I “percorsi del suicidio” di cinque poetesse del ‘900 (2) | Vita di Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Sylvia Plath

Francesco Cappellani e Tiziana Mainoli ci introducono alle vicende di cinque poetesse vissute lo scorso secolo, le cui vite sembrano accomunate dal compiersi di un atto estremo, tragico, come quello del suicidio. In questa seconda pubblicazione, le vicende delle poetesse Antonia Pozzi, Amelia Rosselli e Sylvia Plath.

Antonia Pozzi nasce a Milano nel 1912 da una famiglia facoltosa dell’alta borghesia, in un ambiente raffinato dove la cultura si intreccia con l’amore per il mare e soprattutto per la montagna. Allieva di Antonio Banfi all’Università di Milano, stringe una fervida amicizia con Vittorio Sereni e Luciano Anceschi. Inizia a scrivere poesie che però i suoi amici intellettuali, come Enzo Paci, Remo Cantoni e poi Dino Formaggio, della cerchia di Banfi, non apprezzano pienamente. Al liceo si innamora perdutamente del professore di latino e greco, amore che sarà testardamente osteggiato dal padre ma che durerà ininterrotto durante la sua breve vita. Ricorrerà in modo quasi ossessivo nelle lettere, nei diari, nelle poesie: “Nell’aria della stanza/ non te/ guardo/ ma già il ricordo del tuo viso/ come mi nascerà/ nel vuoto/ ed i tuoi occhi/ come si fermarono/ ora – in lontani istanti -/ sul mio volto”. Rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, non “secondo il cuore, ma secondo il bene” come scrive Antonia per ubbidire ai diktat del padre. Ma resterà l’unico vero e grande amore anche quando cercherà, per sfuggire all’angoscia del ricordo, altre avventure nella sua tormentata esistenza; a quel professore dedicherà tutta la sua opera poetica . Le motivazioni del suicidio della Pozzi “non si possono ridurre ad una delusione sentimentale, piuttosto vanno cercate nella difficoltà di coniugare spirito (poesia) e vita, Geist e Leben per un animo tanto appassionato e non incline al compromesso, e in quel terribile “male di nervi”, come lei lo chiamava nell’ultima lettera ai genitori, “che mi impedisce di vedere equilibrate le cose della vita” (5).

Nella poesia “Novembre” c’è già un accenno ad un gesto estremo: “E poi – se accadrà ch’io me ne vada -/ resterà qualche cosa/ di me/ nel mio mondo -/resterà un’esile scia di silenzio/ in mezzo alle voci -/un tenue fiato di bianco/ in cuore all’azzurro -//Ed una sera di Novembre/ una bambina gracile/ all’angolo di una strada/ venderà tanti crisantemi/ e ci saranno le stelle/ gelide, verdi, remote -/Qualcuno piangerà/ chissà dove – chissà dove -/ Qualcuno cercherà i crisantemi/ per me/ nel mondo / quando accadrà che senza ritorno/ io me ne debba andare”. Ed ancora nella poesia “La vita” del 18 agosto 1935 : “Alle soglie d’autunno/ in un tramonto/ muto // scopri l’onda del tempo / e la sua resa / segreta //come di ramo in ramo / leggero / un cadere d’uccelli/ cui le ali non reggono più”. 

Antonia ama andare in bicicletta e proprio in bicicletta, il 3 dicembre 1938, tornando dalla scuola milanese dove insegna, dirigendosi verso il prato antistante l’Abbazia di Chiaravalle, si adagia sulla neve dopo avere preso dei barbiturici, e si addormenta “sola come la prima anima della terra”. Sarà trovata da un custode alle prime luci dell’alba. Il padre negherà la morte “scandalosa” per suicidio attribuendola a polmonite, distruggerà il testamento della figlia, rimaneggerà anche molti scritti e poesie di Antonia allora del tutto inedite.  Passeranno quasi cinquant’anni prima che l’opera poetica di Antonia Pozzi potesse raggiungere nella letteratura italiana il posto che merita; uno dei pochi intellettuali ad averne colto in pieno il valore è stato Eugenio Montale che, riferendosi ad Antonia, aveva parlato del suo “bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina”.

