- Tra i libri usciti negli anni Duemila puoi indicarne 5 fondamentali per il tuo percorso?
Grazie per la domanda posta, perché, dopo un quarto di secolo in cui mi sono dedicato quasi esclusivamente alla poesia, come autore e traduttore, mi permette per la prima volta di riflettere su un percorso costellato di scelte, incontri, ascolti, ma anche di rifiuti e abbandoni, talvolta delusioni, talvolta improvvise accensioni. Ogni cernita prevede un’esclusione, per cui questa risposta, forse domani o forse fra una settimana, potrebbe essere assai differente. Sono sicuro che dimenticherò delle voci, uomini e donne indispensabili per la mia crescita, ma tant’è…
Penso che la domanda riguardi i libri in versi per cui…
Éblouissements di Martine Broda (Flammarion, 2003), primissima poeta tradotta per «Testo a fronte», scoperta dopo un soggiorno parigino; è stato innamoramento a prima vista per la sua capacità di essere volo, illuminazione intermittente sull’esistenza. Studiosa di Celan, basterebbe questo per indicare il tutto. La poesia permette corto circuiti e connessioni tra sistemi-mondo. Sono molto contento che in tempi recenti Ornella Tajani se ne sia occupata.
Ruggine di Nelo Risi (Mondadori, 2005), penultimo libro del Maestro. Sarebbe sufficiente la sezione Ali in volo per spazzare via gran parte della produzione poetica attuale.
Salva con nome di Antonella Anedda (Mondadori, 2012), ma forse sarebbe più corretto indicare Tutte le poesie, uscite per Garzanti nel 2023, visto lo scavo, la riscrittura e il pensiero sottostante alla sua opera omnia. Il libro più complesso e stratificato della poesia italiana di questo scorcio di secolo.
Oremari di Giulio Angioni (Il Maestrale, 2013), ultimo in ordine di scoperta, ma preziosissimo per la visione, la descrizione delle radici, della terra, del lembo che solo provvisoriamente abitiamo.
Jucci di Franco Buffoni (Mondadori, 2014) per essere il più bel canzoniere di questi anni Duemila e un libro che segue la grande tradizione delle Confessioni in chiave poetica.
(Cinque sono davvero pochi, permettetemi di aggiungere: Calandrone, De Alberti, Annovi. Li nomino anche per indicare cinque poeti viventi nel totale, autori che a buon diritto le generazioni future inseriranno nel canone letterario).
- Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana? Per chi scrivi poesia?
Sì, spero che lo sia per tutti gli scriventi, in realtà. La poesia non ha di certo la capacità intrinseca di trasformare le esistenze, ma forse è lo strumento più potente e rivoluzionario di testimoniare e accogliere, prendersi cura dell’altro, riflesso di quel che siamo, della nostra condizione di essere finiti. Ogni nostro gesto, ogni respiro, ogni nostro battito è un atto politico e come tale pregno d’amore.
Sono d’accordo con Brodskij, la poesia è dono di Dio, per chi crede. Scrivo, perché non saprei fare altrimenti, alterno la poesia alla prosa (ho nel cassetto un romanzo e una raccolta di racconti) e al teatro; scrivo per necessità, forse se sapessi disegnare o suonare il piano, chissà… A parte queste considerazioni a latere, attualmente scrivo pensando alla persona amata, anche quando redigo recensioni o saggi critici…
- Senti di fare parte di una comunità poetica a cui aderisci? Com’è il tuo rapporto con altri poeti viventi e con chi ti legge?
No, non faccio parte di una comunità poetica, già l’espressione mi incute in sé preoccupazione e un senso di oppressione, non frequento circoli letterari et similia. Quasi mai vengo invitato a letture, festival, e va bene così. Come essere vivente entro ed esco nelle vite degli altri e delle altre in punta di piedi, con pudore; ho quasi sempre la sensazione di essere di troppo o di disturbare.
Sono un lettore attento, questo sì, “ascolto” tanto, tantissimo, e mi entusiasmo quando sento che i versi di autrici e autori risuonano in me e negli altri a cui li propongo.
