In ricordo di Gian Piero Bona (1926-2020) | Per imbastire una rotta dell’altrove

Vi proponiamo un saggio attento e approfondito di Francesco Occhetto sul poeta e scrittore Gian Piero Bona – che ci ha lasciati il 27 ottobre 2020. Occhetto ripercorre alcune tappe fondamentali della sua biografia, conducendo un’analisi critica della sua opera poetica. A seguire una corposa selezione dei suoi testi, con la presenza di fotografie inedite.

Dall’irreale conducimi al Reale.
Dalla tenebra conducimi alla Luce.
Dalla morte conducimi all’Immortalità.
Brhadaranyaka Upaniad

Se volessimo concentrare in una sola metafora l’itinerario poetico di Gian Piero Bona (1926-2020) senz’altro potremmo ricorrere al tema della navigazione. La navigazione procura conoscenza ricordava spesso quindi la poesia è una barca: quando prendiamo il mare avanziamo nel mondo, riconoscendo e omaggiando l’assetto superiore delle cose. Il canto stesso è un vento a cui affidarsi per imbastire una rotta dell’altrove. La barca si limita a giacere sull’acqua, la vela del canto a gonfiare l’annuncio di un’enigmatica semplicità. E così la scrittura diventa quell’ipotesi di approdo, dopo aver a lungo assecondato i naufragi dell’anima, all’isola dell’ultimo mare cioè alla verità della poesia, che infine scomunica ogni idea di certezza e riapre l’interminabile viaggio dentro il mistero dell’esistenza.

Una navigazione lunga, quella di Bona, che per oltre sessant’anni ha solcato i mari della letteratura italiana in modo originale e assai appartato: ricostruirne le tappe significa farsi esploratori di temi per lo più inconsueti in ambito letterario, strettamente connessi ai mondi della mistica e della spiritualità. Poeta, romanziere, drammaturgo e traduttore, egli nasce in una famiglia di industriali piemontesi, già dall’infanzia mostra spiccate doti creative, educate ai gusti dannunziani del padre, colto bibliofilo esperto d’arte e poesia.  Precocissimo scrittore di versi, strani episodi di sdoppiamenti e visioni segnano la sua vita a partire dalla prima età. In un racconto inedito, Il ragazzo dalla doppia maschera, a tal proposito scrive: «Una notte, al chiaro di luna, guardando la mia ombra vidi una donna senza testa. Passeggiavo e l’ombra si allungò contro un albero; vidi un soldato. Spaventato rincasai e mi gettai in braccio alla mia governante, gridando: “Una sciabolata mi ha tagliato la testa e ora mi hanno dato una testa che non è mia”. Piangevo e Zezì mi consolava. “Che cosa siamo? Da dove veniamo? Perché siamo?” Cantava stringendomi: “nessuno lo sa, tranne Dio”. “E cos’è?” Essa mantenne il silenzio come il Buddha, dimostrando profonda conoscenza. […] In quell’istante si era stabilito il destino della mia mente: una dualità panica e ossessiva che avrebbe determinato fino a oggi i miei atti(1)».