Amelia Rosselli, figlia dell’intellettuale antifascista Carlo Rosselli barbaramente assassinato in Francia insieme al fratello nel 1937 su mandato di Mussolini, nasce a Parigi nel 1930. Il trauma per la fine brutale del padre e dello zio la tormenteranno per tutta la vita e contribuiranno in modo determinante ai disturbi mentali ed agli esaurimenti nervosi che le causeranno ripetuti ricoveri in clinica. Con la morte della madre nel 1949 le sue condizioni di salute peggiorano ulteriormente causandole una forma di schizofrenia paranoide, inoltre nel 1969 si manifesteranno i primi sintomi del morbo di Parkinson. Durante gli anni della guerra vive in Inghilterra e poi negli USA;  rientra in Italia nel 1946 e si stabilisce a Roma nel 1950. Inizia a frequentare gli ambienti culturali romani, conosce Carlo Levi e Rocco Scotellaro, e comincia a  collaborare a riviste come “Botteghe Oscure” ed il “Verri”. Alcune sue poesie, pubblicate su “Menabò”, attraggono l’attenzione di Andrea Zanzotto, di Giovanni Raboni  e di Pasolini; scrive negli anni sessanta recensioni letterarie sull’Unità e su Paese Sera. Nel 1964 esce la sua prima raccolta di poesie dal titolo “Variazioni belliche” a cui segue la raccolta “Serie ospedaliera”, il lungo poema “Impromptu”  ed altri scritti e saggi. Esperta ed appassionata di musica, nonché a suo agio con la lingua francese ma soprattutto inglese, ha una conoscenza profonda della letteratura anglosassone. Si innamora di Emily Dickinson di cui traduce dieci poesie; scrive Gabriella Sica (4): “In fondo, sia le poesia di Amelia che di Emily sono veri atti di terrore, splendide orchestrazioni visive e sonore del tragico, come se l’una avesse annunciato l’altra illuminandosi poi a vicenda”. Tra le due poetesse, nate ad un secolo esatto di distanza, c’è un’affinità di spirito che investe anche il senso religioso della vita e della giustizia, ma anche una profonda affinità letteraria e di vita, a cominciare dal rapporto con genitori “evanescenti” come dice Amelia, che le lasceranno sole, sempre più immerse in uno spazio mentale inquieto e sofferente. Tra le sue carte, non a caso, si troverà la fotocopia de “Le stanze d’alabastro” di Nadia Campana. Dario Lodi così descrive la poesia di Amelia: “la Rosselli fu soprattutto un essere umano notevole, sotto molti aspetti esemplare. La sua poesia è faticata, ripiegata su se stessa, orgogliosa e disperata. Sta in un labirinto, da cui non vuole uscire. Ci sta con stupore, ma ci sta bene e ce lo comunica con passione discreta, trattenuta, grave, enigmatica. Una poesia viva in sé, chiusa in sé, con lampi verso il cielo quasi involontari. E’ una poesia da leggere e rileggere per cercare di comprendere una autentica sofferenza”(6).

Amelia si suicida l’11 febbraio del 1996, lo stesso giorno in cui Silvia Plath, che la Rosselli aveva tradotto ed amato, si era tolta la vita 33 anni prima, gettandosi dal quinto piano, dalla finestra della cucina della piccola mansarda in via del Corallo dove abitava, vicino a piazza Navona. I suoi disturbi mentali l’avevano portata in maniera ricorrente a pensare al suicidio. Soffriva di ossessioni persecutorie, racconta il cugino Aldo Rosselli. Tre giorni prima era uscita da una casa di cura e sembrava star meglio. “La poetessa era spesso ospite di un giro di amici, che tentavano di colmare la sua grande solitudine. Senza successo. Quegli incubi dell’ adolescenza continuavano a tormentarla. Ieri il suicidio è stato tenacemente inseguito per ben due volte. Prima ha tentato di buttarsi da un terrazzino interno dell’ edificio, fuori della sua mansarda. Qualcuno le ha gridato di fermarsi, di tornare a casa. Amelia, docile, un po’ stordita, ha obbedito. Poi la telefonata a un’ amica cara,…..- , alla quale confida il suo disagio, la sua disperazione. “Aspetta, stai calma. Vengo subito da te”. Le parole non servono. Una corsa, l’ arrivo in via del Corallo, una porta spalancata, una sedia appoggiata alla finestra….” (7). Il commento di Enzo Siciliano da una chiave di lettura profonda di questo suicidio: “La sua stessa poesia forse l’ aveva fin troppo soggiogata e confinata anche da se stessa. Accade spesso che la poesia possa far torto alla persona del poeta: era questo il caso di Amelia”.

Sulla speranza “disperata” Amelia aveva scritto: “Stona la vita/ si spegne da sé/ la speranza si spiuma/ faticosa a mettersi insieme/ non ne vuol più sapere// i pensieri sono poi ovali, o opachi”. Ed ancora: “Mente separami dalla materia/ non perdere tempo, perdilo/ se devi, sulle colline/ della disperazione”.

