Sherko Bekas | Il cimitero dei lumi (2004)

Sherko Bekas (1940-2013) è stato un poeta curdo attivo nel Movimento di Liberazione Kurda a partire dal 1965 ed esule in Svezia per gran parte della sua vita. Nell’aprile del 2013 a Sulaimania gli viene diagnosticato un tumore alla laringe; è trasferito in Svezia dove muore. Il poema intitolato Il cimitero dei lumi testimonia il dramma di una nazione e del suo popolo; racconta un genoicidio, le cui vittime sono state i poveri contadini che vivevano sulle montagne e nelle pianure del Kurdistan meridionale.

Il poema di Sherko Bekas intitolato Il cimitero dei lumi testimonia il dramma di una nazione e del suo popolo; racconta un genoicidio, le cui vittime sono state i poveri contadini che vivevano sulle montagne e nelle pianure del Kurdistan meridionale, deportati e sterminati per aver riposto fiuducia più nella montagna che in uno Stato totalitario che tentava di renderli schiavi. Il cimitero dei lumi racconta la drammatica storia di un popolo che non ha accettato di venire a patti con uno dei peggiori tiranni del ventesimo secolo, Saddam Hussein. È la storia dei tentativi del regime iracheno di “spianare le montagne”, come dice un triste proverbio iracheno, per sterminare il popolo curdo; è la storia di Al-Anfâl, la campagna di uccisione di massa attuata dall’esercito iracheno tra il 1986 e il 1989.

Il cimitero dei lumi è un viaggio sottorraneo che il poeta compie alla ricerca di se stesso, fra «reliquie, scheletri e crani» di una nazione distrutta: «non ho niente a che fare con le stelle, / gli alberi, le vie, con i palazzi e il sole. / Io appartengo soltanto / a ciò che crolla verso il fondo / nella patria di fango, / nel paese di polvere e fango / cerco l’acqua assassinata!». 

https://www.youtube.com/watch?time_continue=169&v=qusqZXTzdiE&feature=emb_title
lettura del poema in lingua originale
IL CIMITERO DEI LUMI 

Con una veste nuova di poesia,
una veste di piccoli lustrini e di lacrime, 
vorrei che brillasse la sofferenza,  
e luccicasse il lamento!
Una veste del vento del nord
di limpido violetto, 
per vedere dall’esterno il cuore dell’angoscia. 
Una veste di foglie d’erba tristi 
allorché nella stagione della separazione, 
il crepuscolo degli innamorati 
e i corpi del viaggio degli esuli
la indossino delicatamente!  
Con una veste nuova di poesia 
quella veste che la sarta sottile della mia immaginazione 
nelle camere umide e oscure di solitudine 
sotto una lanterna stanca, 
ha tagliato, pazientemente, 
e ha cucito per me con i suoi singhiozzi 
notturni! 
[...]


Se non ti guido io,
né i cavalli leggendari
né  le gazzelle dei sogni,
né  gli uccelli delle poesie
né il vento magico 
sanno di quei morti
non erano né uno, né due,
né tre, né mille,
séguimi
tieni i miei capelli
io sono una abitante di Zinâna1
ed il mio nome è Kâlê
io conosco le storie dell’inferno
e il suo guardiano; 
i versi di quella fine del mondo  
le storie della separazione
l’afflizione del ritorno dall’aldilà, 
io conosco tutto!  
Ciò che l’acqua conosce 
ciò che gli alberi che fiancheggiano le vie 
e gli uccelli sanno 
è una breve angoscia e poco dolore! 