Ragazzo sensibile, appassionato di libri, musica e astrologia, trascorre il periodo della Seconda guerra mondiale accanto a un amico speciale, Sergej Hepner Yonov, suo compagno di classe di origini ebree nascosto nel palazzo dei Bona per volere del padre al fine di salvarlo dalla deportazione nazista. Tra i due nasce un sodalizio profondissimo, umano e letterario, conclusosi soltanto con la fine della guerra quando Gian Piero partirà per il Medio Oriente, in cerca delle antiche civiltà perdute (vedi il romanzo L’amico ebreo, Ponte alle grazie, 2016). Nel 1951 sbarca in Egitto, dove legge per la prima volta Kavafis, per poi spostarsi in Iraq. Nei pressi di Baghdad avviene uno dei più significativi incontri della sua vita, reso noto dal romanzo L’apprendista del sole (Rusconi, 1989), quello con Mohamed, un Sufi mendicante incontrato sotto le rovine di Babilonia, «assorto in un riposo solenne, un assopimento dell’animo che la sua corporatura curva e robusta rassicurava come un porto di dolcezza»(2), il quale, in poche ore, gli consegna le chiavi di un sapere millenario e illuminante. Giunto nel Libano scopre, tra le mani di un militare, la versione inglese di Il profeta di Khalil Gibran, che per primo tradurrà in Italia; prosegue il suo viaggio in Siria e in Asia Minore. Ritornato in patria, preda di inspiegabili fenomeni psichici, inviato dalla governante Zezì, incontra nelle campagne torinesi Pietro Sacco, un guaritore contadino con particolari sensibilità e capacità spirituali, destinato a diventare, insieme a Mohamed, suo spirito guida. Nell’articolo che in seguito gli dedicherà, dal titolo Il contadino illuminato. Frammenti di una vita differente, scrive: «Leggo in un sâdhanâ di Râmakrishna: “Dio mi apparve nella mia giovinezza. Avevo undici anni quando caddi senza conoscenza in un campo, e da quel momento non fui più io stesso. Scorgevo in me un altro. Così quando adempivo ai miei doveri nel tempio, ponevo sulla mia testa i fiori destinati ad adornare le statue…” […] Anch’io avevo undici o dodici anni, quando davanti a uno specchio non riconobbi più me stesso, e da quel momento non fui più io. Sentivo in me un altro. Così portavo i fiori in chiesa per paura. Shrî Râmakrishna scorgeva un giovane sannyâsin uscire dal suo corpo, esattamente simile a lui in apparenza, che lo minacciava se non gli obbediva; gli ordinava di concentrarsi su Dio e gli insegnava ogni sorta di cose. Talvolta il ragazzo perdeva completamente la nozione del mondo, e quando il sannyâsin rientrava nel suo corpo egli rientrava in sé. Per me è stato differente, non vedevo creature monacali scintillanti emergere dal mio corpo e seguire scie luminose, ma impedivo che l’altro uscisse da me e prendesse il mio posto, come si fa con un nemico. Per lunghi dieci anni ho vissuto in due persone». Simili processi dissociativi della mente si sarebbero attenuati e risolti in una più serena comprensione soltanto a metà degli anni Cinquanta, grazie all’incontro con Sacco: «Mi accade spesso di non sentirmi più vivo. Vivo la mia vita fisica come se dormissi e sognassi. Allora tento disperatamente di svegliarmi da quest’incubo, senza riuscirvi. Non sono più io, ma un altro. La materia non ha alcun senso per me, e mi sento chiuso in essa come in una bara invisibile. “È perfettamente normale” mi dice. “Di solito un uomo vive nella realtà del mondo e quando si addormenta vive nella irrealtà del sogno e quindi si risveglia nuovamente. Tu invece vivi l’irrealtà del mondo ed è come se tu sognassi, e provi il bisogno di svegliarti a una vera realtà e continuando a dormire il dolore ti afferra. L’uomo comune riesce a svegliarsi dal suo sogno notturno, ma tu non riesci a svegliarti dalla tua vita quotidiana. Lui ha i suoi mattini dopo ogni notte, ma tu sei in una notte continua e cerchi il tuo Mattino. Lui si trova ancora nella zona dell’illusione, e tu, più in alto, nella zona della disperazione. Più in alto ancora sta la zona della gioia. Persisti. […] Pietro Sacco sembra un antico mandarino cinese, un vecchio abate, un fattore pacifico. Decine di ammalati ogni giorno suonano alla sua porta, e a tutti egli sorride, i più poveri li paga, egli ha realizzato il vero amore e vive sulla terra […] per condurre a termine il proprio Karma volontario (o rinascita)»(3).

gian piero bona, biblioteca

L’esordio come scrittore avviene nel 1955, con la raccolta poetica I giorni delusi, accolta da Vittorio Sereni nella collana «Lo specchio» Mondadori. Questa prima silloge mette in luce «il ricordo di un’esperienza greca», vicina agli ideali metastorici, puri e assoluti preconizzati dall’ermetismo e incarnati dalla traduzione dei Lirici greci di Quasimodo, ma in una accezione alessandrina, «compromessa con la storia e con concrete situazioni umane, pure nella sua preziosità formale»(4) (G. Barberi Squarotti). In tempi di polemiche antiliriche, anticlassiche e neorealiste Bona scrive un libro in cui traspare il sogno di una perpetua giovinezza dai sensi vivi e avventurosi, dove alle declinazioni elegiache intorno al tema del rapido tramontare delle cose, della bellezza e dei piaceri della vita, come risposta a una comune richiesta di «poesia che consola», si aggiunge una gnomica insistente e grandiosa della morte. Lungo la linea assoluta di derivazione novecentesca viene così avvertita la tragicità della posizione sociale del poeta contemporaneo, quanto più immerso nelle strutture borghesi tanto più asservito ai dettami estetici della società letteraria: la passione funebre, la violenza delle tenebre appaiono allora come precisa coscienza ideologica del proprio stato di alienazione, di diversità e di contrasto. In questa prima silloge Bona si presenta poeta raffinato e prezioso, cantore sagacemente e paradossalmente neoclassico delle forme elette del passato senza tuttavia dimenticare il destino di decadenza che accomuna la sua poesia al proprio tempo, entrambi alla mercé dell’appannamento di ogni grazia, di ogni puro sogno, dell’incanto e della magia del mito. A seguito della traduzione in lingua francese, Les jours deçus ottengono l’apprezzamento di Jean Cocteau che definirà Bona «poète extraordinaire». Nel 1961 pubblica invece il suo primo romanzo, Il soldato nudo, che desterà pareri discordanti per via delle tematiche sociali affrontate al suo interno: «Fu grazie a Comisso che pubblicai il mio primo romanzo. Parlare allora di omosessualità nelle caserme non era facile, anzi poteva apparire qualcosa di inaudito. Fui guardato con sospetto, messo al bando. In quel periodo ero a Roma. Avevo cominciato a lavorare per il cinema e la televisione»(5). E qui resta nel decennio degli anni Sessanta, amico, tra gli altri, di Sandro Penna e Giorgio Caproni. La sua poesia, intanto, si muove verso una maggiore sperimentazione formale e linguistica, dando prova di ampia versatilità sia nel campo tematico che stilistico. Nascono così Olimpiadi ’56 (1958), Il liuto pellegrino (1959), Eros Anteros (1962) e Alchimie della vita (1972): quattro opere poetiche uscite presso Scheiwiller che ne rappresentano bene il percorso evolutivo. Percorso che culmina, per quanto riguarda la prima fase della sua scrittura, con La vergogna (Guanda, 1978), raccolta dove Bona «ritorna alla poesia in modi piuttosto inconsueti anche per lui: l’epigramma o l’idillio rovesciato o la canzonetta, segnati dalla struttura chiusa, dal sigillo della rima, in una ricerca di densità e purezza che si avvale di accorte e spesso musicate censure, di malizie sintattiche e lessicali. È il richiamo della classicità, quale conviene alla vetusta freschezza dei temi, all’agonismo implacabile di amore e di morte. È l’amore cantato nelle varie fasi dell’esaltazione e dello sconforto, come accade a ogni amore, con un più, semmai, di provocazione e di sfida, anche linguistica. Ma il segno che adunghia più fermamente la passione d’amore è quello del malessere, dell’instabilità e consunzione, della morte appunto… Continua, diffusa e talvolta ingombrante, l’antica polemica di Bona contro la società contemporanea, contro l’engagement, riaffermando il proprio ruolo di poeta inattuale e visionario (“la mente è una colomba/ che attraversa le mura”), sedotto dai fenomeni paranormali, da misteriosi sdoppiamenti e trasmutazioni»(6) (L. Mondo).

