quando hai deciso di parlare italiano
hai scelto una lingua che non era tua
quando hai deciso di abbandonare il dialetto
te ne sei andato da una casa non tua
Giulio Mozzi, Il culto dei morti nell’Italia
contemporanea, Nino Aragno, 2018
Leggere e ascoltare il dialetto (per non dire il tentativo di esprimersi con esso) risuona in me lo stesso spaesamento che si sente di fronte ad uno spettacolo naturale di cui non siamo protagonisti. Circa tre anni fa, proprio in Cansiglio, altopiano nel nord trevigiano che unisce e separa le alpi dalla pianura, ho assistito, da una distanza molto ravvicinata, a una lotta tra cervi. Solo silenzio e suono di legno scosso. Ecco che ho sentito con chiarezza, nell’istante, che non appartenevo a quel luogo, che lui non mi apparteneva, che io non appartenevo a nessun altro luogo, che nessun altro luogo mi apparteneva; e che forse anche quei due cervi sentivano lo stesso.
Proprio il Cansiglio è luogo privilegiato della poesia di Uliana, e in particolare del corposo poemetto “Il Bosco e i Varchi”, pubblicato da De Bastiani nel 2015. Lo stesso poeta sostiene a più riprese, in interviste e in alcune prose, che non può scrivere del Cansiglio in italiano. Ed ecco che leggendo i suoi versi, e passeggiando per lo spazio che essi descrivono, la sensazione è quella di una perfetta sintonia di suono, ritmo, e immagine. Perdersi lungo i troi đe Tafarièli (sentieri dei Tafarièli/Diavoli) non traccia una via ripercorribile all’indietro, logica, ma rappresenta il vagare ramingo di un’unità sensitiva all’“interno” di uno spazio appunto spaesante, a-topico.
È qui che entra in gioco la viẑa, la selva, che nel dialetto cansigliese significa un bosco d’alto fusto ove è proibito tagliare gli alberi, utilizzare il legname. Uno spazio tutelato rispetto a tutto ciò che all’esterno vige imperante: l’utilità, lo scopo. Tutto qui è imprevisto, sorpresa, terrore e stupore. Ma anche claustrofobia (le Foibe) e contatto diretto con il cielo, l’Altro (i rami). La selva è spazio per eccellenza dello spaesamento, ove l’appartenenza è un concetto estraneo, foresto, dal momento che non concede alcuna coordinata che permetta di dire: “Io sono qui”.
Il gesto poetico di Uliana avviene pertanto in uno spazio ove la parola non è al servizio di chi la utilizza. Il suo verso non si serve del dialetto, ma ne è asservito allo stesso modo di come un’atmosfera di gioia o tristezza contagia gli astanti. Così, il poeta che si immerge nella viẑa è contagiato dall’ “ispido scabro” di un paesaggio che gli parla allo stesso modo, entra in lui, e ne fuoriesce attraverso l’inchiostro di una penna che si muove sul foglio con la stessa frequenza che risuona nella selva.
La lingua dialettale appare quindi come selvatica anch’essa, un dire che viene dall’esterno, e che il poeta incontra con la responsabilità dell’accoglienza, con il coraggio di abbandonarsi a esso, e con un lavoro verso la consapevolezza di un’autonomia non più assoluta.
Tradurre questi testi è significato, per me, un profondo incontro con l’a-località dei luoghi descritti. Io ho letto di rado il dialetto, l’ho sempre ascoltato, e se lo parlassi suonerei almeno ridicolo. Tuttavia ho percepito in modo parecchio intenso, proprio sulla mia pelle, come lingua e luogo siano legati con ago e filo (ne uṣèla che l’ingàṣia le foje al fià). Tradurre è stato simile a quel viaggio iniziatico per i troi đe Tafarièli compiuto dallo stesso Uliana, un viaggio ramingo in cui ho cercato di piantare ogni sera una tenda e rendere lo spazio un po’ luogo, in cui ho cercato ad ogni verso di avvicinare/mi al troi di Uliana, senza nascondere/mi che il luogo da cui vengo non è il suo, il nostro, il vostro, e la lingua con cui dico non è mia, sua, nostra.
Come s’incontra nella selva de “Il Bosco e i Varchi”: No se vif che ‘l logo che se bandona – non si vive che il luogo che si abbandona.
[15]
Parlar solche đe bosch no vol dir tàṣer
đel mondo, se intendest come ciarèla,
ché la léngua sielier nò đe le caṣe
ma la selvàrega, l’è uṣar ne uṣèla
che l’ingàṣia le foje al fià, la feris
i lavri par far crésser l’àrbol del la
paròla, o ‘ndar đo in fondo a la rađis
de l’eṣistènẑa a đarghe n’antra voẑe,
đe òn, a tut quel che in silènẑio ‘l patis
nàssita e mòrt, salvar almanco ‘n joẑ
de vita, quela che la se fa đur
legno, ṣgatiar al débol fil de bòẑol
e ntel vèrs dret de ciarèla riđurlo.
