Amicizia e amore. Un racconto da “Aureole e tigri dal mondo queer” di Franco Buffoni

Proponiamo il racconto d'apertura del nuovo libro di Franco Buffoni, "Aureole e tigri dal mondo queer. Racconti di un'altra letteratura" (Il ramo e la foglia, 2025), con la relativa bandella introduttiva. Copertina: Kirill Fadeyev, "Good morning!", 2023.
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Questo libro vuole essere anzitutto la testimonianza di un cinquantennale impegno, umile e costante, vòlto a dare dignità letteraria ad alcune istanze provenienti dal mondo queer.
Perché, negli anni della mia formazione, quelli come me, a destra venivano considerati degli sporcaccioni, al centro dei peccatori, a sinistra una degenerazione borghese. Non era così, naturalmente: la classe operaia, di quelli come me, ne contava tanti quanti le altre classi sociali, solo che stavano nel closet. Ma, come diceva Mario Mieli, bastava frequentare i vespasiani per rendersi conto di quanti proletari en battuage li frequentassero.
La situazione, almeno nel mondo occidentale, cominciò lentamente a cambiare con il Sessantotto, in un crescendo culminato il 17 maggio 1990 con la dichiarazione dell’OMS, che definì l’orientamento sessuale di quelli come me “una variante naturale dell’umana sessualità”. Dunque nessuna malattia, nessuna cura: nessuna terapia riparativa.
Questi racconti sono stati scritti nella convinzione che qualche giovane possa trarre motivo di orgoglio e rinnovata dignità.

***

a)“L’amicizia è superiore alla parentela perché dalla parentela può venir meno l’affetto, dall’amicizia no”. Questa sentenza, tratta dal De Amicitia ciceroniano, mi sembra la più adatta per iniziare la riflessione su “What kind of friendship? Dal Bloomsbury Group al Maurice di E.M. Forster”.
Cerco anzitutto di sintetizzare su tre punti il concetto di civiltà culturale, declinandolo artisticamente. Perché i Poetae Novi, detti anche cantores Euphorionis o neoterici, nel I secolo a.C. a Roma, come Valerio CatoneLicinio CalvoFurio BibaculoElvio Cinna – e sopra a tutti Catullo – potevano permettersi di ardere d’amore per Clodia, alias Lesbia, ma anche per Giovenzio, come nel catulliano Carme 48, cantando entrambe le attrazioni con la stessa intensità e la medesima dignità letteraria? Perché non si era ancora verificata l’irruzione di Saulo nelle lettere greche: un’irruzione apportatrice di istanze ebraiche tra cui quella che oggi definiamo omofobica.
Con quella irruzione, la situazione cominciò a cambiare, fino a giungere all’editto di Costantino, e poi, con Giustiniano, all’inizio delle persecuzioni per i Giovenzio’s lovers, costretti a mimetizzare i loro amori sub specie di amicizia. L’ultimo a cantare tale specie di amori ormai proibiti – come ricorda anche Leopardi – fu Nonno di Panopoli: poi su quel tipo di legami per oltre un millennio calò ufficialmente il sipario. Tant’è vero che i Poeti del Dolce Stil Novo di fine Duecento – Guinizelli, Cavalcanti, Cino da Pistoia, Dino Frescobaldi, Guittone d’Arezzo, e sopra a tutti Dante – pur non essendo le loro pulsioni e i loro desideri diversi da quelli dei Poetae Novi, non poterono che mostrarsi unidirezionali nella narrazione poetica dei loro amori. Avevano ben interiorizzato, nella civiltà culturale in cui si trovarono a vivere, la differenza tra amicizie amorose e passioni dicibili, e amicizie amorose e passioni indicibili.
Proseguendo con l’efferata sintesi, da novi a novo a neo, ricordo come – dopo le folgori rappresentate da Saba e Penna – fu con la Neo-Avanguardia degli anni Sessanta che poeti e scrittori cominciarono a fuoruscire palesemente dagli esiti dell’irruzione di Saulo. Difatti insieme a Umberto Eco, Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, annoveriamo Alberto Arbasino, che scrisse e subito pubblicò libri quali Anonimo lombardo e Piccole vacanze, reimmettendo in circolo ufficialmente la tematica dell’amicizia amorosa per i Giovenzi catulliani. Pur se ancora in una situazione elitaria. Poi, col tempo, avremmo assistito alla ricaduta pop della fuoruscita dalla irruzione di Saulo. Anche solo vent’anni fa sarebbe stato impensabile che a Sanremo Mahmood e Blanco cantassero insieme Brividi, o che Nemo vincesse l’Eurofestival.

