Il pensiero di noi tutti viventi – “Atlante di chi non parla” di Maddalena Lotter

Proponiamo un intervento critico di Massimo Del Prete sull'opera poetica "Atlante di chi non parla" (Aragno, 2022), di Maddalena Lotter. Copertina: incisione dell'essere mitologico Ceto.

Atlante di chi non parla, appena edito nella collana I domani di Aragno, prosegue la ricerca linguistica di Maddalena Lotter, inserendosi nel solco di Verticale (Lietocolle & Pordenonelegge, 2015) e Questioni naturali, pubblicato per Marcos y Marcos nel 2019, all’interno del XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea, segnando un passo ulteriore all’interno di un percorso poetico di assoluto rilievo.

MIGRAZIONI /

Definendo coloro che sono incapaci a una comunicazione diretta e immediata (uso questa formula per riferirmi alla variegata pluralità dei protagonisti della raccolta e alla loro differente condizione), l’Atlante, rifacendosi a un significato originario, si apre ponendosi come strumento di mappatura e dunque esplicitando le proprie premesse metodologiche: «L’autrice si domanda | se sarà possibile parlare | della morte | senza parlare di dolore».

La morte è il punto centrale intorno al quale il discorso trova la sua articolazione, indissolubile dall’idea del dolore, aspetto nodale o piuttosto fondamento della fine. Merita da subito attenzione il nesso tra dolore e specie viventi che, nell’opera di Lotter, quasi sempre si identificano negli animali confermando uno dei topos idiografali della sua poetica.

Ne deriva che la dignità degli esseri non risieda nella vera o presunta intelligenza (scalzando quindi l’uomo dal suo posto di preminenza) ma nella capacità di soffrire che diventa metro della comunanza e quindi della comunicazione anche inter-specie.

A nulla vale, dunque, porre un distinguo natura degli animali e autocoscienza di homo sapiens. «Facile, dice, è il viaggio naturale | perché necessario», dice un uccello che si appresta alla migrazione. Migrazioni non è infatti casualmente il titolo della prima sezione, suggellando, anche a livello iconografico, il collegamento tra morte e viventi. Ciò che è naturale non può non essere e perciò è necessario: una deduzione logica che è insospettabilmente una forma altissima di libertà e che a noi non è data, asfissiati all’opposto dalle scelte apparentemente infinite della “cultura”.

Ma se ciascuno è in grado di soffrire, non importa a quale regno animale si appartenga: per ognuno la vita è una migrazione, nata da un nulla e diretta verso un altro. I versi «la morte | che ci riguarda da subito, da prima | che qualcuno ci lasci» restituiscono l’idea della morte come elemento significatore della vita. Comprenderlo permette, infatti, di tenersi a una distanza sufficiente per esserne consapevoli e farsi osservatorio, ancorché parziale (una distanza che sarà tra i cardini del poemetto che costituisce la sezione finale del libro).

Un’idea che viene esemplificata nei testi di pp. 20 e 24. Nel primo, Tori, in un contesto memoriale, alcuni tori neri passano furiosi investiti di un inarrestabile istinto vitale, aprendo a una sorta di correlato profetico: «[…] si è aperta un’immagine nitida: | me stessa invecchiata. | Arrivavo sola sulla spiaggia, | ma non quella, un’altra assurda, sconfinata.» La vita, in uno dei suoi momenti di apice diventa, per contrasto, prospezione non solo della morte futura ma anche di un ipotetico luogo ulteriore, elisio.

Il secondo testo, Meditazione, agisce sullo stesso concetto ma per specularità: «[…] guardavo | la televisione in una luce verde, | era morta una persona famosa | […] È stato allora che uno schizzo di futuro | si è mostrato e tu, dolce | e viva me stessa, mi hai di nuovo parlato.» La morte dimostrata, esposta sia pure con distacco o superficialità, riporta la vita a sé stessa, come una premonizione al contrario: vita e morte si co-implicano, l’una necessaria all’altra secondo un ordine non causale, non temporale.

