“All’origine del divenire: il labirinto dei Labirinti di Emilio Villa” – Una monografia di Gabriella Cinti

Proponiamo un estratto dalla monografia di Gabriella Cinti, "All'origine del divenire: il labirinto dei Labirinti di Emilio Villa" (Mimesis, 2021).

4.14 La scrittura labirintica villiana

La assoluta particolarità della lingua villiana, del tutto incollocabile nel panorama letterario italiano, la rende adatta a fregiarsi dell’aggettivo “labirin­tica”, per una serie di ragioni, tra cui quella, evidente, che i suoi Autografi presentano un aspetto “visivo”: molto spesso, effettivamente, paiono disposti in una struttura meandrica, avvolta in una forma “logopodica” che evoca i “Calligrammes” di Apollinaire. Infatti, si può accostare la loro sembianza “gastropodica” a quella di curve di versi e di parole inanellate, disposte di frequente in forma di ellissi. La sua lingua, definita, tra i vari modi, «intraducibile, indecifrabile, esoterica ed ermetica»[1], suggerisce quindi, di per sé, atmosfere labirintiche. Essa, sostanzialmente enigmatica e imprevedibile, è alimentata da «le invenzioni fonetiche verbali, gli scatti strutturali, le iperboli concettuali e a-semantiche»[2]: una scrittura che, in arte come nella produzione poetica, si mostra come «ardente e visionaria»[3]. Occorre sottolineare come la più volte ribadita “inacces­sibilità” villiana, sia condizione proveniente anche da un fattore strutturale: vale a dire la necessità di avvicinarvisi comunque con un intendimento che, anche quando si pone (con Villa) oltre la ragione, pure è costretto ad utilizzare le forme critiche, e quindi raziocinanti, della scrittura per tentare l’assedio al suo pensiero inespugnabile. La contraddizione appare palese e insolubile: ma a questa e ad altre sfide ci chiama questa impresa. Vi è infatti un nodo gordiano in cui non ci si può esimere dal continuare ad aggrovigliarsi, tra senso e oltre senso: si direbbe una disfatta del significato, in quanto il Senso ultimo si colloca, baluginante, sempre oltre ogni ricerca e si sottrae quindi a ogni cattura. Ma, al contempo, in questa sorta di palude paralizzante ogni volontà razionale, epifanica appare, come miraggio, l’unica vera salvezza: il volo icarico della poesia che proietta fino al vertice, in un salto verticale, il labirinto, affi­dando a quell’inanellato divenire il senso tutto dell’Essere. Pare questa la “Grande Opera” villiana, nel senso alchemico-misteriosofico che egli ben intendeva. Quanto allo scacco del “pensiero critico”, Villa stesso, citato da Carlo Alberto Sitta, offre la chiave di comprensione di questo scontato fallimento, mettendoci in guardia dalla possibilità che la critica possa compren­dere la poesia, e ancor meno la sua: «La critica è quasi sempre», dice Emilio, «un’attivazione, tarda, saggistica, per lo più quindi inerte, di fronte agli acuti eventi della poesia»[4].

        E non si mancherà di mettere in luce mai a sufficienza il villiano, uroborico, tentativo di annodare proton e eschaton, la sua costante ricerca dell’“Origine”, come sostiene Tagliaferri:

è pressoché impossibile distinguere, in Villa, la ricerca dell’origine da quella dell’eternità, gemellate dalla natura paradossale attribuita a entrambe. L’indeterminatezza in cui aleggia l’eternità villiana, sospesa in bilico tra un messiani­smo anarchico di matrice ebraica e la ripresa della tematica afferente all’aión greco, consegue dal fatto che il poeta tiene aperta una via di fuga dalla Storia in direzione del futuro e del passato[5].