b)Il romanzo Maurice di E.M. Foster venne pubblicato in Inghilterra nel 1971e fu subito tradotto in italiano, ma era stato scritto nel 1914. E da esso nel 1987 venne tratto l’omonimo film.
Lo stesso accadde all’Ernesto di Umberto Saba, composto nel 1957 e pubblicato postumo nel 1975. Anche da questo romanzo, nel 1979 venne tratto un film per la regia di Salvatore Samperi.
Persino I Neoplatonici di Luigi Settembrini, composto intorno al 1870, venne pubblicato postumo solo nel 1977.
Perché questi tre libri – Maurice, Ernesto e I Neoplatonici – trovarono spazio editoriale solo in seguito all’ondata libertaria portata dal 68? Perché era iniziata a livello di massa la fuoriuscita dalla civiltà culturale che abbiamo visto imporsi a partire dalle persecuzioni di Giustiniano.

c)Un comune sentire elitario nei primi decenni del Novecento in Inghilterra si configura nel convincimento che – malgrado i risultati ottenuti dai governi laburisti, o di coalizione coi laburisti, riassumibili nelle diciture Welfare State, National Insurance e National Health Service – non ci si potesse ritenere soddisfatti. I giovani oxbridgeani volevano “tutto”. E il sogno di quel tutto non poteva configurarsi nel socialismo fabiano. Per realizzare quel sogno occorreva rifarsi a istanze totalitarie marxistiche o persino nazional-socialiste: indicativo il fatto che, mentre Auden si dichiarava marxista, il suo compagno Christopher Isherwood fosse iscritto alla British Union of Fascists di Mosley. Più in generale si può affermare che, nell’intero mondo anglosassone, l’intellighenzia giovanile era molto portata a snobbare i meccanismi dello stato di diritto, considerati stantii retaggi piccolo-borghesi, a favore di soluzioni “etiche”.
Ricordiamo al riguardo la storia della conversation society denominata The Apostles, attiva presso il Trinity College a Cambridge sin dall’Ottocento, che nei primi decenni del Novecento divenne un club d’élite per “iniziati”, caratterizzato da raffinate riunioni conviviali con brindisi a “bellezza e verità” e fortissimi legami amicali. Ma anche da grande simpatia per la rivoluzione sovietica. In poco tempo The Apostles divenne il crogiuolo per la formazione di un gruppo elitario di spie britanniche a favore dell’Urss, capaci di rimanere “coperte” per decenni, come Sir Anthony Blunt e Guy Burgess, fuggito in Urss nel 1951. Blunt in seguito confessò che il suo era stato in pratica un caso di coscienza: dovendo scegliere tra la lealtà verso l’Inghilterra e quell’intreccio di fedeltà amicale e marxismo che era la lealtà verso i brothers di Cambridge, scelse la seconda.
Perché è vero che è lunghissimo l’elenco degli artisti che furono anche agenti o spie – da Kipling agente in India a Maugham spia in Svizzera e Urss durante la I Guerra mondiale; da Graham Greene a Durrell, Ian Fleming e John Le Carré; e forse anche a Noël Coward e Evelyn Waugh – ma furono tutti in vari modi collaboratori dell’Intelligence Service del loro paese e a favore dello stesso.
Con The Apostles invece il quadro cambiò radicalmente: il sogno di liberazione dal moralismo vittoriano e edoardiano si intrecciò con l’ideologia marxista e il nemico primo e unico di quei giovani divenne l’establishment britannico al quale appartenevano le loro famiglie: come si legge nel romanzo Il fattore umano di Graham Greene, in cui il protagonista accetta di lavorare per i sovietici e, una volta scoperto, si rifugia a Mosca. Greene chiama Castle il suo uomo, ma in realtà la storia somiglia a quella della celeberrima spia Philby, già apostolo a Cambridge. E ancor più verosimilmente è Philby il protagonista di La talpa di John Le Carré, con il nome di Bill Haydon, spia pro-Urss. Emblematico il titolo originale del romanzo, evocativo di complicità collegiali e appelli nei cortili, sguardi d’intesa e incontri segreti in spogliatoi e aule di scienze vuote: Tinker, Taylor, Soldier, Spy.