Ristabilitosi ormai da tempo in Piemonte, dopo la parentesi lavorativa romana come sceneggiatore televisivo e cinematografico, nel 1980 è duramente segnato dalla morte dell’amico e maestro Pietro Sacco; la scena dell’ultimo dialogo tra il poeta e il guaritore (soprannominati rispettivamente Ondo e Occas) verrà così descritta in L’apprendista del sole: «“Dimmi ancora una parola, ti prego. Dimmi qualcosa che mi accompagni e mi soccorra nel cammino”. Il guaritore, che non poteva salvare se stesso perché la sua ora era giunta, guarì ancora una volta il povero poeta. Gli sorrise indulgente. Guardava con umorismo sublime la desolazione sul volto dell’allievo, l’ostinata vitalità, il cercare e il non trovare, il tormento del dubbio e l’assillo del cuore. Estrasse da una tasca un amuleto, una specie di moneta cucita in una fodera di cuoio e gliela consegnò. “È tuo”, disse. “Per tutta la vita vi ho infuso energie spirituali. Non è niente. Ma se tu lo vorrai potrà essere tutto. Serbalo. In esso ti do la mia pace”. Ondo prese l’oggetto, testimonianza di tutta la cura che Occas gli aveva prodigato in trent’anni, e si sedette accanto a lui. Nel presagio della sua fine imminente, spinto da grande amore, sfiorò con il labbro la mano del maestro e pieno di dolente gratitudine gliela baciò»(7).

Dopo essersi dedicato alla stesura di vari romanzi, tra i quali segnaliamo I pantaloni d’oro (Feltrinelli, 1969), Le dimore inquiete (Rizzoli, 1975) ma soprattutto Il silenzio delle cicale (Garzanti, 1981) che gli varrà la candidatura al premio Campiello, sempre negli anni Ottanta pubblica in poesia due opere, i Sonetti maestosi e sentimentali (Scheiwiller, 1983) e Agli Dei (Garzanti, 1989), dove la metrica assume il ruolo di «gabbia del nume tutelare»(8), luogo in cui le forme poetiche del passato ristabiliscono una sacralità alle parole, divinizzandole. Nello specifico, quest’ultima raccolta si apre con un poemetto di cinquanta ottave (Stanze per la morte di Pietro Sacco) dedicato al maestro scomparso; qui Bona si fa viandante dell’oltretomba in cerca del perduto compagno di viaggio attraverso un intreccio rituale, orfico e religioso di amore e morte, visionarietà e delirio, ricco di simboli, enigmi e fantasmi, spingendosi nell’ignoto deserto dell’assenza, convinto delle parole di Martin Heidegger, secondo cui: «Soltanto un dio può ancora salvarci. A noi rimane la sola possibilità di preparare, nel pensare e nel poetare, una disponibilità per l’apparire del dio o per l’assenza del dio nel tramonto; la possibilità che noi, al cospetto del dio assente, tramontiamo»(9).

