Canto del rivolgimento di Federico Scaramuccia, uscito in Italia nel 2016, è diviso in quattro sezioni: Il fiore inverso, Mire (da cui sono estratti i testi presenti in questa antologia), Treppiedi e Il tempo in lotta. La prima sezione presenta i personaggi e le figure che animano la raccolta e descrive i paesaggi infernali in cui sono immersi. Treppiedi funge da parentesi orfica sospesa nella percussione martellante della sua struttura combinatoria (nove versi novenari, divisi in tre pseudo-terzine, la cui struttura rimica richiama la sestina ABCCABBCA, sono sostenuti dal piede anfibraco che non viene mai tradito e conferisce un andamento cantilenante). Chiude la raccolta Il tempo in lotta: una distensione formale e paesaggistica molto straniante che apre il discorso poetico verso un orfismo lontanissimo dalla parentesi dei Treppiedi, in cui è sancita l’incapacità del soggetto di intraprendere una ricerca identitaria del sé e di giungere dunque a un’autocoscienza. Entro questa struttura, la sezione delle Mire incanala più di tutte la tensione morale dell’opera a cui il lettore è chiamato a rispondere per entrare in dialogo con i testi. Due aspetti in particolare avvalorano questa ipotesi: da una parte la concisione formale che permette di aumentare la densità delle immagini contenute dal testo, dall’altra proprio questa densità è la chiave della polisemia su cui si fonda tutto il discorso poetico dell’autore.
La testualità dell’opera di Federico Scaramuccia è una stratigrafia di livelli di significazione in cui ciascuno costruisce una propria sintassi e tutti concorrono alla creazione di una direzione poetica complessiva. In prima istanza affrontare tale testualità significa lasciarsi scivolare “per una botola a imbuto” (come recita un verso della prima sezione dell’opera), seguendo un procedimento di continua ricalibratura del senso, definito da Ivan Schiavone precipitato semantico. Il meccanismo testuale su cui è costruita la poesia di Scaramuccia è la problematizzazione formale del dato di realtà che non giunge – né vuole farlo – a una sintesi dell’argomento trattato, al contrario ha l’obiettivo di permettere al lettore di esperire la complessità attraverso un vortice di strutturazioni formali.
Mire è la sezione più rappresentativa della poetica del precipitato semantico e, a partire da alcuni aspetti procedurali che attraversano il testo, tenterò di decodificare il portato di senso dell’opera. La struttura metrica dei testi mostra l’attenzione dell’autore all’artigianato linguistico: ventisette componimenti di sei versi, divisi in due terzine con struttura fissa (tre endecasillabi e una successione di senario-settenario-ottonario); a rafforzare la costruzione la rima ha una struttura concentrica (ABC CBA), spesso è ipermetra o imperfetta e può coinvolgere più parole (per esempio: senz’acqua né cibo:patibolo scatta, cadaveri:chiave). Oltre alla struttura, il collante interno è costituito dalle frequenti allitterazioni e dalle varie figure di suono che riempiono il testo. Questo collante complica e confonde la costruzione orizzontale del testo con quella verticale della versificazione, rendendo il discorso poetico una materia organica e magmatica.
Anche se non strettamente necessario, è possibile ricostruire una direzione di lettura del testo. Senza dubbio le Mire costituiscono la sezione più corposa dell’opera e anche quella in cui è possibile provare a ricostruire una narrazione che sottosta al discorso poetico. Nella successione dei ventisette componimenti può leggersi uno sviluppo su due binari paralleli: da una parte il punto di vista di chi vive l’esclusione dalla società del benessere e tenta di fuggire dalla sua condizione di miseria, dall’altra chi nella società dello spettacolo si è ammalato e vuole disperatamente difendere i suoi valori a scapito di chiunque possa rappresentare una minaccia del proprio status quo. Nell’opera i personaggi si confondono nei sintagmi posti in apertura della prima sezione: “ombre a commando mute al peso anonime in marcia funebre verso la fine”, “profughi a grappoli in trappola del proprio ingordo grido”, “chine / al traffico anime in pena”. Tale opposizione tra due fazioni di uomini dà forma diegetica al seme della tragedia insita nella poesia di Scaramuccia: le ragioni dei due volti della voce enunciante si scontrano senza entrare in contatto. Due caratteri rimarcano l’organicità di questo sentimento tragico all’interno dell’opera: da una parte il primo componimento ci dà la chiave di lettura nell’affermare l’identità della dualità (vv. 3-4), dall’altra le note dell’autore rovesciano la prospettiva dall’uno all’altro volto, in una variazione continua del senso che crea collegamenti e opposizioni tra i due personaggi.