Io stessa sono stata un urlo nelle fosse comuni, 
sono stata il colore nero delle notti feroci   
e sono stata la puzza di cadaveri putrefatti 
che sono sotti sotto i morsi dei cani neri2 
io sono stata la calamità dell’anno di siccità! 
Io sono stata a letto, il letto della morte, 
ero stata cenere 
e sono tornata da là. 
Di migliaia e migliaia di fiori 
di migliaia e migliaia di sorgenti
di migliaia e migliaia di tortore
di belle giovani, 
e di vecchi cavalli 
e di giovani cavalli della montagna, 
di scoiattoli, di lepri e di farfalle,
soltanto tre o quattro sono tornati! 
Tu prendi per mano i miei capelli, 
e séguimi 
io sono tornata da là 
– quelli non erano né chiome, né soffioni, 
né cotone trascinato del vento!  
In questa tempesta di polvere 
non ho visto
né voi, né tracce delle sterpaglie 
né secchi rami, né strepiti. 
Logorati i vostri canti 
come le camicie che indossate, 
dinanzi agli scheletri
sono distrutte le vostre speranze 
e il vostro sole ululava 
nel regno della notte di cenere! 
Non erano: né giornali logorati 
né  piume di gallina 
né barattoli distrutti 
né bottiglie rotte 
ma sono diventati tutto questo. 
A parte voi stessi, 
sono stati messi in salvo 
i resti delle vostre penne e delle borse, 
qualche moneta di ferro, 
i vostri braccialetti, le collane   
i vostri anelli!  
Eravate splendori della luna addormentata 
la vostra aureola era polvere e suolo. 
Stesi sulla schiena oppure sulla pancia 
la cavità degli occhi, del cranio, 
della bocca, le cavità del naso…
sono diventate le nuove tane dello scorpione del deserto!
-– Tieni per le mani i miei capelli 
o il lungo ramo della mia tristezza
o il fumo della mia voce 
e séguimi! 
Tutto questo non è né il delirio della poesia 
né l’illusione che è sotto gli occhi del sogno, 
né le tessiture poetiche fantasticate dall’immaginazione: 


– Topzâwâ3 è la prima tappa delle genti destinate alla morte! 
La prima fermata della voce tagliente di un gufo oscuro
con le ali di ferro!.
Topzâwâ… un deserto di paura atterrita, e, 
inizio di meditazione di un dio impotente 
davanti ai mostri di Bagdad.
Un ruscello pieno di domande senza risposte 
l’ultima ispezione prima dell’inferno!
Topzâwâ è una mappa di segreto,
un groviglio di miraggio e nebbia. 
Un container4, due container, 
venti container, lungo lungo,  
da questo capo dall’aria soffocata e stordita
fino all’altro capo del silenzio.
Io sono un orizzonte 
piegato sulla schiena… 
il mondo è offeso,  
le strade sono offese
le montagne sono offese 
l’acqua e la natura sono offese.
Qui c’è un autocarro, due autocarri, mille autocarri
da qui comincia un rosso viaggio
un lontano viaggio
colonne su colonne, carovane su carovane
caricano il respiro della neve 
caricano il bagliore della luna 
caricano i sorrisi che sono nelle culle 
caricano lâvuk e hairân5  
e poi uno per uno  
vengono scaricati da un vento bollente
nel caos! 


– Qua è debole la luce 
debole … debole 
l’hanno messa nel cavo d’acciaio dei carri armati,
e hanno bendato i suoi occhi!
Qui il canto è triste,
triste … triste 
lo hanno messo nella bocca di fuoco 
di un cannone e hanno cucito le sue labbra…
Qui la libertà è stata incarcerata
incarcerata… incarcerata
l’hanno messa in una scatola di proiettili 
e hanno messo la scatola sull’orlo della morte 
e hanno attaccato alla miccia!
Qui… qui… qui… 
qui è proibito al vento di accrescere il suo soffio
e di diventare muggito nella tempesta!.
Qui è proibito che i raggi 
inizino a camminare e crescano 
per diventare il rosso sole, 
ed andare sulla cima delle montagne!