d)Il club degli Apostoli fu crogiuolo anche di un’altra memorabile associazione, perché Toby Stephen, apostolo a Cambridge, ereditata dal padre Sir Leslie una vecchia villa nel quartiere londinese di Bloomsbury, non solo decise di andare ad abitarvi con le sorelle Vanessa, pittrice, e Virginia, scrittrice, ma anche di ospitarvi frequenti riunioni con gli amici provenienti in particolare dal Trinity College di Cambridge.  Fu proprio sotto l’egida dell’amicizia e del Bloomsbury che Virginia, poi divenuta Virginia Woolf, espose le linee essenziali di Una stanza tutta per sé, che sarebbe diventato il romanzo-manifesto del femminismo non soltanto inglese.
Il Bloomsbury Group fu attivo dal 1905 al 1940, anno del suicidio di Virgina Woolf. Impressionante è la gamma di argomenti che con le loro opere gli amici del gruppo riuscirono a coprire: dalla letteratura all’economia, dai gender studies ante litteram alle scienze sociali, dalle arti plastiche e figurative alla musica.
Lo spirito di solidarietà e amicizia che cementava il gruppo potrebbe ricordare il contemporaneo gruppo fiorentino degli ermetici che si riuniva alle Giubbe rosse (Carlo Bo, Mario Luzi, Piero Bigongiari, Oreste Macrì, Leone Traverso, Renato Poggioli tra gli altri) con però due fondamentali differenze: il gruppo fiorentino era dedito soltanto alla poesia, alla critica e alla traduzione di poesia; inoltre nel gruppo fiorentino, a differenza del Bloomsbury, le donne non svolgevano alcun ruolo di rilievo.
Nel Bloomsbury invece, oltre a Virginia Woolf, ebbero un ruolo notevole le pittrici Vanessa Bell e Dora Carrington, nonché l’economista John Maynard Keynes, il musicista Saxon Sydney-Turner, il critico d’arte Roger Fry, i letterati Lytton StracheyClive Bell, l’editore Leonard Woolf, marito di Virginia, che con la Shakespeare and Company pubblicò James Joyce. E soprattutto il romanziere Edward Morgan Forster, di cui ora ci occuperemo in particolare. Basato su un forte senso di amicizia, di complicità, di ribellione all’ipocrisia borghese, va anche ricordato che il Bloomsbury Group si rafforzò nel dolore dopo la prematura morte di Thoby Stephen nel 1906.
Nel film The Hours girato nel 2002 dal regista Stephen David Daldry, Virginia Woolf è interpretata dall’attrice australiana Nicole Kidman. Co-protagonista è Meryl Streep. Finemente appropriati appaiono i costumi, le capigliature, i fiori, i giardini, le sigarette, e soprattutto l’inflessione elitaria dell’inglese cockney: la parlata snob dell’upper class londinese. Con quell’espressione “This is so trivial” che a un certo punto viene pronunciata, connotando uno specifico clima, una precisa intonazione socio-culturale. Perché l’amicizia all’interno del Bloomsbury era contraddistinta anche da una forte venatura di anticonformismo e di snobismo.
Nello specifico, in una delle inquadrature finali, appare la preconizzazione del suicidio di Virginia, avvenuto per acqua, death by water, allo scoppio della Seconda guerra mondiale. E in quella commistione dei piani temporali, che solo il cinema riesce a realizzare, Nicole Kidman, alias Virginia Woolf giovane, che non ha ancora composto il suo capolavoro, Mrs. Dalloway – già si comporta come se fosse ella stessa il suo personaggio; Julianne Moore invece sta leggendo il romanzo Mrs. Dalloway come se fosse già stampato; infine Meryl Streep è Mrs. Dalloway in persona a Nuova York, mentre sta organizzando una festa per il suo ex fidanzato malato di Aids.