Bona si incammina così sulla traccia degli dèi fuggiti nelle tenebre della notte del mondo: al poeta, il cui «canto si fa strada attraverso l’immondezzaio della storia, come l’unico reperto intatto perché sepolto, di quello splendore del dio che si è spento sulla terra»(10) rimane soltanto più la possibilità di preparare, nel pensare e nel poetare, una disponibilità, un ascolto, un’apertura fra le macerie per l’apparire degli dèi del tramonto. Tale convinzione è vivissima anche nella silloge successiva, Gli ospiti nascosti (Einaudi, 1990), dove il tema dell’Altro l’ignoto, l’angelo, il fantasma, Dio si compenetra al reale ponendone in risalto la natura indecifrabile e misteriosa, ricca di richiami ed echi sconosciuti, «piante/ che riflettono o pietre sul sentiero/ intelligenti o spiriti che insegnano/ nell’aula di una selva»(11). E allora poetare diventa captare le ombre, i riverberi, i riflessi dell’arcano, essendo tutto ciò che cade sotto il suo chiarore una chiave per aprire il segreto del Fondamento divino che sostiene in trasparenza l’ordine visibile delle cose. Secondo Bona, sulla scorta di quanto afferma Rilke in un celebre frammento epistolare, «il nostro compito è quello di compenetrarci così profondamente, dolorosamente e appassionatamente con questa terra provvisoria e precaria, che la sua essenza rinasca invisibilmente in noi. Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare dell’Invisibile…»(12)

Miti greci e religioni orientali, sensualità paganeggianti e saggezza delle Upaniṣad (non a caso sapienza di luoghi silvestri) convivono in Bona libro dopo libro in un tessuto di alta densità poetica, sprigionando lampi di luce che non solo tramutano l’oscurità in chiarezza, ma soprattutto l’enigma in conoscenza. È il caso di Oscure (Manni, 1995) dove dal viaggio nel mistero della vita, come pepita d’oro da cave nere, affiora la lucentezza dell’ignoranza: baluginante culmine di tutti i saperi. Nell’alveo di simile teologia negativa (come non pensare alla tenebra sovralucente di Dionigi Areopagita o alla docta ignorantia di Cusano) lo smarrimento appare uno stato necessario per incamminarsi verso la “traccia del sacro”. Un sacro spesso incomprensibile, frammentario, perduto ma ancora degno di essere esplorato, nella ricca selva di “segnali” della natura. «Cantare nel buio è un rischio, ma vale la pena di correrlo. […] Quando le intime essenze dell’uomo (amore, gioia, dolore, morte) si dissolvono, non resta che rievocare i sentimenti della vita per riempire il vuoto lasciato dall’assenza dei segni. Così per non perdersi nasce la disperata ricerca di un “segnale”»(13). Poesia come luce da inseguire per non perdersi, dunque, «triste malia di musa/ che può fra le spume assumere un lume»(14) e indicare un tragitto di salvezza.

Con il passare degli anni, il nostro poeta-navigante non sembra affatto stancarsi di seguitare il proprio viaggio verso il sole dell’altrove. In un maniero immerso nei boschi sulle colline torinesi, visitato da ninfalidi, picchi, gufi e amichevoli spettri, un tempo casa di monaci in vacanza le cui voci sembrano ancora intessersi al flebile sussurro del rio Cenasco e al trillo dei grilli canterini nell’erba trascorre il suo buen retiro, suonando il pianoforte, sognando di essere ritratto come il plenilunio di Elsheimer. Tralasciando le opere narrative e drammaturgiche nel frattempo pubblicate, unite a diverse traduzioni dal francese (prima su tutte quella delle Poesie di Rimbaud, uscita da Einaudi già nel 1973, seguita da Le opere di Radriguet, I fiori del male di Baudelaire, Gli amori gialli di Corbière e altre), tra gli anni Novanta e Duemila scrive e dà alle stampe alcune raccolte poetiche davvero significative. Del 2003 è L’ultimo mare (Aragno) in cui si assiste «a una traversata melvilliana nell’amnio del mistero per approdare alla luce della rivelazione»(15) (R. Crovi); quella dell’ultimo mare è la navigazione che sfida la morte e vuole approdare a una sorta di Isola dei Beati, un po’ come accaduto a Gilgameš. Esiste l’immortalità? Per quanto riguarda l’eroe mesopotamico questo sogno svanisce. Ma il nostro poeta-ulisside capovolge il significato del non ritorno, poiché ogni naufragio è un successo, per chi seppellisce nell’anima il feretro della vita. Dopo lo sbarco all’Isola dei Beati perciò si riprende il largo, ricominciando a viaggiare dentro il mistero («la somma delle verità»), per divenire infine «analfabeti alla deriva della gioia»(16), dove la deriva è la poesia stessa.