[...]
Donna colma di miraggio e di cenere! 
Tu sei come un  racconto con lunghi capelli, 
e lunghe lacrime! 
Io sono lontano da te quanto la felicità. 
Io sono lontano da te quanto il paradiso. 
Ma sono vicino a te quanto quelle
grandi gocce imprigionate nei tuoi occhi, 
e sulla tua guancia polverosa!
Io sono il fumaiolo di una poesia in esilio.  
Il mio nome è Mam, 
vengo da Dûz6
vengo dalle pianure solitarie, 
sono figlio di campi solitari 
e cereali bruciati.  
Sono della regione sempre verde  
in cui  fiori e  farfalle sono vecchi, 
e i germogli sono corrotti,
in quella regione se per caso 
nasce un sorriso,
è muta la sua risata sin dalla nascita, 
la sua vista è dentro l’oscurità dalla nascita. 
In questo momento io sono qui, 
sottoterra,7  
in una malinconica metropolitana, 
ma vedo le tue chiome, 
vedo come il vento dell’annientamento 
le porta via per quel deserto. 
Sento il tuo colore, 
come in quella sera al tramonto
singhiozzando.  
Ora tredici anni sono trascorsi
l’esilio è diventato un palazzo 
in cui la stanza della malinconia
ha fatto ammuffire la mia pelle. 
L’esilio è diventato una lingua, 
che mi ha allontanato dalla mia costa, 
ha fatto ammuffire le mie poesie e 
la mia voce. 
L’esilio è diventato una polvere, 
che ha coperto il mio sguardo, 
il mio zaino, la mia attesa, 
la mia immaginazione,  
i miei ricordi e i miei occhiali! 
Ora tredici anni sono trascorsi  
l’esilio è la mia sposa, 
e con questa donna autunnale, 
fino ad ora abbiamo messo al mondo
una decina di figli autunnali con i capelli gialli!  
Qui è pieno di lampadine 
ma io sono ancora un fantasma:
«che cosa posso fare? 
Perché ci sono in me ancora 
le notti di Dûz!». 
Qui le vie sono variopinte 
i palazzi sono di vetro,
le caffetterie sono rosse e gialle, 
ma la mia interiorità è fangosa! 
«Che cosa posso fare?
Perché ci sono in me ancora
i vicoli di Mandalî  e Badra!».8 
Qui è tutto pieno di balli e di canti,
di canti in volo,
di baci di colombe che si posano, 
ma io sono muto, ancora. 
«Ma che cosa posso fare? 
Perché è in me, ancora, 
la carovana che è andata verso sud
la carovana che ha deportato la Kâlê». 
il cimitero dei lumi: Sherko Bekas
traduzione: Jamal Zandi

———————————— Note

1 Zinâna : è il nome di un villaggio nel Kurdistan meridionale, distrutto durante la Campagna di Al-Anfâl. La maggior parte degli abitanti è stata deportata nel deserto nel centro e nel sud dell’Iraq senza possibilità di fare ritorno. 

2  I morsi dei cani neri …: i testimoni parlano di cani neri tenuti nel carcere di Norga Salmân utilizzati per mangiare i cadaveri dei deportati. Infatti, Xeramân, una delle poche donne tornate da quell’inferno così ci racconta: «Tutti i kurdi che erano nel carcere di Nogra Salmân erano impauriti da quei cani, tutti ne parlavano. Quei cani non erano cani normali, avevano dei lunghi peli neri, erano giganti. Quando avevano fame, iniziavano ringhiare e abbaiare. Dicevano che essi abbaiassero per la carne dei kurdi incarcerati. Il loro abbaiare faceva tremare tutta la prigione. Ogni famiglia che aveva qualcuno, che era malato, temeva che il suo caro sarebbe stato mangiato da quei cani neri». Ella racconta la storia della morte della sorella del marito: «si chiamava Fatima ed aveva circa sessant’anni, è morta per malattia. Quando mio marito aveva portato il cadavere a seppellire, i soldati l’avevano preso, quando mio marito è tornato piangeva e diceva: ho visto che i cani trascinavano il cadavere di mia sorella».