Ma nessuna delle due ragioni prevale sull’altra e anche il lettore è portato a una sospensione del giudizio. Ciò che conta è la comprensione della complessità dello scontro, resa attraverso la complessità linguistica dell’opera. Il termine “ecatombe”, che racchiude a mio parere la questione principale del racconto, compare due volte: alla prima occorrenza “il fior d’ecatombe” è rovesciato dalla nota nel “fiore che ottunde”, che rappresenta l’impossibilità di vedere il reale significato dell’accadimento; mentre la seconda occorrenza riassume la colpevolezza umana, non tanto la responsabilità dell’evento, quanto l’indifferenza nei confronti di esso (“impavidi e curvi / scansando l’ecatombe / dileguano fra le grate”).
Nel prosieguo del racconto la dualità si alimenta fino a sfociare in una coincidenza dei due opposti, che conferisce una sola identità alla voce. Ne scorgiamo dei chiari segnali nel tredicesimo componimento che si sviluppa su dicotomie oppositive. Così abbiamo “reduci […] immemori” che stanno “sospesi in stormo […] ma l’aria è bieca” e “sbraitano giubilo”, mentre sono “in gara […] sommessi” e pur “nella colata sorridono”. Fino ad arrivare alla ventiduesima poesia in cui la seconda terzina pare alludere all’immagine del Cristo Redentore, riferita evangelicamente agli ultimi, ai profughi:
migliaia di miriadi
rifanno diritto il torto
Il dolore (“travaglio”) del sacrificio qui ricade su un collettivo indefinito (“migliaia di miriadi”) che toglie biblicamente il peccato umano (“Ecce Agnus Dei, ecce Qui tollit peccata mundi”, Giovanni 1,29): questa correzione-redenzione (“rifanno diritto il torto”) assume in sé una valenza organica dei due opposti, chiamando in causa il problema della responsabilità morale dell’ecatombe. Non giunge, come invece nella liturgia cattolica, il Miserere nobis finale.
Dopodiché subentra il dato olfattivo in “un tanfo torpido le carni al macero / lungo l’errore cieco […]” che indica la marcescenza della carne ferita al costato (rovesciamento dalla sacralità del corpo di Cristo), il rifiuto di riconoscere la possibilità di redenzione “tra miraggi e clamori mira ed urla”. Tale rifiuto si palesa nella ventiquattresima poesia dove “sulla piazza divelta nessun cristo” può innescare un processo soteriologico. Infatti la questione si chiude sulla permanenza della sete – che da una parte rimanda alla Santa Cena, dall’altra alla sete di conoscenza, quindi di verità – mentre la fine che tarda ad arrivare è la più grande condanna umana in senso cristiano: “mai ebbra rinvenne / dall’agguato la sete / tacita tarda la fine”.
La sezione delle Mire si chiude con una stasi: si intensificano i riferimenti al vuoto e al silenzio (“tutto fermo in un crampo ormai assente”, “tenuto in piedi dal silenzio il vuoto // intenso e remoto”). Ma la quiete non è pacificazione del dissidio o cessazione del conflitto, al contrario è la paralisi conseguente all’impossibilità di “rispondere alla gravità”. La sezione si chiude sull’immagine dei due personaggi separati da una fortificazione: chi protegge i propri valori esula all’esterno l’invasore che tenta di scappare dalla miseria. Unico osservatore è la natura indifferente che rinascerà dopo l’apocalisse (“non abita peso / nei bastioni al collasso / dalle grate riaffiora erba”).