e)Edward Morgan Forster (1879 – 1970), come gli altri appartenenti al Bloomsbury avversava il moralismo vittoriano e post-vittoriano, tanto che poi si sarebbe schierato contro la censura a D.H. Lawrence e al suo Lady Chatterley’s Lover. Ma a differenza degli altri giovani colleghi e amici non era un estremista, non simpatizzava per le soluzioni “etiche”, anticamera di quella totalitarie: era semplicemente un liberal, che nel mondo anglosassone significa un radical-socialista, un progressista, molto acuto sia come romanziere sia come critico. Illuminante al riguardo una sua recensione radiofonica al Riccardo III di Shakespeare. Forster racconta di essersi recato a teatro insieme agli amici, e tra questi c’era anche un bambino di undici anni. Il quale, alla fine della prima parte, chiese allo scrittore “Is that all?”. Forster rispose di no e il bambino replicò “Oh good”. Al termine della rappresentazione il bambino chiese ancora “Is that all?” e lo scrittore rispose di sì. Al che il bambino replicò: “Oh dear”. Forster considera: Oh good e Oh dear descrivono bene la natura di una chronicle play come il Riccardo III. Oh good significa che siamo contenti che debba continuare. Oh dear significa che ci dispiace che sia finita. Perché non possiamo mai essere sicuri che una chronicle play sia davvero finita. Essa si basa sulla storia/history e la storia/history non si ferma mai. Quindi vi è sempre qualcosa di arbitrario nella sua conclusione. Non è come la storia/story, la storia di Amleto per esempio, capace di donare, alla fine, una netta sensazione di conclusione.
Inquadrati in questo modo il personaggio Forster e la sua sagacia, potremmo chiederci: perché la trama di Maurice è così lineare? Nei due romanzi maggiori di Forster – A Room with a View (1908) e A Passage to India (1924) – lo schema di confezione narrativo è molto complesso, teso a fare scoppiare contraddizioni e a far esplodere desideri repressi, sullo sfondo di un setting esotico: ricordiamo che per un anglosassone del primo Novecento, non solo l’India, ma anche Firenze e i suoi dintorni costituiscono un setting esotico. Forster, certamente, avrebbe potuto costruire una trama complessa anche per Maurice, ma non lo fece: si limitò a raccontare una favola, un apologo, un bel sogno. Proprio come in precedenza aveva fatto Luigi Settembrini con I Neoplatonici, il cui manoscritto venne custodito, e lasciato inedito per oltre un secolo, alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Settembrini: un padre della Patria ottocentesco, perseguitato, torturato e imprigionato dal regime borbonico, traduttore dell’opera omnia di Luciano di Samosata, costretto a fingere di avere tradotto dal greco classico di Aristeo di Megara (un autore mai esistito) la storia della splendida amicizia amorosa durata tutta la vita tra due giovani, poi ex giovani, Callicle e Doro.
Perché, allora, la trama di Maurice è così semplice e lineare, così poco costruita, se si vuole così poco fosteriana? Perché l’Inghilterra del 1914 non avrebbe tollerato in nessun modo quella narrazione. Quindi era preferibile raccontare una bella storia utopistica, con la foresta, the greenwood – quindi: la natura – che accoglie e protegge per sempre Maurice e Alec come un paradiso terrestre. Perché complicare la bella storia dei due amici/amanti che decidono di vivere facendo i boscaioli pur di poter stare insieme per sempre? Così Foster decise di confezionare una semplice trama di amicizia amorosa, irrinunciabile e indissolubile, per gli amici del Bloomsbury, che la lessero subito, e per gli altri che l’avrebbero letta dopo la sua morte, quando i tempi – finalmente – fossero stati propizi.
Per Forster, in perfetto stile Bloomsbury, non aveva importanza l’appartenenza di genere delle persone coinvolte in un rapporto di amicizia o in un love affair: gli stessi Leonard e Virginia Woolf, pur essendo sposati, coltivavano entrambi le loro amicizie amorose same sex. Si può affermare che tra i membri del Bloomsbury la bisessualità e l’omosessualità fossero estremamente diffuse e accettate: in altri termini le praticavano e ne parlavano. Poi però c’era il mondo esterno, e il contesto sociale al di fuori del Bloomsbury era fortemente oppressivo. Forster dovette tenerne conto e non pubblicò il romanzo, lasciando come in sospeso Maurice e Alec a vagare nella natura, roaming the greenwood.
La conquista della libertà nella natura non è certo un espediente letterario nuovo. Nella seconda ecloga delle Bucoliche, Virgilio narra del pastore Coridone, che vive in sintonia con la natura, e del giovane Alessi: “Magari ti piacesse abitare con me la campagna umile e le capanne povere, e cacciare i cervi, badando al gregge degli agnelli! Insieme a me imiterai nei boschi il canto di Pan”.
Il topos arcadico aleggia anche in molte delle narrazioni in cui si cerca di fondare un ecosistema nuovo e sostenibile, all’interno del quale essere amati è possibile. Pensiamo anche soltanto alla Pantisocracy di Coleridge e Southey – formata inizialmente da dieci coppie che si sarebbero poi riprodotte – da realizzare sulle sponde del Susquehanna in Pennsylvania. 