        Tale tensione vibrante dentro la voce-scrittura di Villa, avrebbe come obiettivo il raggiungimento di una singolare, e del tutto personale, sacralità del logos: «la parola “priva di lingua”, prebabelica, assoluta rispetto alla Storia, costituisce l’irraggiungibile ma sempre perseguito ideale di origina­rietà del poeta […]»[6]. Il percorso linguistico accom­pagna il tragitto verso un eschaton che ha sempre più le fattezze del Nulla e in cui ogni sacrificio speculativo o simbolico è volto ad omaggiare questo Assoluto rovesciato. Anche Bello Minciacchi definisce l’“opera” villiana come

un’indagine – anche nel senso di una tensione e di un tentativo – indagine ambiziosa e ben consapevole del rischio di disfatta, compiuta per verificare, risalire e attingere alla possibile comune origine dei linguaggi. Una discesa nel trou, o “nell’utero ver­bale” per usare un sintagma delle sue Sibyllae. Un saggiare il vuoto e un procedere verso “il provocatorio illimite niente” […][7].

        Ma se la parola si manifesta come figura di questo cammino, decisa­mente labirintico, il Telos sembra coincidere con il percorso: forma diveniente di un Dio-linguaggio votato all’autosacrificio, attraverso l’accanita dissipa­zione perpetrata da Villa, agghelos di questa crociata inversa. La parola, nel suo annientarsi, deve consumarsi, nel paradossale ed etimologico senso villiano per eccesso di combu­stione, un autodafé che la scarnifichi esplodendo in miriadi di dedali seman­tici o anche solo espressivi iperfonici o “puro-fonici”. Ma il Nulla in Villa non è la Fine, bensì presuppone un orientarsi o arrischiarsi verso un “aperto”, come evidenzia Tagliaferri: «ma la compensazione del sacrificio villiano si produce nell’apertura di un indeterminato, non in una chiusura verso l’ignoto»[8]; e quando anche è “Niente”, è pur sempre un qualcosa di energe­tico, in quanto «trou génératif», ovvero un «foro o un Niente produttivo». Inoltre i dispositivi linguistici e artistici messi in atto da Villa sono altamente vitali, perché attraverso la parola “forata” si creano, come sostiene Tagliaferri, «continui vortici semantici, attraverso l’iperdeter­minazione del senso di ogni parola usata e coniata»[9]. Tutto questo è funzio­nale al grande Progetto:

Lo slittamento metonimico, potenzialmente infinito, non perde mai di vista etimolo­gie, o paretimologie, usate come sonde indirizzate a prestare una forma all’origine. Al di là dei geniali dispositivi retorici messi in campo da Villa, non è infatti difficile riconoscere il ritorno del suo progetto di interrogare i confini dell’immanenza e di decli­nare in forme sempre nuove la questione dell’origine, del permanere nell’attualità del paradossale intreccio tra interno ed esterno e tra ciò che fu e ciò che sarà[10].

        Non esiste soluzione di continuità tra passato e tempo a venire, tra prima e poi, tra graffio, incisione, o parola: il mistero conduce sempre ad altro mistero, come fa tralucere il vero intendimento dell’oracolarità. Come affer­ma Pedone:

origine e futuro si intersecano, viene in primo piano l’oracolo, l’enigma, il labirinto che l’uomo architetta intorno a se stesso divenendone vittima, l’abisso che Villa bam­bino divinava in fondo al labirinto biologico, all’orecchio dei gatti, degli uomini. Per Tagliaferri è qui che si situa “la più coerente realizzazione” di quella sintesi anico­nica tra parole e segno che Villa insegue fin dagli anni del seminario, e che si fa più precisa nella sua oltranza dopo il biennio trascorso in Brasile. “Villa – scrive Taglia­ferri – riscopre ed esalta la tendenza della parola oracolare a ritorcersi contro ogni concatenazione lineare dei significati, a sconfessare il “patto” tra significante significato e, in sostanza, a opacizzarsi, rinunciando a ogni sicuro rinvio ad altro fuori di sé”[11].