Il titolo della sezione, Mire, ha un triplice significato: porta in sé la teleologia dell’azione di prendere la mira, puntare a qualcosa; indica l’azione di guardare; e rimanda al gioco linguistico e al dato uditivo, se consideriamo la parola come un anagramma di “rime”, figura retorica che in tutta l’opera concorre a ordinare il testo in gabbie formali.
Il primo significato racchiude lo sforzo morale di tutta opera e della sezione in particolare. In questo primo significato è contenuta tutta la lettura narrativa dell’opera: la catarsi del lettore con le figure che animano il testo, assieme alla responsabilità di individuare i processi di significazione nei complessi meccanismi testuali, sono le modalità con cui Scaramuccia pone il lettore di fronte al dolore dell’errore umano. Un significato teleologico potrebbe essere visto anche nel dialogo tra la struttura formale e il discorso poetico: i componimenti si aprono con la distensione dei tre endecasillabi, per passare poi alla successione crescente senario-settenario-ottonario, in cui spesso si concentra il carattere gnomico. Così il testo sembra voler prendere la mira e caricarsi per colpire un punto preciso ma non espresso dell’intendimento del lettore.
Gli altri due significati del titolo richiamano il dato visivo e il dato uditivo che hanno un ruolo fondamentale in tutta l’opera di Scaramuccia. Basti guardare alla precedente opera (Come una lacrima, 2011), che racconta l’attentato alle Twin Towers. La narrazione dell’evento segue un doppio filone – quello dell’evento fattuale e quello del giudizio morale – che spacca la raccolta a metà. La prima parte affida la narrazione al dato visivo: undici componimenti di endecasillabi in terza rima imperfetta, introdotti da un distico di Prologo e chiusi da un Congedo e da un distico di Epilogo. Il testo è organizzato in terzine ben riconoscibili e gli undici componimenti centrali iniziano con l’anafora Guarda. Il dato visivo affiora anche dalla struttura teatrale in cui alla voce enunciante che esorta a volgere lo sguardo risponde un coro che non assume la funzione gnomica del coro antico, bensì rimarca quanto detto dalla voce principale. Il dato visivo dunque è sia semantico che grafico.
Al centro il Riepilogo innesca la seconda parte: la Ripresa si apre con un distico isolato, continua con sessantotto coppie di distici a rima baciata imperfetta e si chiude con una Tornata e un altro distico di Coprologo. Subentra il dato uditivo, sia sul piano grafico (viene meno la divisione strofica, la rima baciata assurge a principale organizzatore del testo assieme all’endecasillabo), sia sul piano semantico: “non resta nulla soltanto un rottame / un’ombra netta dalle forme vane / si pianta nel petto come una croce / piega a terra il viso spezza la voce / un grido confuso un silenzio rotto / un pianto che soffoca nel singhiozzo”. Sembra dunque che la distinzione tra vista e udito nella testualità di Scaramuccia rimandi all’intreccio necessario tra la narrazione dell’evento e la conseguente presa di coscienza – con annesso giudizio morale – del soggetto lirico.
Le Mire procedono per immagini che portano avanti il discorso lentamente e incessantemente. Sono immagini visive intrecciate a immagini uditive. Nella sezione sono presenti numerosi termini che rimandano all’udito (non è un caso, come vedremo, che quasi tutti siano espressi in forma di sostantivo: scrosci, strilli, parapiglia, alterco, battiti, chiasso, sibili, rantoli). Sembra che l’autore voglia rappresentare un paesaggio immerso nel silenzio e straziato costantemente da suoni sinistri, bassi, acuti, sibilanti, battiti martellanti che caricano il testo di inquietudine. Come il soggetto lirico e le figure che si muovono nel testo restano indefiniti, anche l’origine dei suoni rimane imprecisata. A volte l’immagine visiva è accompagnata da un rumore di sottofondo (“riarde la terra nel primo sbadiglio”), altre volte il dato uditivo e quello visivo sono fusi dalla tessitura ritmico-fonologica del testo (“rimbomba a raccolta la ronda sgombra / dirada ogni riserbo sullo sfondo / le cime delle torri già in sfacelo”).