Ragionare sulla morte si fa allora condizione fondamentale della conoscenza: occorre esplorarla con esattezza scientifica, fisiologica, medica. Lo testimoniano i testi in prosa Algor, Rigor, Livor che riprendono alcune fasi del post-mortem, tentando una descrizione che immancabilmente (potrebbe essere diverso in letteratura?) supera o trascende il dato: «L’io è uscito | forse dal canale orale| […] Eppure non manca niente al corpo | […] Quello che manca è il movimento: ἂνεμος | – viene tutto dal greco, è un vento», in uno struggente parallelismo tra anima e ἂνεμος, il vento, e ancora con lo πνεὖμα, il soffio vitale.

Conoscere la morte sarà allora studiarne gli effetti, come il decorso di una malattia o la lentissima dipartita di un cane, nel bellissimo testo Argo, vista come «un aggravarsi» della testa, un farsi più pesante, certo, ma anche un approfondirsi, un dirigersi verso stati ulteriori, presunti e insondabili.

Tutto partecipa di questo moto: gli alberi che fanno fronte a «stabilità e lacerazione» o la cicala che canta gioiosa prima di venire divorata dalle formiche: «questo, vuole, dunque, la terra? || Tutto viene fatto a pezzi | e a nulla vale che cantasse». Tre versi che mi fanno risuonare nella testa un passo di un monologo da La sottile linea rossa, diretto da Terrence Malick: «La nostra rovina è di sollievo alla terra? Aiuta l’erba a crescere, il sole a splendere? ».

La morte è questa forza «che prorompe | e rassicura», irresistibile, l’unica necessità rimasta davvero all’uomo, impossibile da derogare, una gravità che vince sulla nostra corsa ancor prima di iniziare: «tutto si potrebbe allargare verso la morte || e non basta vigilare su di voi | ammonirvi quando vi trascurate, | sperare che restiate».

STORIE DI ANIMALI GRANDI /

La sezione centrale del libro di Lotter Storie di animali grandi apre più compiutamente al nucleo semantico della raccolta, esponendo chi non può parlare, perché estinto ovvero, in questa sede, non tanto morto ma piuttosto distante, separato.

Se la poesia di Lotter è certamente poesia di pensiero, raziocinante a tratti ma non priva di vertigini visionarie, qui l’io si dispone in una condizione di ascolto, ad accogliere testimonianze di estinti, impossibili nei termini ma non per questo meno vere.

I primi testi portano l’immagine dei musei di storia naturale, un luogo che richiama un tempo indefinibile nella sua distanza se non per approssimazione, ricondotto al presente dai resti paleontologici.

Proprio questa mancanza di definizione innesta sul dato scientifico una matrice analogica, onirica, che, da uno spazio concluso e presente, trasporta in un cronotopo differente in cui le coordinate sono quelle di un passato remoto e di un futuro potenziale o negato («Noi non avevamo pensato | all’accelerazione, | ma un altro futuro contrario»).

Il passaggio tra i piani avviene nel testo di p. 31 in cui l’io si incammina in un corridoio di animali imbalsamati «conservati per sempre nell’ultimo gesto di trionfo o di difesa». Entrando, l’io conduce la vita nella morte e capisce che le bestie «non mi dicono nulla» perché la loro morte è totale compiutezza e dunque irrevocabile soluzione della vita. In questo senso il testo utilizza il sintagma «la via è chiusa» in apertura e in chiusura, come a racchiudere la visione in una sorta di foderamento ecolalico, cercando forse una sponda nella corrispondenza tra nascita e morte che delimitano il racconto della vita.

Nel gioco dei rimandi, all’interno de Il Signore degli Anelli, Aragorn e i suoi compagni si trovano ad addentrarsi in un luogo che è una tomba, non tanto di corpi quanto di memorie, popolata di spettri e il cui ingresso è preceduto da un’iscrizione che si apre e si chiude con lo stesso evocativo sintagma.