        Interessante notare come le tematiche villiane vadano a cristallizzarsi in parole-topoi tanto che si potrebbe quasi individuarne un glossario, contrasse­gnato, come evidenzia Pedone, da questi termini: «Tempo, Parola, Azione, Mito, Origine. E Segno, e Sacrificio»[12]. Indubbiamente, le riflessioni sul complesso concetto dell’“Origine” in Villa possono ampliarsi e moltipli­carsi, quasi senza fine. Infatti, consideriamo le seguenti affermazioni di Pedone:

[…] l’origine cui tende Villa non è un punctum scientificamente determinabile (che la scienza dà per irrecuperabile). È una condizione inimmaginabile, prima di ogni prima, e che tende a un dopo assoluto[13].

        Se l’“origine” incarna in qualche modo la “Verità” in perenne nascondi­mento o la fuga “catoptrica” che rimbalza di visione in visione, allora si può dire che i testi di Villa

si presentano a una prima impressione come dedali di n possibilità di x possibilità inter­pretative dove semantica, fonetica e iconografia della parola si rimandano come in un gioco di specchi riflessi in altri specchi: “Al di là dell’anima ogni cosa è spec­chio”[14].

        Tutto questo assume un andamento propriamente labirintico, nel moto ondivago tra direzione e ritorno, tra il tracciare un percorso, anche linguistico-etimologico, e “s-tracciarlo” (nel senso della negazione violenta e contraria, ma a suo modo concreta nel gesto), rifiutarlo, ossia aprirsi ad altre ipotesi ancora.

        La lingua di Villa, e i Labirinti in particolare, non si sottraggono a questo “imprinting”, secondo Lello Voce,

si fa ibrida di un pasticcio che mescola barocco sontuoso e sermo humilis, dialetto e idioletti tecnici e misteriosofici” in una “serrata […] ricerca di effetti sonori, di intona­zioni, di una struttura ritmica che declini la “pronuncia orale” del testo […][15].

        Quanto all’aspetto formale di una scrittura posta in modo disordinato nel foglio, lasciando spaziature improvvise e imprevedibili, tale modalità ritorna anche nei Labirinti, pur non essendo questi propriamente ancora compiuta­mente “opera”. Innanzitutto perché sono ancora autografi e quindi non riprodotti in scrittura lineare.

        E ancora, questa volta sul piano semantico, si palesa, ancora con il poeta e critico Lello Voce, la particolare attitudine villiana:

Pur se la tendenza a frantumare, quasi a “frullare” la dimensione semantica degli enun­ciati si fa sempre più evidente, in una embricazione sempre più accentuata, va detto che questo percorso di Villa verso la glossolalia è tutto tranne una rinuncia a significare. Come notato da Tagliaferri, egli intende la glossolalia nel suo senso etimologi­camente originario, come “scelta di un linguaggio di cui, a rigore, non si cono­sce il senso, e che tuttavia significa” […][16].

        Vale la pena citare una dichiarazione personale di Villa, riportata da Voce, assai eloquente in questo senso “onnivoco” della parola:

la parola non si scherza, si pronuncia sovraccarica di precessioni, discrepanze di sottra­zioni e distrazioni: la parola è ricatto controvivente […]. Tenete a portata di me­ningi tutte le successioni omologhe: avverse o converse che siano. In senso di onnivo­cità[17].

        La massima “espansibilità” semantica lo doveva condurre inevitabil­mente alla pluriglossia, fino al progressivo abbandono dell’italiano per scelta come principale lingua espressiva: è noto, infatti, il suo rifiuto di questa lingua sentita “non” madre, troppo letteraria e “chiusa” per contenere le inesauste sperimentazioni villiane, che battono ogni possibile strada (o dedalo) dell’altrove linguistico.

        La sua lingua è lo specchio di un pensiero in cui i dati della riflessione della conoscenza vengono come scagliati, secondo quanto Tagliaferri af­ferma, in «una spirale smisurata, cosmica, in cui passato prossimo e remotis­simo, resi contigui con l’attualità, si condizionano a vicenda nutrendosi vicendevolmente dell’altro»[18]: una labirinticità atemporale, quasi siderea.

