Secondo Reginald Horace Blyth, specialista della cultura nipponica, la parola sabi deriva dal verbo “arrugginirsi” in giapponese, un verbo che evoca il passaggio del tempo, un tempo di solitudine e profonda malinconia, che ritroviamo soprattutto nella stagione autunnale. Un dettaglio che sembrerebbe non correlato al contenuto di questa raccolta, in cui non ci viene precisata alcuna stagione e preferiremmo usare piuttosto la parola “disperazione” o “tragedia”, pensando alla catastrofe naturale e alle conseguenze dell’usura del tempo di cui molte vittime hanno dovuto patire nello stato brasiliano di Minas Gerais. Ma la solitudine e la malinconia caratterizzano il canto spezzato di Prisca Agustoni. La solitudine deriva dall’impotenza dinanzi al disastro umano e politico, così come malinconico è il motivo di questo canto, perché irreparabile, spezzato dagli eventi in cui la Agustoni ha voluto immergersi.
Questo non è solo, come afferma nella sua prefazione sentita Fabio Pusterla, “il punto più alto e più maturo e sorprendente della ricerca poetica” dell’autrice svizzera, ma si tratta a nostro avviso di un capolavoro della poesia dell’ultimo ventennio.
È rarissimo di questi tempi incontrare una raccolta poetica che non ceda in nessun punto, esattamente al contrario di quel che succede nella vicenda narrata: cede una diga, cedono gli argini. Prisca Agustoni riesce a mantenere l’altezza del canto, scegliendo la lirica per parlare di cose che la poesia documentaria americana direbbe più facilmente in prosa, con tutte le incursioni di altri linguaggi (incluso quello giornalistico) che servono. Invece abbiamo a che fare con una specie di poema che pare tagliato con un cutter in sequenze, a volte molto brutalmente, e che nonostante l’asprezza dei toni e le voci altre che si aggiungono nella seconda parte dell’opera, sembra uscire da un’unica gola, la stessa.
La latitudine d’influssi letterari che l’autrice si prende va dall’epica di Roberto Roversi (pensiamo a varie sezioni de L’Italia sepolta sotto la neve) alle più recenti prove di Pusterla, eppure questa voce è solo sua. È fatta di impasti che le diverse culture le hanno permesso di operare (e di più lingue). Perciò non è una raccolta di poesia italiana, ma un testo poetico stratificato in lingua italiana e che va ad aggiungersi alla vasta weltliteratur. Non ha confini.
Per riprendere Brecht, diremmo che il libro della Agustoni non mostra solo la rabbia del fiume in piena, ma anche la violenza distruttiva degli argini che lo costringono, fino a saltare. Il suo canto dice che il dilemma e il disastro sono sociali, transculturali, e che vivere in questo modo non può che generare questo tipo di lirismo che attraversa il tempo, il modernismo eliotiano, il postmodernismo asettico, per sfociare nel nostro presente e gettare un’ombra sul futuro.
È così che si risolvono qui i conflitti, con la poesia. E non è poco, anche perché la Agustoni ha liberato il campo dalle tentazioni più prevedibili: liricizzare, cercando il pathos e ricadendo quindi nella retorica del miserabilismo, oppure prendere le pose da Gran Sacerdotessa delle patrie lettere, pronta a riversare la sua elegia sulle brutture del mondo, pensando di redimere l’umanità con una prova di come è capace invece il genere umano di produrre bellezza.
Nessun fiore del male qui dentro. Per questo anche la categoria di Eco-poetry, evocata da Fabio Pusterla nell’introduzione, mi sembra insufficiente per capire questa impresa. L’autrice avrebbe infatti potuto scrivere su un’altra tragedia, di un altro ordine, e in un altro contesto territoriale. Non sarebbe comunque sembrato un misero tentativo borghese di appoggiarsi a un’occasione propizia, a debita distanza dai gravi eventi occorsi.
Meglio concludere con un solo breve estratto, un esempio di canto interrotto che non dà risposte perché non chiede nulla e pare solo affermare l’inevitabile:
perché dissotterrare fossili
perché scavare nella memoria per trovarvi
terra su terra
ossa su ossa
una storia che pianta radici in bocca,
quei sorrisi di falce o di luna,
così bianchi nella notte,
imitano urla stridenti
oppure gesti di bambola
gelosa del proprio segreto
di chi tutto vede ma non ha voce