“Al mio silenzio manca solo la mia voce”: chiudo il libro di Antonio Porchia – Voci -, pubblicato per Argolibri nel 2023, ed è esattamente questa la sensazione che provo, di fascinazione e, allo stesso tempo, di impossibilità di esprimerla. Gli oltre 450 aforismi presenti – o dovremmo forse chiamarli epigrammi, frammenti o poesie – emergono da un altro tempo e da un altro luogo come oggetti effimeri, eppure tangibili per la loro profondità di senso.
“Ogni voce poetica, mentre rinnova il nostro stupore di fronte all’esistenza delle cose, interroga sul perché esiste una cosa invece del niente”, scrive Charles Simic ne Il mostro ama il suo labirinto (Adelphi) e questo concetto si attaglia benissimo al lavoro di Porchia. Le sue, infatti, sono interrogazioni, sono ipotesi. Anche lui, come Simic, raccoglie brandelli, enigmi, schegge di una realtà transitoria alla quale cerca di dare un ordine. Ma niente segue la direzione attesa: il pensiero è labirintico, l’oggettivo diventa soggettivo e viceversa, assoluto e relativo si inseguono e si scambiano di posto: “Le piccole cose sono l’eterno e il resto, tutto il resto, è il breve, il brevissimo”.
E ciò che succede in questa raccolta non è un caso, se si pensa che l’autore fu un migrante non solo perché cambiò paese – nel 1885, si traferì con i genitori da Conflenti, nella provincia di Catanzaro, a Boca, uno dei quartieri più poveri di Buenos Aires, dove vivrà tutta la vita – ma anche perché cambiò cultura e riferimenti ritrovandosi a fare i conti con l’incertezza e la mancanza. Per questo, forse, il volume ha più volti. Da un lato, è un libro estremo, che giunge alla sua forma definitiva alla fine di una continua riscrittura, la quale corrisponde, del resto, a un percorso di vita solitario, quasi francescano, e disinteressato a correnti e schemi: non si tratta di uno scrittore professionista, infatti, ma di un pensatore raffinato che rimaneggiò a lungo le sue “voci” che stampò e donò nel 1943 e che solo cinque anni dopo entrarono in commercio.
Ma è anche un libro in cui si intrecciano temi e percorsi, in un gioco di rimandi e riverberi che testimonia la complessità del mondo e della poetica dell’autore. Qui, ogni confine diventa labile: quello tra uomo e Dio – negato eppure amato – tra uomo e mondo circostante e perfino tra uomo e uomo: “Situato in una qualche nebulosa lontana, faccio quel che faccio affinché l’equilibrio universale di cui sono parte non perda l’equilibrio”.
L’italo-argentino ha il passo del filosofo e del poeta. Le sue locuzioni non si avvicinano mai a formule matematiche come nei tradizionali aforismi perché sono sempre sostenute da un sentimento di fondo: il dolore, la nostalgia, l’amore e la solitudine precedono la scrittura e nella scrittura trovano un sigillo. La continua ricerca di risposte da parte del poeta o, anche, la sua necessità di un dialogo, di un confronto con l’altro che sciolga i dubbi durati una vita intera conferisce al testo una originalità che lo esclude da paragoni o confronti con opere in apparenza dello stesso genere. O forse, ancora, sono la consistenza sonora della lingua, il potere di dire e poi dissolversi e allo stesso tempo la capacità di permanere a lungo a rendere questa antologia anarchica come il suo ideatore. L’inconsueta attitudine di avvicinarsi all’umano, insomma, consente al testo di liberare le più impensate suggestioni.
Nel discorso tenuto a Monaco di Baviera nel gennaio del 1976, Elias Canetti (La coscienza delle parole, Adelphi) scrive a proposito della responsabilità dello scrittore che sia degno di tale appellativo: “La vita che lo pervade mille volte, e di cui egli percepisce separatamente ogni singola manifestazione, non si compendia in lui in un mero concetto, ma gli dà l’energia di contrapporsi alla morte e di attingere così a una sorta di universalità”. E nessuna importanza ha il fatto che l’opera scritta sia unica – come nel caso di Porchia – perché in lui succede proprio quello che Canetti magistralmente sintetizza: ciò che è personale diventa collettivo, ciò che lo attraversa e lo segna si fa destino comune. Le sue parole emergono dal silenzio, aleggiano nell’aria come fiato, rimangono nella memoria delicate e pungenti. Immodificate.
Una sola pubblicazione – che ha per titolo originale Voces – ha consentito ad Antonio Porchia di essere riconosciuto come scrittore: “Sei venuto a questo mondo che non capisce nulla senza parole, quasi senza parole”, scrive di sé. E questo è bastato.
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Cinque frammenti da Voci, di Antonio Porchia (Argolibri, 2023)
L’uomo non va da nessuna parte. Tutto gli viene incontro, come il domani.
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Vengo dal morire, non dall’essere nato. Dall’essere nato me ne vado.
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Chi perdona tutto deve essersi perdonato tutto.
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Chi vuole ferirti cerca la tua ferita per ferirti nella tua ferita.
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Chi ama sapendo perché ama, non ama.