Nota introduttiva di Rita Iacomino
DISREGOLAZIONI O DEL SABOTAGGIO DELLA LINGUA
Disregolazioni è il titolo che Valeria Cartolaro ha dato alla sua raccolta di versi, un titolo, a mio parere, programmatico. Cosa sono le disregolazioni? Operazioni atte a rendere irregolare qualcosa in origine regolato? Il prefisso dis- sembra funzioni da invertitore di senso: è un trasmutatore di valore. Posto davanti ai sostantivi ne cambia il valore in negativo, utilizzato davanti ai verbi, diventa rinforzo e straniamento dell’azione verbale. Insomma abbiamo qui un libro che raccoglie versi come ordigni, essi esplodono qua e là tra le righe mettendo a dura prova la lingua con tutte le sue strutture. Ci troviamo, in queste pagine, tra passaggi rapidissimi d’immagini; la scrittura non indulge in descrizioni, è asciuttissima, troviamo pochi aggettivi, ogni immagine evocata è incalzata da quella successiva che ne sposta e approfondisce il senso, come per uno slittamento continuo e spiazzante: “Le porte si chiudono / qualche spazio per questi uccelli cade / taglia il cielo, rimane / da dire all’ospite dello straniero / una nuova terra distrutta giorno su giorno / smonta gli oggetti, questi interlocutori / stupidi a cui ripetere una cantilena”. Qui le spezzature sono così radicali che quasi ne sentiamo il rumore, un rumore di porte che chiudono e spazi che cadono, di oggetti smontati e irrisi.
Altrove leggiamo: “Schiocchi le dita schiocca il cranio / vicinissimo si tagliano la lingua / alle spalle di tutto le luci di chi vive / manteniamo aperti questi condotti / l’aria che respiriamo / di quei crolli che sono molti / ragliano nelle teste quei cieli / mi guardi scendere sulle mani / potare i letti del fiume per raccogliere / i loro detriti frugare / negli assorti giorni / bere dalle radici”.
Abbiamo qui, con ‘schiocchi’ e ‘schiocca’, una ripetizione, qualcosa come un’onomatopea che si tramuta, nel secondo verso, dove “vicinissimo si tagliano la lingua”, nell’immagine fisica, corporale, di una lingua che si ‘stacca’, e staccandosi ‘schiocca’, poiché qui si tratta di un parlare come uno ‘scoccare’ di frecce, uno scrivere che si fa voce e risuona.
E tagliare la lingua non è che uno dei tanti interventi netti e radicali nella direzione di un rinnovarsi della lingua stessa e un rinnovarsi attraverso disregolazioni. E di tagli o allusioni a strumenti che recidono ne troviamo sparsi, in queste pagine, parecchi.
D’altro canto il ‘taglio’ della lingua non è che la chiamata in causa della ferita che il linguaggio stesso rappresenta, ferita procurata ab origine poiché esso ci predispone ed espone ad una realtà che, nominata, sfugge. L’attacco al simbolico allora passa attraverso una poesia inscritta nell’automatismo psichico di memoria surrealista con cui, raccomandava Breton, “ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altre maniere, il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero, con assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica o morale”[1].
Scopo dei surrealisti era l’emersione dell’inconscio, quello stesso che custodisce, secondo Lacan, Lalingua. I versi di Valeria Cartolaro spiazzano le attese del lettore, attese che sono dissipate e capovolte perché la lingua, la nostra lingua, riposa nella consuetudine e nell’ovvio fin quando non arriviamo lì dove “vicinissimo si tagliano la lingua”. E tagli sono il ripetersi delle ‘potature’, parola che incontriamo più volte e carica del suo doppio significato di bere e di sfrondare.
Credo che l’autrice cammini coraggiosamente su quel crinale tra noto e ignoto, “potando i letti del fiume”, “bevendo alle radici”, consegnandoci una poesia dura, inquieta, ma di una lucidità cristallina.
D’altro canto “Non voglio parlare la vostra lingua” è una chiara dichiarazione d’intenti per una poesia che pure ci consegna, oltre lo sguainar di spade, una natura densa, penetrante di aliti, di neve e di fuochi, una terra di laghi e fiumi su cui incombe un cielo rosso e immenso. E su questa terra di fiumi e detriti uomini e animali hanno pari statuto, si contendono i sensi, tra canti e olfatto, una sete di suoni come tonfi in un’aria di polvere e cristalli.
La tensione linguistica è al massimo, la lingua qui si fa voce come incarnandosi. Ed è la partitura che agisce in questa direzione concreta, quasi fisica, con la sua componente ritmica potenziata sino a coinvolgere la dimensione corporale. La lettura di questo testo sembra solleciti un approccio con tutti i sensi, obblighi ad una pienezza del sentire.
Come scrive Felice Cimatti nel suo Il taglio, “[…] alla fine non c’è che la poesia. La quale non chiede di essere interpretata, non chiede di entrare nel tritatutto del significante: la poesia è una «consistenza», sta lì, non c’è che da prenderne atto. La poesia è un reale, e come ogni reale alla fine ci si va a sbattere, non c’è altro da fare con il reale”[2].
[1] Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli Editore, Milano 2007.
[2] Felice Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte, Quodlibet, Macerata 2015.
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Da Valeria Cartolaro, “Disregolazioni” (Transeuropa, 2025)
Le porte si chiudono
qualche spazio per questi uccelli cade
taglia il cielo, rimane
da dire all’ospite dello straniero
una nuova terra distrutta giorno su giorno
smonta gli oggetti, questi interlocutori
stupidi a cui ripetere una cantilena
*
Schiocchi le dita schiocca il cranio
vicinissimo si tagliano la lingua
alle spalle di tutto le luci di chi vive
manteniamo aperti questi condotti
l’aria che respiriamo
di quei crolli che sono molti
ragliano nelle teste quei cielo
mi guardi scendere sulle mani
potare i letti del fiume per raccogliere
i loro detriti frugare
negli assorti giorni
bere dalle radici
*
Non voglio parlare la vostra lingua
né sedermi su un ciglio
a guardare le ossa inscurirsi
girare attorno a una torre
cedere i passi al gioco
marcire in una stella e guardare
il ponte dietro l’angolo crollare
se ascolto
guardo la pece diventare un pesce giallo
limare le sue lische appuntite
domare il drago e i suoi artigli
cieli immensi di rosso