I moti dell’io negli esordi poetici degli ultimi anni. Terza tappa (Ciaco, Frolloni, Milleri)

Proponiamo la terza tappa dell’indagine critica di Diego Ghisleni sui moti dell’io negli esordi poetici degli ultimi anni, con una focalizzazione sulla poesia di Marilina Ciaco, Riccardo Frolloni e Dimitri Milleri. Copertina: Umberto Boccioni, "Quelli che restano", 1911.

Marilina Ciaco, Riccardo Frolloni e Dimitri Milleri sono gli autori dei libri di esordio presi in considerazione per questa terza tappa dell’indagine. Partiamo da alcune dichiarazioni dei poeti stessi a proposito delle proprie opere. Due di quelli che analizzeremo, infatti, non sono i veri e propri primi lavori editi delle tre voci sopracitate, bensì le raccolte che i loro scrittori hanno accolto come tali nonostante fossero precedute da una pubblicazione rinnegata più maturamente. Precisamente, questo discorso vale: per Corpo striato (Industria & Letteratura, 2021, premio Pordenonelegge Poesia 2022), che il suo autore, Riccardo Frolloni, considera esplicitamente la sua opera prima, squalificando la più giovane plaquette Languide istantanee Polaroid, pubblicata nel 2014 per Affinità Elettive; per Sistemi (Interno Poesia, 2020), per cui vale una presa di posizione analoga di Milleri a scapito della silloge Frammenti fragili (Rocco Carabba, 2017). Non si può dire lo stesso per Intermezzo e altre sinapsi (Edizioni Volatili, 2020), che Marilina Ciaco non ha mai smentito e che pertanto considereremo insieme a Ghost Track (Zacinto Edizioni, 2021), di più ampio respiro e recente pubblicazione.

Tutte le opere analizzate, nonostante le vistose differenze formali, condividono una progettazione singolare e complessa. Utilizzando la terminologia di Paolo Giovannetti[1], possiamo parlare di «libro-installativo» per quanto riguarda i testi di Ciaco: tanto Ghost Track quanto Intermezzo, infatti, si presentano come lavori che, al pari di un’installazione artistica tardonovecentesca[2], si preoccupano di coinvolgere il lettore nel processo di significazione dei componimenti, elevandolo così a secondo autore. Per fare un esempio, in Ghost Track è presente un’intera sezione, Test (da svolgere con l’ausilio del timer), che prevede la partecipazione attiva di chi legge, tenuto a munirsi di matita e cronometro. Inoltre, grazie alle partiture visive di Giuditta Chiaraluce e in particolare all’uso strategico editoriale della carta trasparente, Intermezzo lascia al lettore la scelta di leggere una poesia come testo chiuso o come parte integrante del componimento che abita la pagina retrostante. In casi come questo, è proprio vero che il «libro-installativo» vincola la raccolta poetica al formato cartaceo, garantendone la sopravvivenza e decelerando – se esiste – il processo di virtualizzazione delle opere d’arte.

In Sistemi (pref. Maria Borio) salta subito all’occhio un aspetto curioso della forma che Milleri assegna ai propri componimenti: la prima sezione del libro, Detentivi, è costituita da poesie che, sul foglio di sinistra, hanno un’interlinea visibilmente ridotta rispetto a quella che distanzia i versi dei testi posti sulla destra; la terza sezione, Chiusi, presenta la stessa scelta formale, ma a pagine invertite, mentre nella parte centrale dell’opera, Complessi, tutti i brani hanno l’interlinea ridotto. Elude la regola Avvertenze, che, in quanto poesia incipitaria di una struttura studiatamente macrotestuale, assume una funzione catalettica, di anticipazione e raccoglimento dei temi ricorrenti. Volendo provare a indovinare le ragioni di tale scelta progettuale, e conoscendo la formazione musicale dell’autore, potremmo avanzare due ipotesi, la prima delle quali di carattere puramente visuale: l’alternanza formale dei componimenti restituisce l’impressione di assistere al respiro – e dunque al suono – di una fisarmonica, con i suoi allargamenti e restringimenti; i componimenti con interlinea maggiore possono essere letti come i diversi movimenti di un poemetto, poiché in essi tornano delle costanti che conferiscono una certa struttura narrativa all’insieme. Questo è il caso, ad esempio, della presenza esplicita di una terza persona («lui»), che in Chiusi si affianca a «lei», strutturando un discorso che ha per protagonisti la solitudine e la relazione umana. Ed è pure ravvisabile una coerenza interna alle poesie con interlinea minore nella prima sezione, in rapporto più spesso tematico o sintomatico-diagnostico («panico» : «sala d’aspetto» : «ipermnesia»; «maggese» : «conifere basse» : «l’erba senza uomo»), e tra queste e le altre nella terza sezione, dove fungono quasi da eco («Rimasto a casa da solo con la sorella / può esperire dal nulla il momento in cui lei / non l’amerà già più» : «[…] mentre sotto / come una velatura, mollemente / nidificava il parassita, l’evidenza // che alcune volte non puoi fare niente»).