La possibilità di una comunicazione avviene per il tramite del sogno, strumento per eccellenza di attualizzazione dell’irrazionale («Nella notte, in albergo, | vengono a visitarmi in sogno | tutte le ampolle del museo.») grazie al quale ecco che «parlano gli animali grandi, estinti».

Il setting è l’oceano, un luogo e un elemento primordiale in cui la vita è vergine e le forze del mondo si dispiegano magicamente, scaturendo da sorgenti fisiche, tangibili («Scendo a certe profondità del mondo | dove le alghe avvolgono, | le pietre diffondono | suoni sottili. | […] e più in fondo | come una leggenda avvisto l’arpa del tempo»). Parlano le creature che vivono negli abissi, ormai scomparse ma così vicine a quelle sorgenti, a una conoscenza ancestrale e perciò totale, non deteriorata («Il primo giorno sulla terra | anch’io c’ero | ma nei millenni mi sono ritirato | in un tempo trapassato»).

L’esistenza scorre scandita dal ritmo di un istinto che dialoga con l’intelligenza e si conforma, ancora una volta, alla necessità dello scontro tra natura e cultura («Da giorni migriamo con i piccoli | che si misurano al seguito. Ci sostiene un buon | vento.»). Si affaccia una ritualità semplice, una risposta alle leggi che scrivono il mondo e definiscono in pace gli esseri («Suona il corno del nàrvalo | […] è facile andare, essere chi davvero | siamo», «Ora suoneranno le ore d’acqua, | il canto notturno | di chi entra in se stesso;»), grati alla vita, pronti a gridarla («un piccolo capodoglio | sperimenta il respiro; || restare in vita | bisogna volerlo»). Un sistema di gesti incomprensibile dall’esterno, dall’uomo che ha costruito le sue leggi come in una negazione del precedente («Ci guardano da una nave ferma come per | capire.»).

In questo flusso il tempo agisce sui millenni allo stesso modo in cui si dipana nei pochi anni di una vita, inducendo alla trasformazione, a un mutamento del sé che pure potrebbe non negare chi davvero siamo. È il caso dei testi a pp. 40-41 in cui un megalodonte e una megattera vanno incontro a un destino di cambiamento («Una volta era un grande predatore, | ma è cambiato. Ora è leggero, […]», «L’anziana megattera riposa distesa | nel ricordo della sua giovinezza») in cui «riposano e sognano», stanchi «di questi lunghi viaggi per poi | sentirsi soli». Entrambi si lasciano condurre «dalle rigide correnti invernali | dallo scirocco d’agosto», «[…] come un polline nel cielo», in una ciclicità di tempo e spazio che riesce a ricondurre a tenerezza nostalgia ed eternità.

IL TESTIMONE /

Il poemetto Il testimone costituisce la sezione conclusiva dell’Atlante ponendosi come una cosmogonia che è sempre un memoriale, ma qui narrato dall’interno, nel modo in cui lo vede il protagonista dei versi.

Pur inserendosi in un solco tradizionale (il rimando a Esiodo è esplicitato dall’autrice in nota e tutta la sezione respira un’antica aria sapienziale) l’operazione appare intensa e originale nel proprio tentativo di fondere, forse a un livello subliminale, cosmogonia teologica e ἀρχή scientifico.

Sin dalle prime battute l’io si definisce a partire da una nascita che sconfina in una familiare biologia («prendo coscienza troppo presto | ancora imbrigliato nelle pareti molli»). La sua comparsa sancisce, al contempo, anche il prima e il dopo del cosmo e afferma una condizione fondativa: «mi trovo in una solitudine immensa», si dice, dovuta certo al fatto di essere il primo essere senziente ma anche, e più in generale, allo stato dell’umanità che verrà. Il discorso procede ordinatamente, per stati successivi di complessità mentre l’io elenca i valori che strutturano e danno ragione alla sua presenza.

La visione: uno sguardo in cui sta «l’onere del mondo», non solo generato ma osservato di sbieco. «Sento che mi farò da parte» racconta l’io, perché dovere di un testimone è di non partecipare al flusso in modo da raffinare la vista, poiché vivere non corrisponde a dire.

