e desiderio.
Credo che affrontare tematiche sociali sia un compito dell’artista, la questione è però trovare il modo. L’angolo da cui puoi affrontare un tema con profondità e distanza alle stesso tempo. Un punto di vista che permetta di essere detonatore di riverberi nei corpi.
Ricercare modi di indagare questioni pubbliche, senza usare il linguaggio che sa di volantino, è una sfida fondamentale per tutti quello che fanno arte. Se non si trova il modo di affrontare temi che riguardano la tua comunità si rischia di creare uno scollamento, un esercizio di stile equivalente ad un enorme atto di onanismo in una piazza pubblica. Nell’incontro tra le questioni pubbliche e quelle intime c’è la potenzialità di creare un cortocircuito che permette di toccare delle corde universali

Tra gli altri hai dedicato il libro a Nazim Hikmet e Izet Sarajlic, i poeti che hanno fatto il turno di notte e poi a chi sa. Secondo te il poeta riesce in qualcosa in cui gli altri falliscono, cioè nel sapere, della vita e del mestiere? Oppure è uno che si impegna duramente quanto gli altri, solo che è unico per la materia che lavora? In che senso, per te, i poeti sono coloro che fanno il turno di notte?

Ovviamente non ho ancora risposte definitive o vie tracciate.
Quello che credo in questo momento è che il poeta sia una sentinella in grado di vedere i sintomi del Tutto. Qualcuno con il coraggio di vivere in contatto con la relazione tra il micro di quello che vede e sente accadergli intorno e il macro del mondo interiore collettivo.
La metafora del turno di notte arriva proprio da una raccolta di Izet Sarajlic, poeta che durante l’assedio di Sarajevo continuava a creare serate in cui tramite la poesia le persone potevano stare insieme e allontanare in qualche modo la morte.
Non credo che tutti i poeti in quanto tali facciano quel turno di notte per “impedire l’arresto del cuore del mondo” di cui parlava Sarajlic. Lo fanno quelli mossi dell’urgenza di creare comunità. Quelli che uniscono la loro spinta di ricerca con la necessità di stare insieme agli altri, di creare cerchio e momenti in cui sentirsi compagni, parte della stessa umanità. A mio parere non basta fare arte, bisogna prendersi la responsabilità di condividerla, diffonderla e organizzarla.
In un mondo che fa di tutto per renderti solo, creare comunità e domande è un turno di notte, il turno più difficile e duro ma anche quello dove il tempo si allarga e crea spazio e in cui le antenne sono alte, così alte che le cose si trasformano e l’istinto sente e crea, che tu lo voglia o no.

Hikmet e Sarajlic, per esempio, sono dei perfetti testimoni di questo desiderio di vita. Di quest’atto di Resistenza.

intervista a cura di Michele Milani

Dalla sezione: INFANZIA

Troppo sole
e tanta gente da farci la rivoluzione.

La strada piena di voci,
qualche coro,
una festa di primavera con i papà abbracciati,
i ritmi di tamburi e un maxischermo in alto:
gooooooool.

La grande parola,
la prima volta che capisco
che il terzo portiere del Milan guadagnerà
                                                          sempre più di me.

*

Da bambino non conoscevo mai l’ora,

quando entravo in una casa
cercavo, curioso; d’estate esploravo e mi perdevo
facendo preoccupare i miei genitori.

Finché un giorno ho notato che gli adulti
hanno sempre l’orologio.

Anche io volevo essere adulto,
volevo smetterla di guardare tutto dal basso, volevo
scoprire cosa
sognassero mio padre
e mia madre.
I sogni dei bambini già li conoscevo.

Cosi ne ho chiesto uno in regalo.
“Da grande voglio fare il cosmonauta e il calciatore e lo
scrittore e l’attore e lo spazzino e l’insegnante e
l’avvocato!”

Dicevano gli altri bambini sull’autobus.
Mentre io guardavo le lancette e aspettavo i primi peli,

mentre iniziavo ad accumulare abitudini.

Dalla sezione: ETÀ DI MEZZO

Tornare a casa ogni sera
ma senza trovare mai i propri cari,

contare i soldi guadagnati
e metterli nella scatola blu,

cercare discese in bicicletta consegnarcisi
e credere
-almeno un attimo-
di poter spiccare il volo.

Ecco come passo il mio agosto
ogni giorno è preso dall’asfalto
ogni notte si è seccata sognando qualcosa da dare.

*

Ho venticinque anni:
se ad agosto
riesco a non far morire le piante,
vuol dire che non sprecherò la mia vita,
vuol dire che andrà bene.

*

Uno chiedeva alla mamma di svegliarlo per arrivare in tempo ai cortei
un’altra correva sui tetti sperando di cadere
un altro ancora camminava e camminava,

c’era chi si trovava per mangiare una pizza insieme
e finiva a impizzarsi tutta la sera,
chi si guardava allo specchio con
le mani sulla pancia immaginando,
chi cambiava casa, città e amici perché gli andava
                                                                  e chi perché doveva.

Ognuno aspettava come sapeva in attesa di

Tommaso Russi

Tommaso Russi

Tommaso Russi

nasce nel 1994 a Milano e si diploma all’Accademia Teatrale Veneta di Venezia nel 2019. È fondatore del collettivo Tempi diVersi e attore della comunità teatrale Dopolavoro Stadera. Da anni è animatore e organizzatore di eventi e occasioni dove il teatro e la poesia possano diffondersi e creare comunità. La raccolta Qualche parola tra padri e figli è la sua prima pubblicazione e si è classificata tra i finalisti del premio "I poeti di vent'anni" di PordenoneLegge.

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