f)Quali sono le cause storiche di tanto accanimento censorio e autocensorio per una storia come quella di Maurice nell’Inghilterra del primo Novecento? Oltre alla non ancora avvenuta fuoruscita dall’irruzione di Saulo a cui si accennò all’inizio della riflessione, scopriamo un’ulteriore, più contingente risposta se scorriamo la storia anglo-francese del primo Ottocento. Perché il codice penale francese scaturito dalla Rivoluzione aveva abolito i cosiddetti reati “immaginari”, quali eresia, stregoneria e sodomia, come si chiamava allora l’omosessualità. Al seguito delle conquiste napoleoniche, questa impostazione illuministica si diffuse, trasformando la Francia nella terra promessa per i numerosi cittadini inglesi sospettati e indiziati di indulgere all’unspeakable vice degli antichi greci. (La definizione è dello stesso Forster nel Maurice).
Si verificò così una recrudescenza senza precedenti nell’atteggiamento ostile verso i “sodomiti” in Inghilterra, perché gli inglesi – nemici per eccellenza di Napoleone – non potevano che incrudelirsi nei confronti di coloro che “il francese” tutto sommato ormai proteggeva. Ciò accrebbe nel severo e ipocrita establishment britannico il mai sopito terrore che soldati e marinai potessero farsi contagiare dal “morbo francese” svirilizzandosi e perdendo la voglia di combattere. Da qui le terribili punizioni, frequenti soprattutto in marina, con impiccagioni per i colti in flagrante e migliaia di frustate comminate al minimo sospetto. Il diritto marittimo inglese così recitava: “Di tutti i crimini di cui un marinaio può macchiarsi, questo è il solo per il quale non è prevista alcuna pietà”.
A ciò si aggiunga che la società inglese ottocentesca è profondamente, capillarmente “religiosa” nel senso più deleterio: superstiziosa, formalistica e opprimente. Ricordiamo per esempio la tacita messa al bando di Platone dai programmi accademici. Come scrisse l’arguto Thomas Love Peacock: “Nelle nostre università Platone è ritenuto poco meglio di un corruttore dei giovani”.
Ricatti e impiccagioni precedute da gogna di fronte a folle sempre più isteriche e inferocite, divennero all’ordine del giorno in Inghilterra, con fatti di cronaca sempre più eclatanti, come il suicidio dell’arcigno, severissimo e ultraconservatore Ministro degli Esteri di Sua Maestà, Lord Castlereagh, che dopo aver partecipato al Congresso di Vienna si tagliò la gola perché ricattato. Il ministro amava la compagnia di giovani travestiti ed era caduto in una trappola mentre era in compagnia di “a young man disguised as a woman” in una molly house. 
Intanto sul continente Karl-Maria Kertbeny inserisce per la prima volta in uno scritto scientifico in tedesco la parola “omosessualità” nel 1869. In Inghilterra però la situazione non migliora e addirittura precipita nel 1898 con il processo a Oscar Wilde e la sua condanna a due anni di lavori forzati. In questo quadro si spiega perché sarà soltanto nel 1976 – sei anni dopo la morte di Forster, e cinque anni dopo la pubblicazione di Maurice – che la parola “omosessualità” finalmente potrà approdare sulle pagine dell’Oxford English Dictionary. Ricordiamo che Forster nel 1898 aveva diciannove anni, e la condanna di Wilde restò per sempre come un incubo nella sua memoria.
Elisabetta II, regina d’Inghilterra fino al 2022, era salita al trono nel 1952, l’anno in cui venne arrestato Alan Turing, l’informatico che era riuscito a decrittare i codici segreti nazisti. Ma era omosessuale e questo bastò perché si procedesse alla castrazione chimica cui fece seguito il suicidio dello scienziato.
Nel 1954 si trovavano nelle prigioni britanniche più di mille persone condannate per aver compiuto atti omosessuali tra adulti consenzienti. Mediamente, fino al 1955, in Inghilterra le condanne a pene detentive variabili da sei mesi a cinque anni per omosessualità furono circa ottocento all’anno. Ciascuno di questi casi significava arresto, ricerca delle prove, perquisizioni domiciliari e della corrispondenza: in pratica la rovina sociale e familiare della persona inquisita.
La situazione mutò solo con la contestazione degli anni sessanta. E Forster potette assistere alla depenalizzazione dell’omosessualità in Inghilterra; nel 1969 ci fu la rivolta newyorkese di Stonewall, e nel 1970, poche settimane prima della morte, seppe della nascita del Gay Liberation Front inglese, nel cui Manifesto leggiamo: “Abbiamo recitato per tanto tempo. Siamo attori consumati. Adesso possiamo cominciare a vivere. E sarà un gran bello spettacolo”. La via era aperta per il primo Gay Pride londinese del 1971.