Da qui si fa evidente la necessità della distanza («se c’è distanza ci sei anche tu») che ci separa dal tutto per individuarci e darci identità, con le conseguenze che comporta il possedere una coscienza singola, strappandosi a quella collettiva, senza confini (è tipico, d’altronde, dei miti cosmogonici l’operare per separazioni successive, così da modellare il caos in ordine attraverso nomi e identità).

Visione e distanza sostanziano il primo valore, la testimonianza: una dolorosa necessità ma dichiarata come spontanea, naturale, indifferibile (dichiarazioni spontanee è infatti il sottotitolo del poemetto, a eccezione del testo conclusivo). «È la negazione che costa», il farsi da parte, la rinuncia rispetto al moto generale, ma ancora, responsabilità del testimone che lotta tra esistenza e conoscenza e si scontra con l’insolubile problema del linguaggio e della tradizione dei codici («se qualcuno leggerà | sappia che anche la mia è una traduzione»).

La peculiarità dell’io creatore di Lotter è l’iniziale inconsapevolezza: diversamente dalle divinità della storia, il testimone non conosce le leggi né le impone («non ho mai dettato come spesso si crede, gli | ordinamenti del cielo| io non sono un legislatore»), crea per intuizione e osserva il risultato di collisioni progressive, in una creazione caotica ma molto più “naturale” di una divina.

Ne nasce un universo roccioso, indefinitamente primordiale eppure pulsante e vitale («atmosfere | d’albe viola», «opera neri nella roccia», «tempesta di gemme e minerali», «satelliti di madreperla») in un processo algebrico che tanto più dà al cosmo tanto meno lascia all’essenza del creatore, come in una cessione di energia tra sistemi («scaturivano le fonti di luce | […] mentre io scivolavo nel meno»).

L’esperienza creatrice porta alla nascita di nuova vita con un diretto riferimento, anche metatestuale, alle balene, che sembrano sorgere come svegliandosi nell’oceano appena plasmato, «ancora tutto da abitare», come un tempo privo di passato che è ancora tutto di fronte a noi.  Arrivati a questo punto il creatore non sembra affatto un dio ma piuttosto un filtro, un mediatore della creazione stessa, strumento tra gli strumenti se non, estremizzando, rappresentazione della nascita spontanea del cosmo, come previsto da alcune teorie fisiche.

Generatore come genitore, nuovo a ogni cosa, anche al male che non si può arrestare («che sgorga e invade | da una piccola inspiegabile fessura»), che prova sentimenti e felicità, ponendo un netto discrimine tra sé e un dio che genera con esatta freddezza, rispondendo al destino della sua natura («felice di aver pensato il sole», «sono stato il primo essere felice»).

All’apice della creazione l’io è, per converso, all’apice del suo svanimento («non ho più bocca», «non ho memoria di voi») ma la sua traccia è una firma di gioia, nella purezza incorruttibile che hanno solo certi inizi, quando alla testimonianza, per un attimo, si sostituisce la vita che la sopravanza, provocando un’accelerazione “deifuga” (come suggerisce Simon Weil, citata in chiusura) che ci fa tutti esseri umani e, nell’impermanenza, ci eleva oltre noi stessi, come specie.

Come quegli uomini che, nel testo conclusivo della raccolta Pianeti, miliardi di anni dopo atterrano su un pianeta sconosciuto e non sanno di essere guardati da un genitore lontanissimo che si assume la responsabilità della differenza e del distacco dai suoi figli, trattenendosi nel silenzio. Una poesia esatta ma senza alcuna freddezza, “com-mossa” anzi, capace di sussumere l’intero libro, di concentrare in un punto remoto e futuro, distante e vicino, riportando tutto a casa, riportando l’immenso a noi:

«[…] ma l’uomo non sa niente
di quella nuda forma di vita
che con altri occhi lo sta guardando
commossa
dopo miliardi di anni di nulla,
in un amore incomunicabile
come spesso e ovunque è l’amore.» 

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