Non faccio parte di una comunità poetica, ma ho la fortuna di avere amici poeti, ma appunto sono, in primis, amici. Simone Maria Bonin è il più bravo della sua generazione, e sì, è il mio migliore amico, il fratello minore mai avuto: ci leggiamo a vicenda (Tratti primi sono un esordio imperdibile), ci indichiamo autori e autrici, cassiamo i versi l’uno dell’altro, ci prendiamo davvero poco sul serio, per questo siamo profondissimi, abbiamo la stessa visione del mondo e ci sproniamo a migliorare; tuttavia la nostra relazione si basa sulla vita. È più facile che si parli di panificazione, di pruni, del nostro quotidiano più che di poesia in senso stretto. La stessa cosa vale per Antonella Anedda, Maria Grazia Calandrone, Franco Buffoni, Laura Liberale, Valentina Pasquon, Clery Celeste, Monica Matticoli, Luciano Mazziotta, con cui siamo poeticamente quasi agli antipodi, ma la stima per il lavoro dell’altro e l’affetto sono più forti di qualsiasi distinzione. E poi Gianluca D’Andrea, Andrea De Alberti, Gabriel Del Sarto, Gian Maria Annovi, il primo mio contemporaneo letto a vent’anni (abbiamo la stessa età) e a distanza di quasi venticinque anni non ho cambiato idea, per me Gian Maria è una delle poche voci che rimarranno.
Stimo molti autori giovani e non, che conosco poco di persona o che ho solamente “letto”, i quali si distinguono per una forte cifra stilistica riconoscibile, autentica.
Per i nati nei Sessanta: Bonito, penso che sia il vero punto di riferimento, un autore immenso; per gli anni Settanta: Santi, altro caposaldo di questi anni con il suo Quanti, Ventroni, Giovanni Turra, Fusco; mi piace davvero molto una recente scoperta, Annachiara Atzei; per gli Ottanta soprattutto Borio, Galal, Mansueto; per i Novanta: Vivinetto, Cucugliato e Ottonello.
- Senti di inserirti all’interno di una tradizione poetica italiana? Avverti una particolare vicinanza con tradizioni poetiche in altra lingua?
Franco Buffoni una volta mi ha detto: “Tu sei uno degli autori meno influenzati dalla tradizione italiana”. Stavamo presentando, alla Punta della Lingua, il X quaderno. Lo ringraziai di cuore, per la sua attenta lettura e analisi. Aveva e ha ragione.
Certo il mio poeta di riferimento è Leopardi, ma sfido chiunque a non considerarlo tale, e tra i libri “da capezzale” vi sono Saba, Bertolucci, Nelo Risi, Antonio Porta, Rosselli, Giacomo Noventa, Rossana Ombres e sicuramente tra i viventi Buffoni, Anedda, Lo Russo, per la loro visione poetica, per il loro dettato. Anche se la mia formazione è avvenuta altrove, essenzialmente mi sono immerso in altre culture, in altre voci.
In primis, la Russia di Marina Ivanovna Cvetaeva, la voce di Brodskij, Mandel’stam, la Achmatova; la Francia, sono intriso di cultura d’Oltralpe, ho tradotto e traduco Anna de Noailles, Martine Broda, André Pieyre de Mandiargues, di recente mi sono immerso in Simonne Jacquemard, che spero di poter proporre in volume, anzi se qualche casa editrice fosse interessata… E tra tutti Pierre Reverdy, di cui ho curato il poemetto Sabbie mobili.
Gli autori di lingua tedesca: Rilke, Celan, Sachs, Bachmann, Lasker-Schüler, Marti, la cui diffusione in Italia si deve all’importante lavoro del teologo e pastore Fulvio Ferrario.
Sì, a ben vedere, il bacino russo-franco-tedesco prevale nella mia formazione.
Se tra tutti questi nomi dovessi estrapolarne alcuni, la mia triade capitolina sarebbe così composta: Cvetaeva – Reverdy – Celan.
Sono molto aneddiano, anche per la passione che ripongo verso gli autori sardi, così simili, così concittadini per anima e radicamento a quelli russi (prendete in mano, a tal riguardo, la prosa di Anedda, Fazzoletti): dalla lettura e dall’ascolto di Francesco Màsala, di Benvenuto Lobina, di Montanaru, di Giulio Angioni, di Sergio Atzeni, dalle canzoni di Marisa Sannia e di Piero Marras si esce profondamente trasformati. Dopo di loro la mia scrittura non può più essere quella di prima. Grazie a queste voci ho dato corpo a una serie di racconti, ho dilatato in prosa lo sguardo, che prima cercavo di contenere, gli ho reso il respiro che la poesia spesso trattiene. In questi autori la circolarità sacra dell’ambiente incontra la verticalità dello spirito. E tutto questo permette di non eccedere, di rimanere saldi e fedeli alla vita stessa. È un atto essenziale, è sentirsi finalmente a casa, dimorare; ho persino imparato la limba.