Topzâwâ: è il nome di un villaggio kurdo situato a 20 chilometri dal sud di Kirkuk. Topzâwa, allo stesso tempo, è il nome di una caserma. Durante la Campagna di Al-Anfâl era diventata una dalle tappe dei deportati kurdi. In questa caserma la gente deportata veniva suddivisa in gruppi, considerando l’età, il genere ecc. I giovani maschi venivano portati per il deserto di Ramadi per essere fucilati e poi sepolti nelle fosse comuni; e le donne e bambini con gli anziani venivano deportati nelle carceri, come Nogran Salmân, per morire gradualmente di fame, di sete ecc. Topzâwa è stata la porta dell’inferno per i deportati kurdi. 

4 container: designa le prigioni provvisorie in cui i deportati erano internati e nello stesso tempo il tipo particolare di veicolo con il quale è stata realizzata la compagna di deportazione verso l’annientamento. Faraj, uno dei pochi, che si è salvato per miracolo, racconta di questi container: « Topzâwâ: in attesa di essere classificati, ci avevano concentrato nelle sale con poco spazio, in ogni sala c’erano 500/ 700 cento persone, si faceva fatica a respirare e muoversi. Le macchine con le quali ci hanno portato verso il deserto erano speciali, nessuno di noi le aveva viste in Iraq fino ad allora; erano come le ambulanze, ma senza una fessura per vedere o respirare, su ognuno facevano salire dalle 50 alle 60 persone».

5 lâvuk e hairân; sono due tipi di canti classici e tradizionali kurdi, molto spesso raccontano una storia; può essere elegiaca, epica o amorosa.

6 Dûz ossia Dûz Khûrmâtû: è il nome di una città kurda situata a 55 chilometri a sud di Kirkuk. 

7 Io sono qui / sottoterra: l’anno in cui è stata realizzata la Campagna di Al-Anfâl in Kurdistan, il poeta viveva in esilio in Svezia. 

8Mandalî e Badra: ;sono i nomi di due cittadine kurde nella provincia di Kirkuk. Dopo 13 anni delle caduta di Saddam Hussein il nuovo regime iracheno non le ha riconosciute come parte del Kurdistan; anche il nuovo regime insiste che quella zona non fa parte del Kurdistan e nega che quella regione fosse storicamente kurda. Il motivo è da ricercare nella ricchezza petrolifera della zona.   

 

Sherko Bekas

Sherko Bekas

Sherko Bekas (1940-2013) è stato un poeta curdo attivo nel Movimento di Liberazione Kurda a partire dal 1965. Ha lavorato per la rivista del movimento, «La voce dei peshmarga», e per il canale radio «La Voce del Kurdistan». Esule in Svezia dal 1987 a causa delle pressioni politiche del regime iracheno, riuscirà a rientrare nel 1992 dopo la ritirata del regime iracheno e l’istituzione del Governo regionale del Kurdistan. Eletto Deputato del Parlamento e successivamente Ministro della Cultura del Governo regionale del Kurdistan, sarà costretto a dare le dimissioni l’anno successivo. Nel 1996 è costretto a ritornare in Svezia e a vivere in esilio, fino al ristabilimento politico in Kurdistan nel 1998. Al suo ritorno in Kurdistan, nell’autunno del 1998 con un gruppo di scrittori e intellettuali fonda un centro culturale, il Centro della stampa e della pubblicazione contemporanea, del quale diventa direttore sino alla sua scomparsa. Nel 2001 gli è assegnato il premio Pîramêrd. Nel 2005 con un gruppo di intellettuali cerca di indire un referendum con l’obiettivo di dare al popolo curdo nel Kurdistan meridionale, con un plebiscito, la possibilità di esprimersi sulla propria indipendenza o sulla possibilità di restare con lo stato iracheno. Purtroppo i loro lavori e sforzi non hanno avuto alcun frutto. Nel 2005 gli viene conferito il premio Anqa Al-Zahbi, Fenice d’Oro, per la letteratura in Iraq. Nei suoi ultimi anni il poeta è stato più produttivo che mai. Nell’aprile del 2013 a Sulaimania gli viene diagnosticato un tumore alla laringe; è trasferito in Svezia dove muore.

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