Corpo striato (pref. Stefano Colangelo) ha invece una forma definita per sequenze di testi numerati (sogni I, sogni II, sogni III ecc., e così via per movimenti e materiali; preghiera I e preghiera II, fasi I, II, III, IV, V e VI, memoria 0), che si direbbe elaborata sul modello di Pitture nere su carta (2008), di Mario Benedetti. L’innovazione introdotta rispetto a quest’ultimo sta nella rinuncia alle sezioni, e dunque nella scelta di disporre uno dopo l’altro componimenti appartenenti a gruppi anche diversi (per esempio, a materiali IV segue movimenti VII). Come Intermezzo e altre sinapsi, anche il libro di Frolloni attiva un dialogo tra poesia e immagine, dotandosi di un apparato fotografico illustrante luoghi e persone cari all’autore.

Passiamo ora a qualche osservazione sulla veste linguistica e stilistica. Notiamo intanto una certa differenza di scelte lessicali e sintattiche compiute da Frolloni e Ciaco rispetto al caso di Milleri, che ricorre a una lingua tutto sommato piana o non marcata. Corpo striato, da questo punto di vista, rivitalizza una sintassi e una lingua popolareggianti («lu figliu de peppe?»; «ci sono due luoghi che passando / faccio il segno della croce»; «farfuglia qualchecosa»), a tratti complesse da seguire, che fanno apparire il testo, se non un flusso di coscienza, un’invasione di voci e pensieri difficili da organizzare armonicamente. Lo stile disordinato di questo libro è coerente con il tema centrale della morte, straniante di per sé.

Per quanto riguarda le opere di Marilina Ciaco, si evidenzia una notevole differenza tra le scelte lessicali di Intermezzo, dove compaiono diversi neologismi («amplessano»), tecnicismi («sinolo», «foro / occipitale», «bit») ed echi zanzottiani («potresti essere solo questo / protettivo-incoativo dentro / e invece lumesco exardesco»), e quelle di Ghost Track, senza dubbio meno manieristiche e ricercate.

In Sistemi si rileva una percentuale – seppur minima – di sperimentalismo linguistico. Si tratta per lo più dell’errore lessicale volontario: «“ho imparato / come i pronomi si confondano in un rito / che non si dà deviare”» (p.57); «Lui ancora non se c’è accorto, ma» (p.58). Sarebbe interessante indagare le ragioni di questa scelta formale, considerando che la poesia di Milleri non ripropone una sperimentazione post-neoavanguardista[3] alla maniera di Prosa in prosa (Tic, 2009), eppure riadatta uno stilema tipico di quella ricerca, giocando a tratti sul filo sottile che distingue il linguaggio quotidiano – il parlato e i suoi malapropismi – da un ipotizzabile lessico dell’arte.

Allo stesso modo, includere la prosa in un libro di versi – come fa Ciaco – oggi significa ragionare – anche implicitamente – su ciò che contraddistingue una forma dall’altra, e dunque dedicarsi a un certo tipo di sperimentazione. Inoltre, in Ghost Track, l’interesse per la ricerca si manifesta anche attraverso il ricorso alla tecnica del cut-up, cioè del ritaglio da testi extra-letterari: «la vita umana viene prima di tutto e bonolis lo sa […] / o continueranno a tenere il pubblico in ostaggio, come fa notare / la clerici?».