Le distanze si colmano, è un fare ritorno.
Per questo al trittico succitato, aggiungerei ora Montanaru.
- Sapresti indicare una forma artistica e una disciplina scientifica, se ci sono, che influenzano più di altre il tuo processo di scrittura? In che modo entrano in poesia?
La mia scrittura risente sicuramente degli anni di formazione teatrale, degli studi dedicati all’arte in continua trasformazione tra tutte quelle esistenti. Penso ai grandi autori: da Vachtangov a Brook, da Grotowski, a François Tanguy. Inoltre, importante è stata la lezione di Antonio Attisani. E poi la cultura cinematografica: dal cinema classico americano, ai maestri europei, su tutti Resnais, Bergman, Tarkovskij; e ancora la pittura veneta, dai Vivarini a Tiziano, e fiamminga, sino a quella delle avanguardie. In poesia entrano attraverso i poemetti teatrali e i testi ecfrastici, presenti nel primo libro, Del dramma, le figure (Zona, 2015). In generale tendo alla teatralizzazione o alla resa plastica delle poesie. L’ultima raccolta inedita è strutturata in forma di poemetto, in tre tempi, come un’operetta, in cui la musica popolare (Battiato, Sannia, Testa, Mina) si fonde con il melodramma (Donizetti).
Per la disciplina scientifica valgono gli insegnamenti teologici? Sicuramente la dogmatica e l’etica protestanti hanno modellato e influenzato la stesura della Catechesi dell’abbandono. In fondo sono un poeta ecologista, come Gary Snyder, e socialista, dunque di sinistra, come Risi e Pagliarani, e di fede valdese, come lo era Jahier,
- Che rapporto hai con la metrica e la rima?
Nel Trattatello su Dante, Mandel’stam definisce l’italiano il sistema linguistico della musica, la lingua materna per antonomasia, quella più vicina alla zolla, alle radici e al cielo, l’elemento liquido e fluido della comunicazione. Nasciamo e impariamo a proferire parola e senza accorgerci ci esprimiamo attraverso suoni, che codifichiamo in versi. Tendiamo anche nel quotidiano a strutturare frasi minime o indipendenti che sono settenari o endecasillabi. Fa parte del nostro corredo genetico.
Quando a diciannove anni iniziai a “comporre” dei versi, a dare corpo a testi, che per fortuna non esistono più o sono andati perduti nei traslochi, la forma metrica e rimica erano diventate la mia ossessione, poi le ho azzerate, le ho rimosse.
Oggi tornano, talvolta palesi, talvolta mascherate in tutti i miei lavori, sia in quello appena uscito per Industria&Letteratura, Catechesi dell’abbandono, sia nel libro inedito, che dovrebbe uscire nel corso dell’anno.
- Tra le nuove generazioni ci sono 3 poeti che ritieni particolarmente preminenti o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?
Vi elenco due autori nati negli Anni Novanta:
Simone Maria Bonin
Giacomo Cucugliato
E un’autrice nata negli Anni Ottanta:
Serena Mansueto
0. Acer in fundo, se non vuoi dirci 3 poeti contemporanei che proprio non ti piacciono, puoi indicare uno o più testi del tutto distanti dal tuo modo di ‘sentire’ e ‘pensare’ la poesia?
