Menti Sommerse 4: A little harder with Dario Villa – Venere strapazzata dai lunatici

Si propone la lettura critica di Massimo Del Prete a "Venere strapazzata dai lunatici" di Dario Villa, da una serie di articoli soppressi usciti originariamente su Menti Sommerse. [L'immagine è stata generata dal nostro AI di fiducia, Fractor Ignotus (intelligenza artificiale)].

Dario Villa nasce a Milano il 12 giugno 1953 e nella stessa città scompare nel marzo del 1996.
Sono questi gli estremi biografici dell’uomo, del poeta semi-sconosciuto, come passato e sparito nella nebbia che si forma la mattina quando è troppo presto ed è troppo freddo là fuori.
Ma forse sbaglieremmo a chiamare Dario Villa-poeta col nome di uomo: è piuttosto una specie di evanescenza, una presenza evocata da un mondo altro al nostro, una sorta di angelo caduto da un altrove e rovinato a terra perdendo qualche piuma, un po’ malconcio.
Qui, sulla terra – anzi sull’asfalto – l’angelo Villa deve imparare a conoscere un corpo che sanguina, soffre e qualche volta gioisce e allo stesso modo dovrà conoscere un mondo che a lui, come a noi, non pare meno assurdo del cielo da cui proviene.
Al contrario, questo è un mondo più vero, se la verità delle cose sta in una paura sottilissima, in una specie di intraducibilità tra l’individuo e le cose, tra l’io e gli altri.

LA PRIMA VENERE

Venere strapazzata dai lunatici è una breve plaquette uscita nel 1995 costituita di cinque lunghi testi ai quali Villa lavora dall’inizio degli anni ‘80 fino al 1994 (oggi è contenuta in Tutte le Poesie, edito da Sipiel). Un periodo di quasi 15 anni che riesce a sintetizzare buona parte del cammino dell’angelo-Villa sulla terra.
Le cinque poesie, nonostante scelte lessicali funamboliche e metafore che ricordano i sogni, sono impostate su un registro narrativo e possono essere lette come un racconto breve i cui capitoli si mescolano secondo il piacere del lettore.
Due binari supportano l’intera narrazione: il sesso e l’Esterno che, testo dopo testo, trovano mescolamento l’uno nell’altro tentando, come si diceva poco fa, una traduzione fra cose irriducibili. Proprio perché il viaggio nell’Esterno per l’angelo-Villa è spaventoso e pieno di angosce, ad accompagnarlo ci sono cinque principali figure femminili, ognuna a suo modo interprete, per Villa, del mondo sconosciuto.
La prima di queste ad essere nominata è la protagonista di moderately hard with Arianna (qui il testo completo) che costringe l’io ad un tour di Venezia, città odiata («è vero che per te / farei qualunque cosa / però potevi pure risparmiarmi / ‘sta scappata a venezia […]»), sovraffollata di turisti per il carnevale e in compagnia di un’amica insulsa e logorroica («le seccasse la lingua non fa che parlare di moda / con frequenti allusioni ai conti in banca»). L’angelo-Villa è frastornato, è affranto in questa terribile confusione, si chiede come passare il tempo, come resistere a questo strazio, come sopportare la bellezza di una città che «affonderà… ma ancora non affonda / con tutto il suo arsenale di piccioni / e comitive in gondola o sciamanti / tra i chioschi dei ricordi».
Eppure, proprio mentre è intento a sorbire un po’ di vino e aspettare che il tempo passi da sé, Arianna decide di comparire sulla soglia, inaspettata, come una visione o un trasalimento che toglie il fiato. E l’angelo-Villa che per lei farebbe qualunque cosa non può resisterle(«ecco / che arrivi tu ti tiri su la gonna / e devo ammettere che tra ginocchia / e reggicalze i miei progetti (essere / un altro uomo) vanno a farsi fottere / […] è stata una scopata di quelle svelte / ma devastanti che oscurano la memoria / prima che il mondo ricominci»).
“Prima che il mondo ricominci”: qualche minuto di passione per l’angelo con questa bella camminatrice della terra, una mareggiata che affonda i pensieri. Ma poi la marea si ritira e sulla spiaggia ritorna una tristezza grigia, l’idea di dover ‘essere un altro uomo’ (e Villa che lascia ‘essere’ in fine di verso, basculante, come se il progetto del suo io fosse esclusivamente quello, senza altri attributi) e forse non potere, la penombra della stanza, Arianna che si riveste e forse si prepara a uscire di nuovo mentre vecchi pensieri si fanno sotto come nuovi, con l’idea che nemmeno la lusinga deliziosa del sesso può scacciare, che non esiste appiglio se «(il fatto / che solo stamattina due turiste / tedesche abbiano contribuito / a costruirmi dentro un trauma storico / è la conferma che la terra / ferma non esiste)».