Facendo un balzo in avanti e tralasciando opere poetiche comunque importanti come, ad esempio, Canzonette priapee (ES, 2005) e Serenate all’angelo (Passigli, 2012), si giunge alle ultime tre raccolte edite da Bona, una specie di definitivo congedo in versi, fedeli a quell’unità di «autobiografia e cultura mitica, alessandrinismo e onirismo, sensualità vitali e suggestioni metafisiche, classicismo con nostalgia dell’equilibrio del rapporto natura/ cultura/ storia e manierismo orfico, affabilità crepuscolare e incisività analitica, barocchismo visivo e ironia loica»(17) caratterizzante l’intera sua produzione (R. Crovi). Con Le lontananze (Aragno, 2015) raggiunge infatti una sintesi compiuta del proprio percorso di poeta e, dopo aver scandagliato la cartina di tutti i mondi possibili in cerca della vita-altra, opta per la via rischiosa del navigante che torna alla patria natia. «Come il navigante, non veduto dalla costa, muove verso il porto, così ogni uomo che si muova sulla terra in modo nascosto si dispiega verso la propria origine misteriosa, e si fa quindi poeta. Ogni uomo che abita armoniosamente un luogo dimora nelle vicinanze della radice e si fa quindi poeta. L’origine non è la casa provvisoria e non può essere subito raggiunta. Il poeta abbisogna di un lungo cammino simile a quello del marinaio che ritorna in patria. Egli compie questo cammino, struggendosi nella lontananza e, nel contempo cantando l’origine, vi si approssima. Il poetare è un rientro, è il dirigersi verso l’approdo definitivo»(18). I testi qui raccolti, fortemente autobiografici, prendono a prestito dal Teatro dei Miti la declinazione della lontananza come verbo della verità; tanto più si fugge dal contingente e dalla separazione, dalle leggi che solo apparentemente scandiscono la geometria tangibile del reale, passeggiando in compagnia degli «esseri supremi presagiti che ti traghettano in salvo sulla riva opposta» (i morti, gli ospiti nascosti, gli angeli, le divinità della natura…), tanto più ci si approssima a una totale riconciliazione terreste e celeste, quasi sempre racchiusa in un panegirico che tenti di accordare il canto degli dèi scomparsi e guardi al presente come a un Parnaso abbandonato. «Ma quel Canto siamo noi, dalle rovine sepolto,/ abitato da enigmi che non disdegniamo/ perché nessuno sa d’essere stato divino.// Così ci apprestiamo di nuovo a imbarcarci/ sopra un cantico a vela per intraprendere il viaggio/ verso l’istmo che a se stessi riunisce»(19). E a simile golfo interiore dal quale attingere parole luminose pare davvero dirigersi l’interesse dell’autore, la conoscenza dell’anima è infatti per lui l’unica possibilità per «trovare in quest’ombra poderosa/ la meraviglia di scoprire/ finalmente qualche cosa»(20). Dunque poesia, ancora, come viaggio iniziatico e sapienziale.

Similmente, in Poema fatidico dell’ignoranza e della morte (Aragno, 2017) e La volontà del vento (Mondadori, 2018) si ripetono, in una gnomica della fine, scanditi dalla classicità limpida e preziosa della scrittura di Bona, le grandi metafore della sua poesia: «dolorosa differenza nell’attuale, malinconica lontananza degli oggetti, moderno coraggio del canto, viaggio pauroso nello sconosciuto, mirabile sorpresa della vita […] in una depurazione e rasserenamento di modi alla ricerca di valori estremi; eppure con un’ansia fisica e uno strazio del cuore, duro pedaggio del traghetto, pieno di ospiti invisibili, attraverso una Natura immensamente amata»(21). Per quanto riguarda il Poema in particolare, una specie di De rerum natura rovesciato, agli estremi di questo viaggio nei mari dell’anima ormai consunto di anni, perlustrazioni e scoperte, Bona ci offre l’ultima prova della sua originalità scrivendo un testo dove morte e ignoranza sembrano infine confluire nel senso di una liberazione, di una felice metamorfosi dell’esistenza in scintillante Essere: siamo nel territorio di una dicotomia che trova nell’ossimoro e nel paradosso la sua conciliazione, siamo nello spazio dell’indicibile che scava dal silenzio un suo linguaggio, muovendosi tra visione e profezia. Una «trenodia» dal tema universale profondamente umano, ineludibile capace, attraverso un andamento sinfonico dischiuso in undici cantiche, di mostrare la visionaria ampiezza di un momento eternante (ecco perché fatidico, rivelatore di futuro) che trasforma la meditazione della morte nel grandioso trionfo dell’Essere, sempre eccedente rispetto alle argomentazioni logiche. Poema dell’ignoranza perché frutto di un conoscere altro, che richiede l’attraversamento della conoscenza difettiva per la conquista di una conoscenza paradossale, e perciò esaustiva, fondata sull’individuazione di un non sapere illuminante, capace di zittire le presunzioni dei nozionismi accumulativi, razionalistici e limitanti; poema della morte, celebrazione di un’interminabilità salvifica, di un transito a cui non ci si può sottrarre, di un appuntamento che ci attende in quanto nativi e umani: non un vuoto, non un abisso ma, al contrario, la liberazione, la matrice primordiale che si converte, con “atletica ignoranza”, nella pienezza e nella fecondità della “vera conoscenza”, nella sapienza del proprio ignorare. Morire, dunque, come via di compimento e rinascita. «È nel momento/ della morte che differiscono i destini./ Nel tuo futuro entra a occhi aperti, ché riavrai/ coscienza della tua passata vita. Da te/ uscirai per mille fori, ma uno solamente/ ti porterà agli dèi: la saggezza della tua ignoranza»(22). Ebbene, come conoscere in vita si chiede Bona l’origine  dell’«inconoscibile causa/ che ci ha voluti al mondo senza spiegazione,/ dove ogni oggetto mirabile si forma e si dilegua,/ l’utile seme in un istante e nei millenni/ l’instancabile marina e il fuoco delle stelle»(23)? Non certo, per lui, mediante teologie dogmatiche e superbe, caliginose e presuntuose, protocollari e statiche. Abbandonando invece «soprattutto il senno, i sistemi,/ i criteri, il rigore, le discipline e le materie»(24) delle millantate verità dei dotti, confondendo «com’è d’uso fare, non la vita con la morte/ ma la morte con la vita» e riprendendo «senza imbarazzo […] le antiche/ favole che poggiano sulla salvezza»(25). E questo è possibile farlo soltanto infilzando la penna come fosse un’antenna, una calamita per attirare conoscenze superiori che diano plausibile ragione al nostro soggiorno terreno. «Ormai è chiaro; prendendo la penna in mano/ senti che diviene più docile a un potere/ arcano, inteso a illuminarla in questa/ esposizione; la segui e ti fa scrivere/ una cartella clinica del cielo»(26).

