Emanuele Franceschetti è un musicista e uno studioso di musica e di teatro. È naturale, quindi, che la sua raccolta più meditata, quella che presentiamo in queste pagine, sia strutturata come una sorta di rappresentazione, di messinscena di figure. Testimoni è infatti organizzata in tre sezioni comprese tra un introitus e un exeunt, termini liturgico-teatrali che accompagnano il lettore-spettatore in una densa e composita partitura, attraversata da alcuni Leitmotive che rintoccano da una pagina e da una sezione all’altra: si tratta, per situare subito questa nuova voce poetica che il Quaderno battezza, di motivi poetico-filosofici che la grande poesia del Novecento italiano ed europeo ha alimentato, variato, declinato per decenni e che tuttavia, se è vero il monito di Ernst Bloch che Franceschetti ha trascritto nell’epigrafe della prima sezione della sua silloge (“Ciò che è accaduto, è sempre accaduto solo a metà”), continuano a bruciare, a fermentare nella coscienza di chi scrive versi obbedendo più a una necessità espressiva ed esistenziale (“cruento atto esistenziale” definiva Bartolo Cattafi la sua scrittura) che a un qualsiasi programma.
Con la promessa di non indulgere ulteriormente a facili analogie musicali, dopo la prossima, propongo ai lettori e alle lettrici di immaginare che Testimoni sia attraversata da due forcelle, due indicazioni dinamiche che suggerirebbero che l’apice, il forte, coinciderebbe con la sezione centrale (Un pensiero col suo corpo) e con la prima parte dell’ultima (Misure del canto), mentre l’inizio e la fine della silloge (la prima sezione e gli ultimi testi) configurerebbero rispettivamente un crescendo e un diminuendo.
Partiamo dall’inizio, dunque, e soffermiamoci sulla soglia del titolo, che può essere ingannevole: Testimoni potrebbe far pensare a un atteggiamento e a un tono elegiaci, o a una postura civile che Franceschetti invece non assume, almeno non in modo frontale. Basta girare pagina, però, per incontrare la prima sezione, Eingedenken, che dissipa il pregiudizio e illustra subito una delle caratteristiche di questa scrittura: Franceschetti è un autore colto, che ripone una fiducia viva, pur se tormentata, nell’armamentario di conoscenze tipico dello scrittore umanista. Eingedenken, infatti, è un termine di Ernst Bloch, ereditato e rimodulato poi da Walter Benjamin, che Stefano Marchesoni
ha proposto di tradurre con immemorare, intendendo con questo neologismo non l’emergere nostalgico dal passato di un ricordo, ma “l’affiorare di una potenzialità che attende ancora di essere realizzata”, di “un’esigenza che non ha ancora trovato modo di attuarsi” (cito da Ricordare il futuro. Scritti sull’Eingedenken, a cura di S. Marchesoni, Mimesis 2017). Eingedenken significa dunque che il passato non è un luogo inerte o un’eredità da tramandare, ma qualcosa di attivo e di imprevedibile tanto quanto il futuro, come sa bene chi conosce la poesia e il pensiero di Milo De Angelis, che andrà considerato come un punto di riferimento – non per lo stile ma, appunto, per il pensiero e la poetica – per la scrittura di Franceschetti. Se è così, si capisce bene come l’atto di testimoniare e il ruolo dei Testimoni diventino un compito attivo, “un volere modificante, un pensiero motorio del nuovo”, con le affascinanti parole di Bloch. È per questo che il lettore, all’inizio della silloge, trova un introitus che dichiara: “La memoria coltiva la sua lingua. / Dal fondo si riversa un sillabario, / cose insepolte che ancora significano / dietro la soglia incerta del visibile”. Il passato agisce, ancora significa nel presente, e lo fa attraverso la memoria e la parola (“C’è un nome che non puoi dimenticare”). È questo il primo Leitmotiv di cui parlavo all’inizio, che risuona in molti testi della prima sezione (“Lasciare che le parole procedano come per gemmazione,/ come per urgenza di dire / questo è stato”; o ancora: “la pagina riaperta, una postilla / vecchia di quasi un secolo, / un pensiero che ancora sopravvive”) e giustifica, per così dire, la pulsione al guardare e al dire che caratterizza la poesia di Franceschetti, nella quale presenze umane e segni culturali (quartetti d’archi, film di Herzog, dipinti di Guido Reni, opere di Dürrenmatt) si caricano della medesima promessa di senso e capacità di “fulminazione”, come la definisce il testo eponimo della prima sezione. In questa poesia-prosa, che pare provenire dalle ultime pagine della Recherche – quando il narratore, durante la matinée dai Guermantes, viene travolto da un vortice di ricordi involontari –, il crescendo conduce a un finale sospeso (“e dunque”) che introduce la seconda sezione, Un pensiero col suo corpo, dove la contemplazione e l’interrogazione si fanno vita vera, spigolosa, incarnata. È questa la parte più aderente alla dimensione orizzontale e concreta dei rapporti umani: l’io, i corpi, si ammassano sui treni, nei musei, si stratificano nei condomini, producono parole, rumori, sorrisi, muoiono o si tolgono la vita, come i tre suicidi cui è dedicato il testo finale (Trois pour les suicides). L’esistenza in cui Franceschetti si cala qui somiglia a un montaliano “ordegno universale”: si parla di “ciclo macchinale”, di “meccanismo stabile / del mondo”, di “ingranaggio” in questi testi, che però trasmettono anche le armoniche luziane promesse dall’epigrafe (e penso in particolare al Luzi di Onore del vero, di Nel magma), quando l’impulso a testimoniare (vera parola-chiave della raccolta) porta a sentirsi “nel vivo dell’enigma”, oppure – poche pagine più avanti – “nell’opera del mondo”.