JOHANNA

Anche la protagonista diharder with Johanna(il testo completo è il quarto di questa selezione) costringe l’angelo a nuovi viaggi, stavolta alla ricerca di luoghi funerari, blandita dalle belle immagini di un libro («prima mi dici che ti sei bagnata /tutta sfogliando un libro / di foto intitolato viaggio / nelle città dei morti umbria e toscana / ti ha messo in testa un tarlo erotico»).
Sin dai primi versi Johanna sembra ricavare un piacere sessuale dai luoghi che hanno a che fare con la morte: il sesso tra lei e l’io è sempre rapido e i due viaggiano per consumarlo in cimiteri e necropoli («la tua fantasia di cambiare stile / e venire a scopare nelle necropoli»oppure«[…] dopo avermi / fatto venire al père lachaise / al cippo […]»). Il sesso si esprime nel suo massimo ardore, nella sua impossibilità a resistergli, istituendo un nesso esplicito, anche se indiretto, con la morte: un’uguaglianza tra l’esterno che è sempre paura dell’esterno e dunque, in ultima analisi, morte.
Su questo filo seguiranno siparietti sessuali o semplicemente narrativi finché l’angelo, di nuovo esausto per i viaggi in cui è condotto, non pregherà Johanna di tornare «a milano lo so che ti sembra / una città distrutta dalla guerra / e ricostruita da cani nel dopoguerra / ma veniamoci incontro lasciamo questa terra / feconda di monumenti domani ti porto / a vedere la notte dei morti viventi».
Milano è dunque per l’io città funeraria per eccellenza e non per i suoi cimiteri o i monumenti funebri ma perché abitata dai morti viventi: è questo che l’esterno fa agli esseri umani, come nei migliori B-movies succhia via la ragione a furia di ansia,elimina la prospettiva del futuro, distrugge le possibilità e costringe a lottare senza alcun costrutto.
Se Johanna trova piacere nella morte in questa città impazzirà di gioia.

VOCI DI UN CORO

Il testo che segue, intitolato la marseillaise, è un breve poemetto e serve da snodo tematico nella densa narrazione di Villa. Si racconta di una passeggiata del nostro angelo in un porto, in un paesaggio che ricorda le vedute genovesi di Caproni, qui popolato di prostitute e figure ambigue intente in una specie di carnevale e prese da una strana euforia («sbuco da un vicolo che mette al porto / e scopro il molo (scaricano sgombri) / l’ingombro di una fauna / palindroma e cancrina: troia e merlo / si scambiano le parti»).
Dentro il corso di una sintassi straripante e che si abbatte come una cascata sul lettore, anche il lessico di Villa si fa pirotecnico, giocando con preziosismi e figure di suono fino ad arrivare al gioco di parole (a una prostituta fa dire «mi chiamano cutrettola / dal tenero culetto, l’ornitologo / predilige il mio verso, / il bird-watcher m’adora per il retto»).
Ma al di là del gustoso espressionismo di Villa è proprio nel centro che si dispiega la vera forza di questa poesia:

«potessi dileguarmi
nel cielo che s’oscura… avere piume,
ali… perdermi al volo oltre le nuvole
e sparire nell’indaco, nel nero…
ma no, sto delirando, troppo estesa
è la gabbia, non c’è varco, fossi pure
la tempesta lionata
– e non lo sono – non potrei sottrarmi
alla trappola ubiqua,
a tanto capillare irretimento
fitto al punto da inglobare il mondo […]»

Qui più che in ogni altro punto si avverte la forza sconfinata dell’Esterno, questo luogo illimitato e ancor più terribile perché è una gabbia così grande da nascondere le sbarre. È un luogo la cui lingua non è la nostra, è un luogo che induce in noi comportamenti ma non ci spiega la ragione, che ci dà luce e poi ce la toglie; ci si sta dentro per necessità, eppure l’Esterno è l’infinitamente lontano: toccarlo sarebbe conoscerlo, conoscerlo sarebbe ritrovarsi in-esso, sarebbe sapersi. Purtroppo, come già diceva Rilke«vicino è solo il Dentro; tutto il resto lontano», qualcosa che non si può toccare, qualcosa che si può subire e pensare di sfuggirgli è delirio.
Allo stesso forse pensava anche Milo De Angelis quando in un testo che si intitola proprio Esterno scriveva questi versi: «(e poi il mondo si rivolge a qualcuno / che non c’entra / e chiede / a lui col suo timore di essere cercato / proprio a lui…)».
Alla chiamata del mondo, dell’altro da noi è dunque impossibile sottrarsi e per questo il sesso ha per l’angelo-Villa un’enorme attrattiva: è la suprema diversione, lo straniamento, poiché allucina, fa dimenticare, trasporta altrove e, se si è fortunati, riporta a sé.