Uno degli aspetti più interessanti di questo gruppo di componimenti riguarda le scelte sintattiche e lessicali operate dall’autore. Entro i limiti della rigida struttura metrica imposta al testo, proprio analizzando la costruzione sintattica è possibile cogliere alcuni degli aspetti più interessanti della poesia di Scaramuccia. Prima di tutto focalizziamoci sul ruolo svolto dai verbi e dai sostantivi nella costruzione frasale. Nel Canto del rivolgimento spesso la predicazione del verbo sembra soltanto fittizia, come se ad animare il discorso non fossero le azioni espresse, bensì l’identità stessa di chi compie o subisce tali azioni. Il testo procede come un ribollire lento e incessante, portato avanti da una concatenazione di immagini.
Il primo componimento (“senza capo i tronchi giù per le dune”) è emblematico di questo aspetto poiché è presente solo un verbo copulativo (v. 3) che regge il testo. Spesso i verbi non sono il motore dell’accadimento della frase, alcune volte vengono addirittura elisi e la responsabilità della significazione ricade sui sostantivi e sulle preposizioni. I verbi presenti indicano spesso un movimento discendente, la caduta oppure la fuoriuscita, rimandando alla poetica del precipitato semantico. Frequente è il ricorso a verbi parasintetici che si ricollegano all’espressionismo di origine dantesca di cui tutta l’opera è intrisa.
Questa sorta di svuotamento della predicazione verbale sposta l’attenzione sui sintagmi nominali e preposizionali, i veri pilastri della costruzione di questi testi. Spesso sono proprio i sostantivi a esprimere l’accadimento, mentre la predicazione è soltanto linguistica, porta un significato figurato o riempie posizioni metriche (“a terra posano scrosci di grano”); altre volte la costruzione è meramente nominale ma l’accadimento riesce comunque a delinearsi con precisione (“dallo sterno scoperto del ventriloquo / lingue di fuoco e colonne di fumo / fuoco alle lingue in fumo le colonne”). Molti dei verbi predicativi presenti nel testo sono denominali o deaggettivali, fattore che avvalora l’ipotesi di uno spostamento della predicazione dai verbi ai sostantivi (trasecolano, arrossa, imbocca, sgrana, sbranca, calcando).
L’importanza delle scelte lessicali emerge in particolare da due aspetti: se il precipitato semantico è reso stilisticamente soprattutto dalla preferenza accordata alle parole sdrucciole, in tutta la produzione dell’autore è possibile ravvisare una forte predilezione per i nomi collettivi (in questa sezione per esempio “masnade”, “mandria”, “branco”, “stormo”, “miriadi”), che formalizzano sul piano del significato l’implicazione morale del lavoro di Scaramuccia. L’autore attinge spesso dall’immaginario lessicale dell’inferno dantesco, esasperando l’espressionismo novecentesco e caricando il discorso di una lettura biblica ricavata dalla sua fede protestante. Di conseguenza la testualità ne esce pervasa da una fortissima polisemia: a tutti i livelli del testo, dalla singola parola alla struttura poematica dell’opera, i processi di significazione si sovrappongono fino alla contraddizione, producendo continui cortocircuiti di senso. La coniunctio oppositorum assume quindi un carattere strutturale, che a volte emerge esplicitamente in calembour linguistici, fino all’esasperazione del Rompicapo del boia, contenuto nella sezione Treppiedi.
il boia un po’ troppo agitato
lamenta che è già da parecchio
che aspetta dall’alto il comando
un altro qualunque allo sbando
che spreca anche l’ultimo fiato
gridandogli dentro l’orecchio
di colpo poi piega sul secchio
perdendo la testa allorquando
capisce che è lui il condannato
vv. 1-9 Il rompicapo del boia.
v. 1 agitato] animato
v. 3 che attende dal capo il comando
v. 8 “perde la testa chi non cambia il capo / non cambia il capo chi perde la testa” (Adespoto).