Dopo una lunga vita trascorsa a «scrivere tutto quel che c’è da fare/ in attesa della gloriosa meta,/ maritandosi alla furia del mare»(27), il nostro poeta muore il 27 ottobre 2020, «vate zoppo/ che si allontana dall’imboscata umana»(28) e prosegue il proprio viaggio nel mistero, verso l’altrove del suo vagheggiato Oriente, per sempre rinato all’altra sponda. Per l’artista «che legge/ ad alta voce il libro della vita»(29), cos’è mai, in fondo, la morte? Cibo spirituale, eternante, poiché chi se ne nutre non muore. In tal senso, concependo vita e morte come opposti, si ricade nella “follia del reale”. Compito umano è invece imparare che «la morte è solo un interruttore che chiude uno stato e ne apre un altro. Dobbiamo metterla fuori uso, fermare la ruota»(30).

A conclusione di questo ritratto di Gian Piero Bona, mi soffermo a grandi linee sulle premesse e sugli esiti sommari della sua poesia. Rintracciarne lo strumentario culturale composto da influenze letterarie, filosofiche e mistico-religiose è arduo poiché connesso a una polivalenza di interessi e affinità. La poesia di Bona fin dagli albori si impone come risposta antimodernista e “classica” rivendicando, con tono critico riconducibile a una crisi di insoddisfazione e di superamento delle prospettive culturali proposte dall’oggi, valori alti della parola che tuttavia non si separino dalla coscienza storica, nel solco di una compromissione alessandrina della classicità. Da qui la sua posizione estremamente solitaria, libera, controcorrente, polemica e perciò spesso ignorata dalla critica tout court. Una formazione, la sua, che guarda dapprima alla civiltà greco-latina (la cui eco continuerà a sprigionarsi anche nella maturità, se è vero che l’ultimo libro pubblicato in vita è una reinterpretazione drammaturgica dei Dialoghi di Platone) per poi spostarsi, in un’ottica esperienziale e dialettica, alle culture spirituali e letterarie dell’Oriente. A partire dalla giovinezza approfondisce lo yoga, si interessa tanto all’induismo (le Upaniad costituiranno una specie di talismano-oracolo) e al buddhismo quanto all’islam (in particolare le pratiche Sufi) e alla mistica occidentale (favorita rispetto alla teologia poiché basata sull’esperienza diretta e non sulla pura teoresi). Una specie di bestia religiosa, insomma, un uomo che ha saputo conciliare con senso critico e abilità discretive svariate fonti della spiritualità universale, per risalire alle radici di quella Philosophia Perennis che riconosce un’unica «divina Realtà consustanziale al mondo molteplice delle cose, delle vite e delle menti»(31). Sensibilità poetica di apertura cosmica e fortemente simbolica, sintetizzabile in tre assiomi: la natura dell’uomo è incorporea; la verità si trova sempre altrove; l’anima è la chiave dell’universo. Fedele a istanze formali neoromantiche (amava Byron, Shelley) così come ad alchimie estetiche proprie di Yeats (a cui lo avvicinava un’antica passione per Helena Blavatsky), la poesia di Bona tenta di accordare il canto delle paure originarie e inconsce dell’essere umano. Egli è stato poi impavido cantore dell’Eros, inteso quale «profonda meditazione del gesto proibito» che amplifica e «mette sul tavolo l’azzardo del nascosto»(32)  in essa ogni elemento terrestre ha diritto a esistere poiché valente come possibile “segnale” della stessa Realtà arcana ed eterna che è la trama e il fondamento invisibile di tutto l’esistente.

Come riferisce nel suo principale testo critico Destino e creazione (in Trame, rivista dell’Università di Cassino, 2002), solo gli uomini tramontanti hanno futuro, quelli cioè che sempre si interrogano e, assecondando il tramonto, si aprono all’Inizio; quegli uomini postumi i quali, ritraendosi dal mondo, partecipano alla sua “ultima verità”. Questa legge della lontananza ha scandito l’intero percorso umano e letterario di Bona: poeta della terra del tramonto, nocchiero dell’assoluto che intraprende il grande viaggio verso il vero se stesso (e perciò naufraga nella ricerca dell’Uno) imbarcandosi sul vascello di carta della poesia. Poesia significa per lui verità che si nasconde e così il senso del suo lavoro la disposizione “sacra” a ricevere qualcosa o qualcuno: attenzione al numinoso, all’invisibile, al perduto.