VIRGINIA

In quest’ultimo testo,on a roof with Virginia, il sesso mostra tutta la sua caducità tanto da non essere menzionato. I due protagonisti guardano da un tetto una città senza nome e il mondo che si profila è prosaico, vuoto («a parte la caligine / dal brandello di cielo non traluce / niente di interessante»). Tutto qui viene finalmente a galla, spogliato delle situazioni allegoriche e al terrore dello spazio si unisce quello del tempo («entra con me nell’agonia del millennio / inserisciti dove la luce / fa più cupe le cose / faldate di un’ansia insonne»);  la città diventa epifenomeno di tutto l’esterno: è«gorgo di strade / l’epifania dei frammenti / ha il passo dell’incertezza / che attraversa gli strascichi del transitante» e nessuno è più in grado di accompagnare l’angelo-Villa oltre questo punto.
Virginia contempla infatti l’ipotesi del suicidio, ma l’io trova tutto questo insensato e lo liquida con ironia e cinismo («se volevi buttarti non facevi / prima a lasciarmi giù? / evita almeno queste spiegazioni, i dotti riferimenti psichiatrici»): il mondo si è mostrato nella sua assurdità e il suo segreto è stato svelato eppure sia questa consapevolezza sia l’atto estremo di evasione di Virginia non avranno alcun effetto («sfracèllatici, spiatteglialo / in faccia quello che hai scoperto / all’improvviso poi però non lamentarti / se non batte ciglio»).
Forse per questo Villa ha pensato al sesso come leggerezza o come concessione, come fuga o salvataggio, certamente come rifugio, parola chiave per resistere a un mondo che di continuo ci aggredisce, ci satura, ci stira fino allo strappo, ci toglie i desideri e dunque il significato.
Il sesso di Villa è sempre troppo rapido, non meditato, tirato via di qua e di là, senza il tempo per contemplarlo o per desiderarlo e tutto è raccontato dallo sguardo dell’angelo che cerca sempre un’emozione in più (come pensa di fronte alla prostituta prima di cederle), che non arriva a disprezzare la vita tanto da volerla abbandonare, ma pure non conosce certezza o sentiero,che prova a spingersi oltre usando un occhio slontanante per l’estraneità della sua provenienza celeste. Per questo l’angelo-Villa resta sempre sulla difensiva, in autoironia, nel tentativo di restituirci pure immagini, sfocate negli aloni, indecise. Non può fare ritorno al suo eliso né penetrare l’Esterno-mondo: per questo la sua condizione è quella della soglia, e lui è un angelo purgatoriale.

IL VARCO È QUI?

Resta qualcosa di questi tempi che non hanno tempo e consumano tutto: un suggerimento. Fin qui abbiamo trascurato il primo testo della plaquettea nameless hardness(il testo completo è il terzo di questa selezione), che si pone come ideale superamento della tesi e dunque come possibilità di attraversamento del mondo. Se il sesso ha fallito la sua funzione, pur solo passiva, di rifugio, è perché si è espresso come atto meccanico e istintuale, come mera risposta a stimoli, come gesto di disperazione.
In questa poesia il nome della donna è omesso e il sesso c’è stato ma è già avvenuto in un tempo precedente, è ricordo. Tutto si è svolto in«tempi / allegri gli anni di piombo non c’erano / molti indirizzi nel mio repertorio / non c’erano nomi cancellati», tempi semplici, lievi, in cui tanto male ancora non si era svelato, in cui nessuno pensava di morire e c’era ancora spazio per lo stupore:«poi come bruma è nata la tua nuca / si è stampato il tuo passo sul vetrone / dei frigidi piaceri cerebrali / […] avevi sciolto tra le gambe nude i nodi dell’inverno».
Apparizione, dunque, e subito incontro dei corpi, immediato, ma questa volta la storia non si conclude nel e per l’atto sessuale: «questo è solo l’antefatto il resto / non è ancora accaduto». E non accadrà, perché di questo incontro non ci sarà il seguito: forse sarebbe stato l’amore, forse il sesso si sarebbe superato e da palliativo sarebbe diventato rifugio duraturo, o persino arma per scontrarsi con l’esterno e vincere.
Villa non usa quasi punteggiatura in questo testo fitto di rimpianto, come a mostrareil modo che certe volte hanno le cose di scivolarci dentro, imponendo il loro ritmo naturale, una danza antica che esiste prima del linguaggio e sui cui la nostra mente ha modulato i propri suoni e poi. Questa, forse, era la voce vera di un angelo ferito e di questa sua finale assenza, la sua mancanza più bruciante, quella delle cose che nemmeno iniziano.
Forse il varco era lì, tra quella nuca e i«due o tre bioccoli di pube biondo»; forse vivere nel mondo sarebbe stato possibile, ma certi sogni muoiono lasciando il proprio addio scritto su un post-it:

«hai fatto le valigie mi hai lasciato
l’aurora di un biglietto colorato
sulla porta («non sono la sibilla
non c’è sole»)
e qualche bell’effetto personale
una scatola vuota una foto sfocata
e la cosa migliore
una calza di seta un po’ smagliata
dov’era la caviglia e un suono nero
o un profumo di terra appena smossa
nel punto in cui la sera prima aveva
palpitato lo stelo della coscia»

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