La pseudo-predicazione dei sostantivi alimenta la lettura allegorica di tutta l’opera, per cui dietro un nome è possibile trovare più significati allegorici anche molto distanti tra loro. Un carattere simile investe anche la sintassi nello stravolgimento diretto della struttura della frase. Il meccanismo è dovuto in gran parte all’abbondanza di sintagmi preposizionali, che, sapientemente collocati, permettono alla coincidenza degli opposti di svilupparsi sulla lunghezza della struttura sintattica e non solo nella decifrazione del significato di singoli termini o gruppi di parole. Dei ventisette componimenti undici si aprono con una preposizione e in altri sei una preposizione segue al primo termine. Il valore posizionale dei sintagmi preposizionali è utile a Scaramuccia per intensificare l’ambiguità semantica a partire dalla struttura sintattica del testo. A questo si aggiunge l’assenza di punteggiatura che complica ancor più l’operazione di riordino degli elementi della frase. Così la lettura è resa come una continua incipienza, un’azione potenzialmente interminabile.
La coincidenza degli opposti risulta dunque essere un carattere strutturante, nonché il perno della poetica del precipitato semantico: è impossibile afferrare il senso del testo perché lo scopo della testualità è la riproduzione del reale. Non si tratta di fermare un’immagine per poterla analizzare, per osservarne i dettagli o serbarla nel ricordo, bensì entrare dentro la complessità della realtà per esperirla e tentare di comprenderla. Così possiamo intendere la necessità della stratigrafia dei livelli di significazione: sintassi, lessico, ritmo, metrica, concorrono a tracciare linee indipendenti che a volte si intrecciano, si sovrappongono, coincidono, altre volte si respingono, perché nella realtà le azioni umane e quelle naturali non possono armonizzarsi se non nella casualità degli eventi. È un realismo del movimento che vuole riprodurre – e non ritrarre – la realtà in tutta la complessità che attanaglia il dissidio umano. E per far ciò utilizza gli strumenti del linguaggio poetico, tutte le possibilità che il linguaggio offre al poeta e al lettore.
La coincidenza degli opposti è attuata con un continuo rovesciamento del senso, un rivolgimento del linguaggio su sé stesso. D’altro canto il rivolgimento della struttura formale è una delle accezioni implicate nel titolo dell’opera e investe quella che Fortini definiva “struttura significante” del testo (Poetica in nuce, 1962). Questo rovesciamento spesso coinvolge due componimenti contigui. Succede tra “a terra posano scrosci di grano” e “masnade al soldo dell’ira che vanno”, in cui il tema della rabbia viene rovesciato dalla sofferenza all’indignazione; oppure tra “il vento ammassa le nuvole a oriente” e “raccolgano le mani quel che occorre” dove il “chi” che chiude il primo componimento, lasciato in balia della sua miseria, è rovesciato dal “nessuno che si sfama mai dei beni” nel secondo.
Nell’ottica di un rovesciamento continuo degli elementi in campo, non solo la struttura diventa significante, ma lo stesso significato semantico – continuamente rimesso in discussione – assurge a elemento strutturante del testo.
La coincidenza degli opposti racchiude infine il carattere tragico del testo, ma prima di affrontare la concezione tragica della poesia di Scaramuccia, è necessario fare una precisazione riguardo al suo rapporto con la lirica. È indubbio che la struttura dei testi che compongono il Canto del rivolgimento rimandi a una struttura lirica (dal madrigale all’haiku, dalla terzina dantesca al novenario pascoliano). Il rapporto dell’opera di Scaramuccia con la lirica è in realtà più complesso: vi è un forte rifiuto del soggetto lirico e una frammentazione dello spazio sintattico e del discorso. Al posto di guidare e sostenere la lettura, il lettore è lasciato affondare come se stesse “calcando sabbie mobili e acque ferme”.