*
Dire di solo bosco non è silenzio
dal mondo, un piano chiaro,
e la lingua non sceglie il luogo
ma il selvatico, è un ago
che penetra foglie e fiato, ferisce
labbra per far crescere albero
di parola, o giù in fondo la radice
dell’esistenza e dargli un’altra voce
di uomo, a tutto quello che in silenzio
patisce, nascita e morte – una scaglia almeno salvarne
di vita, quella che si fa legno
crudo, sbrogliare l’effimero bozzolo
e nel verso dritto di radura ridurlo.
[36]
Me ò insonsià nte la viẑa la cànbera,
un pas liđiér đe fémena forèsta
– đai ran vegnéa na luṣe bonoriva,
le ṣbađiliéa đe unbrìa le coltrine
selvàreghe, e come ‘n òcio l’uròra
la se verđea –, ntel cavaston de foje
la paréa inluminarse la ciarèla,
pena che la movèa i neẑioi infrascađi,
ère nassést da poch, da chi sa quant
la se èra alẑađa la mare, l’andéa
a tòrẑio – un fogo al sarìe stat al dì
co solche ela đa voleghe ben –,
dal ẑendre đe la nòt renassée bòcia.
*
Ho sognato la camera nel bosco
un passo leggero di donna straniera
– dai rami filtra una luce precoce,
sbadigliano d’ombra le tende
di selva, e come palpebra l’aurora
si schiude – nel viluppo di foglie
pare la radura schiarirsi,
appena lei scosta lenzuola di fronde,
ero nato da poco, da chissà quanto
si era levata la madre, andava
vaga – un fuoco sarebbe il giorno
con lei sola da amare –
dalla cenere notturna rinascere fanciullo.
[56]
Foje che le tàja e s’ciaton de bòna ponta,
par no đir đe stech e crep, o đei càndoi,
che se cogne passar: ah! che strissađe
nte l’insònio ẑènẑa pi oro!, che pòlini
đa sufiar fora!, e i òci đa tribular
par le man che le scaveẑa?, pomèle
cruđe le é le paròle đa schinẑar
contra le ròbe! No l’è parò chiẑa
đe vent la voẑ che la buṣna par rame
e ẑieṣe (élo là che se inbara al sèns?),
la va sènpro pi ‘ndrento par i sfoi
a ciarèla, o i troi đe Tafarièli,
tant che la se pèrẑ…, se la se tien ciuṣa
la viẑa!, al pi la te assa qualche frègola
đe fùfigna, o na ferađa ingatiađa.
*
Taglienti foglie e stiletti
come rami secchi, pietre e sterpi
Ah che graffi! tra cui dover passare
nel sogno senza più oro! pollini
da espellere! gli occhi impennacchiati
d’illusione! quant’è da soffrire
per mani che mozzano? bacche
acerbe le parole da premere
contro le cose! non è però avara
di vento la voce che stormisce tra chiome
e siepi è li che il senso s’infratta?
sempre più dentro tra i fogli
la radura, o i viottoli dei Tafarièli
tanto da perdersi se si tien chiusa
alla selva! al più ti lascia qualche scheggia
d’inganno, o una traccia che mente.
[85]
La faina l’ođor la sègue đel sangue
– al bosch al rincura ògne so creatura
e secondo natura –, la se scònde
sote le foje seche e la spèta, ore
anca, che la ẑenđrona la bandone
al nif là nte la buṣa, pròpio quela
đel fuṣilà, che no la vae pèrsa
gnanca ‘n joẑ, no ‘l rèste che pitusset
dissanguađi, tut par tènp se repète
parchè tut se đeṣmènteghe, ntel bosch
gnessun al pol ciamarse fòra – al mal
na bòna rađis l’à sènpro bestial –,
se ‘l confònde la buṣa co la fòssa.
*
La faina segue l’odore di sangue
– il bosco ha cura di ogni creatura
secondo natura –, si nasconde
sotto le foglie e aspetta, anche
ore, che il gallo abbandoni
il nido lì nella buca, proprio quella
dell’ammazzato, che non si perda
nemmeno una goccia, che non restino
che pulcini dissanguati tutto nel tempo si ripete
perché tutto si dimentichi, nel bosco
nessuno può dirsi estraneo – il male
una profonda radice bestiale –
se confonde la tomba e il fosso.