g)Nel film Maurice del 1987, interpretato da Hugh Grant e Rupert Graves con la regia di James Ivory, appare dapprima il racconto dell’amicizia collegiale tra Maurice e Clive. Maurice e Clive appartengono alla stessa classe sociale ricca e privilegiata. Maurice vorrebbe il “per sempre” con Clive, mentre Clive rifiuterà quel “per sempre” scegliendo per sé il matrimonio con una ragazza appartenente alla loro stessa classe sociale.
Così la ragazza, divenuta moglie di Clive, giunge a chiedersi come mai Maurice non si faccia più vedere. Concludendo: “Si sarà trovato una ragazza da qualche parte”. Per educazione e mentalità non è in grado di concepire altro.
Un raffinatissimo espediente messo in atto da Forster per descrivere la condizione infelice in cui è andato a cacciarsi Clive con il suo matrimonio di copertura è il nome della giovane moglie: Anna Woods, che costituisce una sorta di controcanto alla Greenwood in cui si rifugiano Maurice e Alec.
Mentre Clive – che un’altra vita l’ha conosciuta e poi rifiutata per rimanere all’interno delle convenzioni e degli usi della sua classe sociale – capisce benissimo che cosa ha trovato Maurice. E il suo sguardo si spegne per via della scelta ipocrita che ha compiuto.
Maurice ha trovato la propria controparte in un’altra classe sociale, nel giovane guardiacaccia Alec: e lo sguardo acceso di Alec significa “per sempre”. Maurice appare incredulo mentre accetta quel “per sempre” sfidando i pregiudizi e le convenzioni della sua classe sociale di provenienza. Il rapporto culmina nella scena al molo di Southampton: la nave Normannia sta per salpare per l’Argentina, dove Alec dovrebbe seguire il fratello maggiore che emigra in cerca di fortuna. Maurice vi si reca per salutare Alec, per vederlo un’ultima volta. Ma Alec non appare. Quando Maurice comprende che Alec ha deciso di non partire, capisce anche dove si è nascosto, quindi: dove lo sta aspettando, e lo raggiunge.
Scrive Forster: “Per molto e molto tempo Maurice fissò la scia della nave, quindi si volse verso l’Inghilterra. Il suo viaggio era quasi compiuto. Doveva arrivare alla nuova dimora. Aveva evocato l’uomo latente in Alec, e adesso era venuta la volta di Alec di evocare l’eroe latente in lui. Aveva compreso quale era il richiamo e quale doveva essere la sua risposta. Loro due dovevano vivere al di fuori della “classe”, senza rapporti con chicchessia e senza denaro; dovevano lavorare e rimanere legati l’uno all’altro fino alla morte”.
Fondamentali appaiono due affermazioni: “Not for me”: non posso mimetizzarmi, dice Maurice a Clive; e ancora: “I’m of the sort of Oscar Wilde”, dice Maurice al proprio padre, il quale risponde “rubbish”.
Ma qui comincia il problema sia per Maurice e Alec – perché il loro legame non potrà mai essere socialmente accettato – sia per il narratore Forster, che deve concludere la sua storia. Ed escogita la soluzione del nascondimento di entrambi nella natura, quel roaming the greenwood ancora possibile nell’Inghilterra del primo Novecento ricca di boschi.