Se è vero dunque che in origine la poesia non era godimento estetico, ma azione, incantesimo, rito che realizza una presenza, per Bona ha significato l’estrema esperienza di un risveglio interiore, di un’abbagliante ricerca di tutto ciò che non sappiamo e che non sapremo mai, almeno sulla terra. Chi afferma il vero, afferma l’ombra. Avvicinarsi a quest’ombra implica coraggio e perdizione: cantare si fa allora “eterno congedo, grazia del saluto” per chi si avvia verso quel luogo oscuro dove si annida la luce della fatale rivelazione, davanti alla quale «ci si inchina e si viene solennemente accolti»(33). Ma ogni storia ammette d’essere informata fino a un certo punto. Ciò che segue è nascosto, inesprimibile a parole. Il poeta-navigante che torna al porto invisibile della sua origine, una volta giunto, non parla più. Unico a parlare sarà l’«uragano di pagine»(34) fitto di segni, mappe e costellazioni lasciato a suo ricordo.

Francesco Occhetto

Davanti alla stele funebre di un giovane uomo jonico

Perché non so fino a quando
imiterai nel tuo profilo
la neve dei sarcofagi d’Eleusis
dove la luna è antica
come una moneta sepolta nel mare,
e scenderà il tuo passo
leggero come una pausa di vento
dagli alti giardini d’Atene
dove il miele profuma nel pino
e i molli pavoni sull’erba
fanno tacite ruote,
io ti guardo
e piango gli anni che non tornano
e la tua giovinezza che si risveglia in me
come una tenera morte.

Il tuo cuore è fermo come una clessidra
che non è più stata capovolta
e io t’ascolto,
soave giovinetto di Jonia,
tanto mi è caro ripetere il tuo nome
oggi che non potrò chiamarti
e nessuno verserà nel tuo bicchiere
il biondo vino dell’isole remote.

Fosse almeno
perché non so che il tempo
continua a scorrere dal giorno
in cui ti cadde il sole dalle mani
e forse vivi, qui nel tuo segreto,
eterno e silenzioso come il mare
nel pallido ulivo della luna.

(da: I giorni delusi, Mondadori, 1955)

*

O non struggerti più, anima mia.
Stanco è il corpo che quaggiù hai scelto.
L’uccello non lascia traccia nell’aria
e il pesce nell’acqua. Così anche tu.
Che cosa mai è quest’umano esistere?
Convinciti che qui nulla rimane
e tuo malgrado verrai trasformata.
Dunque esaltati, invadi ogni dimora,
prova ogni emozione, abbraccia, urla, canta,
poiché tutto tramonta nella vita,
la luna e il sole ed il purpureo amore.

(da: Eros Anteros,  Scheiwiller, 1962)

*

Chi va contro la storia
e spoglia la cultura
troverà la sua gloria
nella sacra natura.

O poeta inattuale,
non cantasti la norma,
non l’ottusa morale,
ma il dio della forma.

Scriverai sulla tomba:
ebbe grande paura,
la mente è una colomba
che attraversa le mura.

(da: La vergogna, Guanda, 1978)

*

Stanze per la morte di Pietro Sacco

I

Morendo si diventa un dio? Oh i vivi
meriggi nella tua casa d’estate:
pigramente il tuo cancello mi aprivi
e m’invitavi dalle verdi grate.
Oh insperato in mezzo a melighe e rivi
il sentiero che mi guidava a te:
l’uva della tua pergola m’offrivi
ridendo sulle cose e su di me.

XI

«Oh visibile senza l’invisibile,
oh sapere libresco in cui si beano
le logiche idiozie dello scibile,
la tua barca affonderà nell’oceano.
Se un uomo immortale è dio e un mortale
dio è l’uomo e questo gli somiglia,
oh Psiche, chiusa nel tuo freddo male,
perché non canti tanta meraviglia?».

XXXVI

Non mi tradire, se ti dico che amo
questa natura disperatamente,
quando l’ultimo giorno nel richiamo
dondolerai nel folto della mente.

Quanti ospiti attirati dal mio lume
le sere d’estate: nittalopie,
simboli, enigmi, ninfalidi, piume
e tu fantasma delle mie poesie.

XXXVII

Scomparso sei in una cupa vallata,
ma il dovere degli spettri terribile
è guidare una penna desolata
a esprimere un verso inesprimibile.
Quand’eri assente assaporavo (oh!)
la gioia di rivederti in uno spigo.
Sperai. Invece te non rivedrò
mai più e la tua bruma è il mio castigo.

XXXIX

Ti ho amato fino alla disperazione,
in petto m’abiti come in un pane,
per disseppellirti con il bastone
raspo sotto la neve come un cane.
Questa fatica di ringentilire
la tua bellezza è vana, ma deserte
sento in me le tue ceneri fiorire
come la pioggia nelle tombe aperte.

XLVII

Nuvole nere sulla casa bianca,
grigie ondate sulla battigia e là
anima in pena sopra la calanca,
palo che la marea inghiottirà…
Scrivere tutto quel che c’è da fare
in attesa della gloriosa meta,
maritandosi alla furia del mare,
è qui l’occupazione del poeta.

(da: Agli Dei, Garzanti, 1987)

*

Come frutto beccato dal passero
sotto il lume si sfascia la mente
e un soffio invernale raggela
il mio dito sulla tua fotografia.