Il caso della poetessa Sylvia Plath nata a Boston nel 1932 da madre austriaca e padre tedesco emigrato negli USA, è quello di una ragazza “invasa” dalla morte. Sylvia ha 8 anni quando muore il padre; ne riporta un trauma che influirà pesantemente sui periodi di acuta depressione che si ripeteranno durante tutta la sua vita. Molto presto inizia a scrivere poesie che pubblica su giornali minori. Si laurea nel 1955 a pieni voti con lode allo Smith College del Massachussets, ma già l’anno precedente tenta per la prima volta il suicidio, venendo ricoverata in un ospedale psichiatrico per disturbo bipolare della personalità. Successivamente, grazie ad una borsa di studio, frequenta l’Università di Cambridge dove conosce il poeta inglese Ted Hughes, che sposa nel 1956. Tornata a Boston insieme al marito, Sylvia frequenta i corsi di “creative writing” del poeta Robert Lowell, considerato il padre della poesia “confessionale”, che avranno una grande influenza sul suo stile di scrittura. Lì conosce la poetessa Anne Sexton, anche lei rosa dal tarlo del suicidio –  che compirà nel 1974. Sylvia, incinta di Frieda, torna in Inghilterra col marito nel 1960, e pubblica in ottobre la sua prima raccolta di poesie “The Colossus”. Dopo un aborto nel 1961 a cui farà riferimento in alcune poesie, nasce nel gennaio del 1962 il secondo figlio Nicholas. Nel giugno dello stesso anno la Plath tenta di suicidarsi uscendo di strada con la sua auto e finendo in un fiume; il mese successivo scopre che il marito la tradisce con la bellissima Assia Wevill: la coppia si separa a settembre. La Wevill si suiciderà nel 1969 insieme alla figlia di quattro anni. 

Dopo il doloroso fallimento del matrimonio, Sylvia affitta un appartamento a Londra dove aveva abitato William Butler Yeats e vi si stabilisce con i suoi due bambini. A partire da ottobre vive un’esplosione irresistibile di creatività, scrivendo quelle poesie che andranno a costituire la sua opera maggiore, “Ariel”, pubblicata postuma nel 1965. 

Intanto le crisi depressive diventano sempre più frequenti e disperate, contrassegnate da una agitazione costante, insonnia, pensieri suicidi ed una totale incapacità di affrontare la normale vita di tutti i giorni. Sylvia Plath viene trovata morta l’11 febbraio 1963 con la testa infilata nel forno col gas aperto. Prima aveva sigillato con cura la camera dei bambini per evitare che il gas vi potesse penetrare, ed aveva preparato sui rispettivi comodini  la loro colazione. Aveva 30 anni. Nelle poesie, scritte negli ultimi mesi della sua vita “Sylvia Plath diviene se stessa, diviene un’entità immaginaria, appena creata, creata fieramente e sottilmente….non un individuo, né una donna, né certo un’altra “poetessa”, ma una di quelle grandi eroine classiche, più che reali, ipnotiche”, così Robert Lowell la descrive nell’introduzione all’edizione originale del volume Ariel nel 1966 (8). Queste poesie, così personali, “riflettono una controllata allucinazione, l’autobiografia di una febbre”. Non sono l’esaltazione di una vita  particolarmente intensa, di una corsa affannata, ma dicono semplicemente “che la vita, anche quando è disciplinata, non vale la pena di essere vissuta”. E così, quasi alle soglie della morte, col garbo estremo della sua timidezza, difende la sua intimità intellettuale dall’invadenza di una realtà priva di luce e di senso. In alcuni versi della splendida poesia “Lady Lazarus”, contenuta nella raccolta Ariel, la poetessa americana sembra già giocare con una franchezza disarmante con la morte: “La prima volta successe che avevo dieci anni./ Fu un incidente.// Ma la seconda volta ero decisa/ A insistere, a non recedere assolutamente./ Mi dondolavo chiusa// Come conchiglia./ Dovettero chiamare e chiamare/ E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.// Morire/ è un’arte, come ogni cosa./ Io lo faccio in un modo eccezionale.// Io lo faccio che sembra come inferno./ Io lo faccio che sembra reale./ Ammetterete che ho la vocazione”. Ma leggendo attentamente si vede che tutta la poesia è in realtà una sofisticata esplorazione della responsabilità che tutti noi abbiamo nei confronti della nostra reciproca infelicità, e non soltanto una terribile e disperata testimonianza personale sul suicidio.

Francesco Cappellani

Tiziana Mainoli

  1. G.Morselli: “Il suicidio” a cura di Valentina Fortichiari . Via del vento, Pistoia, 2004
  2. P.Mathis: “I percorsi del suicidio”. Sugarco edizioni, 1979
  3. G.Davico Bonino e P.Mastrocola (a cura di): “L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del 900”. Mondadori Oscar, 1996
  4. G.Sica: “Emily e le altre”. Cooper editore, 2010
  5. A.E. De Gregorio: “Antonia Pozzi e la poesia che ci guarda”. www.filidaquilone.it/num023degregorio.html
  6. D.Lodi: “Le ossessioni di Amelia Rosselli”. www.homolaicus.com/letteratura/rosselli.htm
  7. N.N: ”Suicidio di una poetessa”. La Repubblica, 12 febbraio 1996
  8. S.Plath: “Lady Lazarus e altre poesie” a cura di G.Giudici. Mondadori, 1976
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