Negli scritti giovanili di Giorgio Colli (1938-1940), confluiti nel volume Apollineo e Dionisiaco, la filologia è vista come l’attività che studia il mondo e la vita solo per scoprire ciò che sta dietro a essi. Mi sembra che quanto emerso, nella diversità delle due vedute, abbia a che fare con questa accezione del termine filologia. Entrambi i discorsi, quello di Milo De Angelis e quello di Guido Mazzoni, poggiano sul riconoscimento di un’antitesi. Se De Angelis oppone l’espressione di sé al riconoscimento di una metrica e una tradizione, così come oppone la parola poetica a quella mondana, proprio quest’ultima costituisce l’equivalente delle small-talk che Mazzoni, nel suo discorso, oppone alla letteratura e di cui parla, ad esempio, in Quattro superfici (La pura superficie, 2017). Quest’ultimo, infatti, separa la vita dalla letteratura, la menzogna (necessaria alla vita in società) dalla verità (che la letteratura comunica). Ad un secondo livello, entrambi riconoscono un elemento paradossale: Milo De Angelis ammette che un autore voglia comunicare qualcosa che rimanga, pur essendo l’autore stesso portato a uscire dalle circostanze e da sé; Mazzoni, pur mettendo in evidenza la frattura che separa la vita sociale dalla letteratura, riconosce il bisogno proprio di ogni autore di mediare con il pubblico cui si rivolge chiedendo di essere compreso e assolto. Ad un terzo livello, più profondo e insieme di superficie, si manifesta per entrambi la stessa “tensione” alla verità: ciò che non permette a De Angelis di definire la poesia è anche ciò per cui Mazzoni attribuisce alla letteratura il compito di comunicare questa stessa, problematica, verità. Mi riferisco al fatto che «letteratura» e «vita», «poesia» e «chiacchiera», «verità» e «menzogna», tutti questi termini rimandano allo stesso terribile enigma, quello dell’esistenza che si “svela” per ciò che è: di qui la poesia come esperienza che tende allo svelamento, in De Angelis; di qui, in Mazzoni, la letteratura come “forma di disagio” per il nostro esserci così come siamo. Credo sia opportuno, dopo questa premessa, dare rilievo agli interventi di ciascun autore.
Milo De Angelis, nel suo discorso, fa emergere una concezione della poesia come qualcosa che è attraversato da un «contrasto»: da un lato si collocano l’espressione di sé, la «libertà assoluta», l’«anarchia», il «delirio» del poeta; dall’altro lato si impone il «rigore» di una metrica e di una tradizione con cui confrontarsi o a cui aderire. L’autore parla di «tavole della legge». La parola poetica è ciò che «senza la minaccia della propria fine», ossia l’atto di spezzare il verso, si trasformerebbe in «parola mondana». A differenza della «chiacchiera», essa conosce quel «silenzio ultimativo» di fronte a cui si deve andare a capo; mi sembra si tratti del silenzio mitico che lo stesso autore, in Silenzio senza segreto (Poesia e destino, 1982), descrive come «ciò che nasce quando cessa la domanda sulle sue cause e viene teso senza aspettative». L’esigenza che muove De Angelis – e, aggiungo, chi scrive poesia – è dunque quella di comunicare (seppure in maniera oscura) attraverso le parole, «strappare qualche sillaba al buio e consegnarla a uno sguardo». Queste parole provengono «dal luogo arduo e rinchiuso», forse da identificare con il proprio Io, la coscienza o ciò che precede la coscienza, «questa camera oscura in cui [le parole] sono confinate e chiedono di trovare una forma». Davanti a tutto questo il lettore deve sentire che il modo in cui la parola si compie era l’unico modo possibile; afferma De Angelis che «la parola deve imboccare quella via, una via obbligata». Il compito del poeta, quindi, è quello di «inchiodare la parola alla sua unicità»: la lirica, infatti, parla una volta sola e cioè «narra ciò che avviene una volta sola»; pertanto sembrerebbe che, per l’autore milanese, poesia e lirica debbano coincidere. Al tempo stesso, la poesia è concepita quasi come esperienza iniziatica che, mostrando «un tempo intero nel tempo microscopico del verso», tende all’«epifania» e allo «svelamento» del significato nascosto dietro quello immediato. L’autore parla a tal proposito degli attimi o, «lucrezianamente», atomi, riferendosi anche alle monadi della prima stagione poetica di Mazzoni (I mondi, 2010). «Che cosa è la poesia?» si chiede, nuovamente: il problema nasce dalla connessione del singolo testo all’universale. In definitiva, quindi, la poesia è qualcosa che ha a che fare con la verità. E, tuttavia, la poesia presenta un aspetto paradossale: chi scrive punta alla «permanenza», ma lo fa uscendo dall’attualità, dal commercio, dall’economia e, anche, uscendo da sé stesso. Conclude Milo De Angelis: «noi scriviamo con una parte di noi che non conosciamo interamente, che è nostra e non è nostra, che scaturisce da una zona oscura e segreta anche per noi, segreta e a volte sconvolgente; ma così dev’essere in poesia: per cambiare la vita di chi lo legge, un libro deve sconvolgere la vita di chi lo ha scritto».