Aprivo la finestra e volavo.
Per tua grazia vedevo, felice.
Ora il ponte sul fiume è crollato
e ricaccio me stesso, nemico
che sprofonda nel vortice.

Musica cara del legno
dove ancora stormisci sul tavolo
in cornice, mio bosco venerato.
Ah, martirio di nascere poeta
per cantare ciò che non esiste più.

Per caso, se un mattino, all’alba
puoi figurarti il cielo a scala
tutto abitato da sapienti mondi,
e nel giardino udire piante
che riflettono o pietre sul sentiero
intelligenti o spiriti che insegnano
nell’aula di una selva, allora
làsciati pur prendere per pazzo e
gètta giù i tuoi libri dalla rupe.

Davanti alla tua casa, sulla soglia,
un ospite ti attende. Ti osserva
un viso sottinteso, contro il muro.
Ti chiama, ti saluta. Cos’è,
un fidanzato? Non lo sai. Ma
tremando ti arrendi a quell’invito.

(da: Gli ospiti nascosti, Einaudi, 1990)

*

Ospitalità

Cogli sempre gli echi e gli auspici.
Anche i gelsomini coperti dalle api
lavorano come opifici.

Regola la finestra sul risveglio
e poi sul sonno. Per te è il meglio.
Un atto senza affanno armonizza
con le cose che vengono e che vanno.

Descriverlo bene è il tuo dovere.
Leggendoti l’ospite non parte,
ma starà qui con piacere.
Questo è lo scopo dell’arte.

(da: Oscure, Manni, 1995)

*

Il navigante approda con azioni lievi
e persevera. La stella scelta nelle tenebre
di un tavolo è un fuoco sul prato dell’ignoto
e i cari oggetti dell’esule sopra l’argine
sono ombre accatastate dalla sera.

Molti si sporgono dalla murata che vaneggia
nel risucchio, ma non salpa la faccia che non ride.
Dormono i compagni dopo la tempesta
assorti nella pace dei cordami,
ma sulla camicia distesa al sole
non si asciuga la macchia del futuro.

Non aspettare ricompense.
Spruzzi cadono sui legni penosi. Quale
cosa ritorna? Al di là della fatica
riattorta nell’azzurra sigaretta
si leva questo vizio che è l’uomo
tessuto di tramonti e di voragini. 

Finalmente. La vittoria affranca il reduce
e benedice i suoi relitti. La rinascita
lo estirpa. L’attracco al molo è una visione
e alla parola dell’autunno rinsavisce
il mozzo che trasporta il sacco dei rifiuti.

Finalmente. Nelle pagine alla pioggia
sullo scrittoio della dogana scoperchiata,
nell’abito dei secoli smesso dall’eroe,
nel veleno svalutato sopra il banco
delle spezie, nel vespro innamorato
che rischiara il segnale turchino della morte,
finalmente sta il senso di ogni cosa.

China il capo. Ti annidi come un fregio
sulle spalle del fratello, tu unico salvo
nella bufera ideale. Fidanzato
allo squasso del veliero fino all’ultimo
epilogo, compendio di ossa e di profeti,
traini in secco l’annegato sublime.

Quassù la gentile lode dell’alba
ti battezza, inesprimibile, nel ballo
delle nuvole, tumulto di una luce
che dal vertice ti allaga. Così fra noi
rientrato da quest’isola, riprende il largo
solitario il marinaio analfabeta,
sospinto il labbro alla deriva della gioia.

(da: L’ultimo mare, Aragno, 2003)

*

Dare il senso alla pioggia

Grigia mattina dietro la finestra.
Il boscaiolo sega il paesaggio.
Il saggio non insegna niente.
Fugge lo scoiattolo della mente.
Per dove? Piove piove piove.

Nessuna preghiera per gli alberi.
Troppa festa per i cacciatori.
Dagli allori secchi cadono gocce
sugli ardori del poeta. Questione
che si pone: «Chi sono e di me
cosa resta?» E una goccia: «Sei me
dentro il mare». O disperare.

(da: Le lontananze, Aragno, 2015)

*

Epilogo

Afferrare un pugno di polvere
e dire: ecco le persone care

Spargere gli amori in mare e dire:
ho fatto girare la clessidra

Ricevere ceneri sul viso,
perché la brezza si è levata

Restare con la tua mano alzata
e vuota, e dire: ora li tengo

Salutare un turbine di sale
e dire: miei compagni, a presto

Non è follia, questo, del reale?

(da: La volontà del vento, Mondadori, 2018)

Bibliografia: scarica il PDF

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Miriam Bird Greenberg | “The Other World” and other poems

Miriam Bird Greenberg è una poeta e autrice americana, tra le voci più riconosciute del suo paese. Silvia Girardi e Antiniska Pozzi sono riuscite ad intervistarla per MediumPoesia. L’articolo che segue, è la prima parte di un dialogo avvenuto in questi mesi, la cui pubblicazione integrale seguirà nei giorni a venire. I testi sono accompagnati da una lettura in lingua originale ad alta voce dell’autrice e da una lettura in italiano della traduttrice Silvia Girardi.

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