h)L’attenzione su Maurice si è riaccesa nel 2021 con l’uscita presso l’importante editore newyorkese Farrar Straus and Giroux del romanzo Alec di William Di Canzio, statunitense di origini italiane nato nel 1949, che in pratica riscrive la storia di Maurice e Alec, non più dal punto di vista della upper class (che era quello di Forster e del suo protagonista Maurice), ma da quello della lower class, cioè di Alec, il giovane guardiacaccia che rinuncia a una vita migliore in Argentina pur di vivere con Maurice. Li avevamo lasciati nel 1914 nella foresta di Sherwood a fare i boscaioli in un edenico trip favolistico-naturalistico, l’unico loro concesso dai rigidi costumi dell’Inghilterra del tempo. Nella nuova narrazione li ritroviamo allo scoppio della Prima guerra mondiale, che avrebbe sconvolto le vite di milioni di loro coetanei europei.
In sostanza il romanziere Di Canzio, nostro contemporaneo, scrive il seguito della storia, rendendola originale grazie all’escamotage di mutare il punto di vista, cambiando il personaggio protagonista, e raccontando la storia del proletario Alec dalla nascita fino all’adolescenza, quando viene assunto come guardiacaccia nella tenuta del padre di Clive, dove incontrerà Maurice.
Va ricordato che Forster aveva dapprima concluso il suo romanzo con una scena in cui Maurice e Alec, cinque anni dopo, nel 1919, quindi a guerra conclusa, vivevano ancora felici nella foresta di Sherwood facendo i boscaioli. Ma che poi espunse quel finale, probabilmente perché influenzato dall’opinione negativa dell’eminente critico Lytton Strachey, che pure faceva parte del Bloomsbury Group, e che così si espresse: “Da come lo descrivi, sarei propenso a diagnosticare le emozioni di Maurice come semplicemente lussuria e sentimento – una faccenda molto traballante; azzarderei una rottura dopo sei mesi, principalmente a causa della mancanza di interessi comuni dovuta alle differenze di classe. Il finale nella foresta di Sherwood mi sembra leggermente mitico”.
Nel romanzo Alec di William Di Canzio a fare durare brevemente la storia di Alec e Maurice nella foresta ci pensa la I Guerra mondiale, alla quale i due giovani non vogliono sottrarsi, con Alec arruolato in fanteria a partecipare alla battaglia della Somme, e Maurice arruolato come tenente e inviato sul fronte mediterraneo. Entrambi riescono a sopravvivere e li rivediamo sei anni dopo sullo stesso molo di Southampton in partenza con la stessa nave Normannia non più per l’Argentina, ma per New York to start a new life dopo aver combattuto per la libertà.
Infine, il termine latino amicus ha la stessa radice etimologica di amare: amicus, pertanto, significa letteralmente “colui che si ama”.

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La Maddalena Sardegna

Isolatria. Una possibilità di lettura postcoloniale dell’opera di Antonella Anedda

Si propone la relazione riveduta di Francesco Ottonello tenuta al convegno dell’Università di Napoli L’Orientale “Isole e ponti. Per una topologia linguistica e letteraria dell’isolamento” (18-20 ottobre 2021 – Palazzo Corigliano, Napoli).
Una lettura critica dell’opera di Antonella Anedda attraverso una peculiare ottica postcoloniale, connessa alla dimensione dell’isola.

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