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[1] Bruno Corà, Odi verso overdosi. Una nuova economia poetica della parola, in Claudio Parmiggiani (a cura di), Emilio Villa, poeta e scrittore, cit., p. 63.

[2] Ivi, p. 64.

[3] Ivi, p. 69.

[4] Carlo Alberto Sitta, Contenuti sfigurati (a proposito di Emilio Villa), in Emilio Villa. La scrittura della Sibilla, cit., p. 52.

[5] Aldo Tagliaferri, Una introduzione alla lettura delle opere di Emilio Villa, in Claudio Parmiggiani (a cura di), Emilio Villa, poeta e scrittore, cit., p. 84.

[6] Ivi, p. 85.

[7] Cecilia Bello Minciacchi, Per Emilio Villa, un jeu tout grand de courage, in Emilio Villa, L’opera poetica, cit., p. 19.

[8] Aldo Tagliaferri, Una introduzione alla lettura delle opere di Emilio Villa, in Claudio Parmiggiani (a cura di), Emilio Villa, poeta e scrittore, cit., p. 90.

[9] Ivi, p. 92.

[10] Ibidem.

[11] Fabio Pedone, Villa (vive!), cit., p. 145.

[12] Ivi, p. 150.

[13] Ivi, p. 152.

[14] Dome Bulfaro, Oratura di Emilio Villa. Ovvero “La me ga scrito (III)” come “te ga dito”?, in Parabol(ich)e dell’ultimo giorno, cit., p. 163.

[15] Lello Voce, Il transito provocato delle idee antiche. Appunti sulla poesia di Villa, in Parabol(ich)e dell’ultimo giorno, cit., p. 190.

[16] Ivi, p. 193.

[17] Ivi, p. 194.

[18] Aldo Tagliaferri, Prolegomeni villiani in La scrittura della Sibilla, Breve antologia poetica, con due Sibyllae inedite, apoteke 7, AA.VV. (a cura di Daniele Poletti), eBook, Dia*foria 2014, p. 57.

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Gabriella Cinti, nata a Jesi, italianista, grecista, poeta, scrittrice, saggista, performer in greco antico.
Libri: Poesia: Suite per la parola (Péquod, 2008), Euridice è Orfeo, (Achille e la Tartaruga, 2016), Madre del respiro, con la prefazione di Alberto Folin (Moretti e Vitali, 2017). La lingua del sorriso: poema da viaggio con il saggio introduttivo di Francesco Solitario (Prometheus edizioni, Milano, 2020). Prima, con nota di post-fazione di Mauro Ferrari, (Puntoacapo, Pasturana, 2022).
Saggi: Il canto di Saffo-Musicalità e pensiero mitico nei lirici greci, (Moretti e Vitali, 2010). EMILIO VILLA e l’arte dell’uomo primordiale: estetica dell’origine, (I Quaderni del Bardo editore, 2019, Ebook Amazon). All’origine del divenire. Il labirinto dei Labirinti di Emilio Villa, prefazione di Gian Paolo Renello, (Mimesis edizioni, 2021).
Sulla sua poesia, il saggio: Franco Manzoni, Femminea estasi. Sulla poetica di Gabriella Cinti, (Algra editore, Catania, 2018).
Vincitrice di numerosi premi nazionali e internazionali, sue poesie sono presenti in diverse antologie poetiche. Recensita su quotidiani nazionali e importanti riviste letterarie.  Partecipa a diversi Festival Letterari e Artistici e a Rassegne Poetiche internazionali.
Tradotta in inglese, greco moderno, romeno, polacco e spagnolo.

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Gabriella Cinti, All’origine del divenire: il labirinto dei Labirinti di Emilio Villa, Mimesis, Milano, 2021.

MediumPoesia – ma la poesia resterà inconsumata

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