Arriviamo così alle Misure del canto, l’ultima sezione, che non a caso mi pare la zona più cantabile (risuona ancora Luzi, difatti: “La luce screpola i muri, secca le pozze”), più cristallina della silloge, e per questo, forse un po’ ingenuamente, proponevo di situare qui il suo apice, il punto di massima intensità: i corpi ora si fanno parole, segni sonori (campane, canti, rantoli, gridi, voci interiori) che invitano a partecipare alla sorte di tutti, a non attendere “l’ora memorabile” per prendere parte alla vita (“Allora non opporti alla vita dice l’altro sempre giusto e tenace, / non inchiodarla all’angolo”), come se il diaframma tra l’io e il mondo potesse essere abbattuto più dal canto e dalle voci immateriali che dalla fisicità dei corpi.
Poi, negli ultimi due testi, Franceschetti smette di sentirsi parte di un coro e sembra rimettere in discussione la tenace fiducia nei Testimoni e nel passato che i suoi versi avevano difeso e cercato. Niente accade, le voci sembrano svanire, la parola perdere la sua capacità prensile di suono-segno, di “fulminazione”, di realizzazione di una potenzialità passata: “Ma niente accade, niente acconsente. / Non la voragine, non le voci dei superstiti. / La mente non distingue, la mente è sigillata / al suo fondo oscuro (dunkler grund) / al suo presente. // Piove da cento giorni. / Immagini una torsione. La lingua disarticola la forma, / la parola è tesa, divisa”. È qui che percepisco il diminuendo che culmina nel testo finale, dove il diaframma tra io e gli altri sembra ristabilito, persino rafforzato. Ma se la poesia ha una potenzialità tutta propria, un’arma nascosta che il lettore deve stanare e imparare a ghermire, quella è la capacità di comprimere gli opposti in un paradosso che non si lascia sintetizzare definitivamente: così, proprio laddove ci dice che nessuno canta più e che il legno delle vecchie barche marcisce per le mareggiate, la voce di questo giovane poeta marchigiano ci consegna anche due immagini di resistenza (“Resistono i cadaveri, / li nasconde un baluardo posticcio”), un antidoto alla disperazione individuale: forse un giorno quei cadaveri – come quelli di T.S. Eliot e dei poeti da cui Franceschetti ha tolto il suo bello stilo, poeti che nei loro versi hanno evocato una comunione tra vivi e morti (Montale, Luzi, Sereni, giù giù fino a Pusterla) – forse un giorno quei cadaveri torneranno a fiorire.
Massimo Gezzi
incipit di Testimoni, Emanuele Franceschetti
(INTROITUS)
La memoria coltiva la sua lingua.
Dal fondo si riversa un sillabario,
cose insepolte che ancora significano
dietro la soglia incerta del visibile.
C’è un nome che non puoi dimenticare:
i vivi e i morti restano indivisi
nell’equivoco del tempo lineare.
La vita si contamina, persiste.
EMANUELE FRANCESCHETTI (1990) è marchigiano, e vive a Roma. Musicologo, poeta e musicista, si dedica ad attività di ricerca e divulgazione in ambito musicale e letterario. Dottorando in musicologia presso l’Università La Sapienza di Roma, le sue ricerche sono rivolte soprattutto al teatro musicale nel Novecento italiano, al rapporto poesia – musica, agli studi sull’ascolto musicale. In ambito poetico ha pubblicato Terre aperte (Italic Pequod, 2015)
Qui per vedere la presentazione ufficiale a Milano del XV Quaderno, con i critici Paolo Giovannetti, Italo Testa, il curatore Franco Buffoni e i poeti: https://www.youtube.com/watch?v=W0cpW_m-zgY.