Sento distanti dal mio ascolto e dalla mia poetica tutti coloro, tutte coloro che pretendono di avere la chiave di accesso a universi mondi, che pretendono di tagliare con l’accetta e vivisezionare la scrittura con strumenti chirurgici, creando categorie in cui la contaminazione e la valutazione critica, in realtà, risultano inesistenti. Non amo, per gusto personale, la produzione fredda, auto-celebrativa, l’eccessivo lirismo e nemmeno chi si ancora alle avanguardie degli anni Sessanta, come unico salvagente. Una volta un poeta si stupì del mio amore per Rossana Ombres, la voce femminile del Novecento: “Ma tu non sei sperimentale, sei lirico, come può piacerti”. Ho pensato a quanta pochezza in tale affermazione. Faccio un esempio pratico: grazie ad Anna Boschetti ho scoperto un autore eccezionale, come Olivier Cadiot, distantissimo dalla mia produzione eppure ha influenzato la scrittura molto più di tanti altri… Tra l’altro sono stato il primo a tradurlo in Italia. Non perdo il tempo invece a leggere i suoi epigoni nostrani, così come quelli di Ponge etc… A livello generazionale sono quelli nati tra i Sessanta e i Settanta. Ho lo stesso problema con figliocci e figliastri dei padri nobili e viventi della nostra letteratura. Mi chiedo: perché essere manieristi e scrivere alla De Angelis, Anedda, Lo Russo, Magrelli? È una prassi abbastanza frequente tra i più giovani, ma a che pro? Per bisogno di filiazione o di riconoscimento? Se voglio entrare in quella dimensione di ascolto, vado direttamente alla fonte… Confesso poi di avere più di qualche difficoltà ad affrontare la maggior parte dei poeti che pratica o ha praticato lo slam…
Insomma, anche senza fare nomi diretti, penso che si sia capito, no?
***
AGAR
Il tuo pianto smarrito nel deserto
La voce del fanciullo sotto il cespuglio
Il terrore dell’abbandono
Sentenziano la condizione perenne d’esilio dell’uomo
Se non fosse per l’amore incondizionato di Dio
Che salva gli emarginati e i disperati
E offre loro la fonte inesauribile della grazia
*
DEBORA e IAEL
All’ombra della palma
Presso la dimora di Dio
Colei che predispone corolle di miele
Obbediente profetizza
Per il suo popolo
La volontà dello Spirito d’amore
Dalla montagna discenderà una capra
selvatica
Ad offrire per la salvezza
Il latte riversato nella coppa dei principi
Prima che la Legge sia compiuta
E Colei che predispone corolle di miele
Salmeggerà esultante
Il primo Cantico di Benedizione:
Sante e Benedette
Le creature femminili che ricondurranno
Alla Pace i Figli di Dio.
*
LA VEDOVA DI NAIN
In mezzo alla folla hai riconosciuto
Nel destino di una donna,
Che stilla lacrime, addossata alla bara del figlio,
L’eguale condizione di tua madre
A cui resta che piangere il tuo futuro abbandono
Nella dignità del silenzio
Hai scorto il rispetto del dolore che non si rimargina
Se non nella certezza della speranza
Affidata alla nuda fragilità del pianto
da Catechesi dell’abbandono, Industria&Letteratura, febbraio 2025
*
Le mani sfiorano il tuo corpo
che conosco come il mappamondo
che tenevo acceso per paura dell’uomo nero
Riconoscerei la tua figura anche ora che
senza occhiali mi sento nudo e vero
*
Chissà se la Riva Sette Martiri potesse parlare
che cosa penserebbe di due umani che stretti
sfiorandosi parlano di risotti e libri, di voci ed isole
lontane, con troni e chiese antiche da esplorare
dicono e negano e poi prorompono in
un canto stonato e felice come il tramonto arancio
che incorona San Giorgio
Queste ultime due sono inedite, dalla raccolta Il tempo della guarigione
***
Andrea Breda Minello (1978) vive e lavora a Venezia. È poeta, drammaturgo, scrittore e si occupa di letteratura comparata e di studi di genere. Suoi racconti sono usciti per Empirìa, su “Nazione Indiana” e “Narrandom”. In poesia ha esordito in X quaderno di poesia contemporanea, con prefazione di Maria Grazia Calandrone, e ha pubblicato: Del dramma, le figure (Zona, 2015), Yellow (Oèdipus, 2018), Catechesi dell’abbandono (Industria&Letteratura, 2025), sulle figure femminili dell’Antico e del Nuovo Testamento, in chiave politica e queer.
Suoi testi sono stati ospitati su “L’Immaginazione”, “Versodove”, “Poesia”, “Nuovi Argomenti”, “Atelier”, “Poetarum Silva”.
Ha pubblicato l’atto unico Black Russian (Blonk, 2023).
Ha curato due libri: Se solamente di Julien Burri (Kolibris, 2010) e Poesie d’amore di Anna de Noailles (Arcipelago Itaca, 2019, finalista al Premio Marazza).
A livello critico ha scritto su Maria Grazia Calandrone (saggio sul suo teatro, contenuto nel volume Per voce sola), sulle poesie teatrali come midrash di Rossana Ombres, e sull’opera di Antonella Anedda, Franco Buffoni, Sara Zanghì.