Laddove la lirica italiana di fine secolo si concentrava su un esistenzialismo tragico, dunque il soggetto era portato ad affrontare il senso di assoluto che si spalancava sotto il suo vivere quotidiano, in Scaramuccia il soggetto viene spersonalizzato. Tuttavia la dinamica tra soggetto ed esistenza è mantenuta: il soggetto impersonale vive la propria condizione esistenziale ponendosi di fronte alla catastrofe di un contingente che rimanda all’assoluto per le proprie implicazioni etiche, un contingente che si fa allegoria dell’assoluto. Tale spersonalizzazione del soggetto investe pienamente il lettore che diviene l’immediato interlocutore della voce: su di lui si riversa la responsabilità di decifrare il messaggio del testo poetico, di comprendere la catastrofe (nel testo rappresentata dall'”ecatombe”) e farsi responsabile dello sfacelo del mondo attraverso la complessità del linguaggio poetico. Il carattere tragico dell’opera di Scaramuccia si configura con una dialettica negativa: la coincidenza degli opposti non giunge a una sintesi liberatoria, bensì a una condanna implicita dell’uomo che prende i toni di una sentenza macabra e straniante.
Entro questi confini ineffabili si muove la poesia di Scaramuccia, una poesia dedita alla ricerca del vero più che all’ordine del discorso estetico, alla complessità più che alla fruibilità del testo.
*
senza capo i tronchi giù per le dune
le mani sulla testa fissa e inferma
e ognuno è due in uno ed uno in due
ognuno e ambedue
e chi sa chi governa
a ciarle o a sberle all’addome
v. 2 «l’una avea il capo che l’altra man mozza» (Acefalo).
*
a terra posano scrosci di grano
venti che stipano i granai di sabbia
e irrigano il deserto che dirada
che aperto da spada
sgrana i lidi con rabbia
rimossa dai fossi invano
*
dallo sterno scoperto del ventriloquo
lingue di fuoco e colonne di fumo
fuoco alle lingue in fumo le colonne
quel cumolo insonne
di persone che fummo
in alterco a membri innocuo
*
riarde la terra nel primo sbadiglio
si crepa ovunque eppure non si sgrava
ed ogni solco è una torre che incombe
ma il fior d’ecatombe
che ricorre che grava
porterà fieno al giaciglio
v. 4 il fiore che ottunde
*
sulla spianata delle torri i reduci
giacciono immemori sospesi in stormo
sbraitano giubilo ma l’aria è bieca
in gara alla cieca
sommessi fino al colmo
nella colata sorridono
v. 2 giacciono sospesi: non rispondendo alla gravità, precipitano nell’emergenza.
*
precipitano in tregua le folate
in un marasma il branco d’eco e d’ombre
serrate le mascelle cave le orbite
impavidi e curvi
scansando l’ecatombe
dileguano fra le grate
*
ricostruiranno sull’antico solco
ala per ala per decadi e decadi
riabitando quella breccia a ventaglio
intenti al travaglio
migliaia di miriadi
rifanno diritto il torto
*
tra miraggi e clamori mire ed urla
un tanfo torpido le carni al macero
lungo l’errore cieco il labirinto
di sbieco un recinto
i corpi scarni in pace
e fuori a file chi crolla
*
sulla piazza divelta nessun cristo
disserra appena le labbra l’ottone
l’esile falce di luce che miete
riduce alla quiete
il candelabro insonne
che disacerba ogni resto
*
a guardia delle rovine i randagi
dello strazio ficcato tra le crepe
la tenebra sepolta nella tenebra
mai ebbra rinvenne
dall’agguato la sete
tacita tarda la fine
*
tutto fermo in un crampo ormai assente
il centro anchilosato nell’assedio
tenuto in piedi dal silenzio il vuoto
intenso e remoto
da dentro un fiato stridulo
accanto alle orme lo scempio
v. 3 È il silenzio, questo non rispondere alla gravità (se non nel crampo o nell’assedio, e
quindi in una immobilità dolente e armata, altrove a commando o in stormo), a tenere
insieme un edificio il cui costo, elevato, è l’espulsione di chi quella costruzione
ha messo in piedi perché potesse abitarla.
*
tra le casematte ancora in allerta
inferriate e macerie ad ogni passo
all’esterno da tutti i lati gli esuli
non abita peso
nei bastioni al collasso
dalle grate riaffiora erba