Guido Mazzoni inizia il suo discorso a partire da una pagina di Albertine Disparue, il penultimo romanzo de La Recherche di Proust, in cui si legge che «la menzogna è essenziale all’umanità». La convivenza con gli altri è, secondo l’autore fiorentino, resa possibile dalla menzogna e dalla mediazione. Le parole d’uso quotidiano, infatti, sono costituite di «mediazione», «menzogna», «diplomazia», «ironia», «small-talk»: esse ci permettono di trattare gli altri – e noi stessi – con una forma di rispetto, di indulgenza. Nella vita in società l’uomo è – per dirla col Nietzsche di Su verità e menzogna in senso extramorale – «spinto a concludere la pace», si tratta del «veniamoci incontro» detto alla fine di un litigio, sono le menzogne necessarie all’esistenza. La letteratura, secondo Mazzoni, come già affermava il poeta in dialogo con Franco Buffoni durante la rassegna MediumPoesia: Poesia & Contemporaneo, «è o vuole essere o deve essere l’antitesi di tutto questo. La letteratura è il lato oscuro della luna: il suo compito è cercare di dire la verità». Occorre specificare che l’oggetto del suo discorso è la letteratura e non la poesia perché ritiene che la poesia non abbia uno statuto speciale, ma sia solo uno dei tanti generi letterari, quello che ha il suo proprio nell’egocentrismo cui rimanda. L’autore, inoltre, si discosta dalla «mistica» che, afferma, «la poesia ha accumulato su di sé nei millenni e, in particolare, dal romanticismo in poi». Pur opponendo «menzogna», necessaria alla vita, e «verità», che la letteratura ha il compito di veicolare, Mazzoni riconosce alla letteratura una natura «doppiamente paradossale». Il paradosso risiede, in primo luogo, nel portare «in pubblico una verità privata» e chiedere a quello stesso pubblico di «accettare una verità che corrode»; si tratta, quindi, di una «pratica antisociale» fatta in società e dunque ancora «intrisa di menzogna e cioè di seduzione». Ciò si spiega facendo riferimento alla natura della vita sociale e della vita personale: «entrambe sono fatte a mosaico: lasciano delle nicchie nelle quali si può dire ciò che non si può dire in altre nicchie». La seconda ragione di questa paradossalità poggia sul fatto che la letteratura «ha la forma di un discorso confessorio» e chiede, pertanto, assoluzione. In ogni «atto espressivo» risiede, dunque, un elemento asimmetrico e insieme violento. Chi scrive letteratura, secondo Mazzoni, non è un adulto, ma è ancora un adolescente che non accetta pienamente la vita adulta e le sue mediazioni. La letteratura, conclude, è «quel groppo in gola immotivato» proprio dei ragazzini che fanno i duri ingigantendo i problemi; «il suo unico motivo è il nostro esserci, il nostro esserci così come siamo».
Valentina Murrocu