Per tutti e tre i casi di studio, il tema dell’identità è centrale e si relaziona sempre strettamente a quello dell’alterità. Corpo striato tratta questi motivi più esplicitamente rispetto ai libri di Milleri e Ciaco. L’opera si presenta come il prodotto di un trauma e il suo necessario superamento: come si può facilmente intuire dalla dedica («a mio padre morto»), si ha a che fare con una scomparsa importante, con la sparizione di un ‘tu’ sostanziale e sostanziante la vita stessa del poeta, dopo la quale il soggetto empirico non può fare a meno di ridimensionarsi. Nella poesia di Frolloni la presenza dell’altro contribuisce in maniera fondamentale alla costruzione della forma identitaria con cui l’io si pensa (non Riccardo ma «lu figliu de Peppe»), tant’è che la morte dei terzi strutturanti si fa sentire come «mancanza umiliante», denudamento, prova fenomenologica della solitudine e dell’inconsistenza («Là dove sono solo, io non ci sono»). Come abbiamo già avuto modo di vedere leggendo Diritto all’oblio di Sara Sermini (qui), ciascun individuo concepisce la propria identità anche sulla base di ciò che sceglie di ricordare. Per superare il trauma, allora, è necessario che la dimenticanza sia di supporto per annebbiare le memorie più dolorose, qui legate alla figura del padre, senza però cancellarle, affinché l’io resti in pieno possesso della libertà di reinventare la propria narrazione: «[…] Nella dimenticanza ho trovato la forza. Nella confusione delle direzioni o nel magma, / nello scioglimento dei soggetti, dimentico e perciò narro, costruisco, mi metto controvento, con gli occhi / rossi per gli schiaffi, continuo». Del resto l’oblio è in primis lo strumento con cui la psiche umana reagisce naturalmente al dolore, intervenendo per trasformare il lutto in malinconia[4] e sfumare i volti delle persone lontane. Ma la ricostruzione di un proprio senso narrativo dev’essere integrato da un investimento di valore sulle relazioni che la prima persona intrattiene con chi resta ad abitare il suo universo intersoggettivo («stringi più forte qualcuno stasera, ricalibra la vita»). Quando la forma del sé vede recisi i propri legami con le individualità che contribuivano a identificarla, l’io attraversa un momento di disidentificazione che assomiglia alla morte, uno stato di «pace e quiete», di «nulla che genera l’angoscia», ma nel quale esso è «determinato psichicamente nell’unione immediata con la sua naturalità». Qui la poesia si manifesta come contorno impersonale precedente («il di fuori, come ciò che precede»), ma non può essere pronunciata, poiché qualsiasi parola è definizione e corruzione – e questo è il suo grande tratto paradossale. Quando l’io decide di rinarrarsi, invece assistiamo, al contrario, a un processo di identificazione che non può prescindere dal riallacciamento dei rapporti con l’alterità: a questo proposito, il verso lungo mima una spinta orizzontale, in direzione dell’altro. Ecco dunque che Corpo striato aggiunge un dedicatario: «gli amici, i poeti», presenti nell’apparato fotografico o idealmente rappresentati dal componimento di Andrea Donaera, e «con loro una lunga serie di amici presenti senza bisogno di apparire, li ringrazio tutti, mi hanno salvato».

Anche in Sistemi il rapporto con l’altro è un motivo piuttosto importante già a partire dal titolo, che potrebbe rimandare alla concezione saussuriana e strutturalista di sistema come insieme di elementi di valore variabile e dipendente dalle relazioni che intrattengono fra loro. Nel libro di Milleri questo tema si declina negativamente, poiché, più che la corrispondenza, è il disaccordo a verificarsi tra l’io e le altre persone. Lo dimostra esemplarmente il tono ironico dell’ultima poesia del libro, analettica in funzione del discorso macrotestuale, con lo scopo di riesumare e concludere: «Corrispondenze? Certo, come ieri: / dall’aula quattro si sentiva esatta / l’intonazione in limonaia del fagotto / con l’eco di una sega circolare». Il motivo dell’incomprensione satura diversi componimenti, come il testo VI della sezione Complessi, in cui si legge «Ti ho chiesto dei vaccini, mi hai risposto / lo spazzolino elettrico, nel cellophane», e nel quale, peraltro, compare l’io lirico per la prima volta in tutta la raccolta (e dopo 21 poesie), quasi a suggerire l’inizio di una chiusura nel sé dopo tanti tentativi falliti di corrispondenza. L’incomprensibilità filtra nel testo anche sotto forma patologica, come malattia della memoria («L’ipermnesia colpisce prima il cuore, / le statue degli affetti come fiori / finti nei cimiteri / le miniature esatte del vissuto. // Si perde il filo, tanto è quel nitore»): è la spia di un discorso poetico attento, anche qui come in Corpo striato, a illustrare il paradosso dell’oblio, che rende impossibile qualsiasi forma di conoscenza laddove non interviene a falciare il qui e ora dal passato. Al di là del disfunzionamento di determinati meccanismi personali, tra vite che dimenticano, una corrispondenza può forse cogliersi solamente nell’approssimazione («Però la nostra è una vita che approssima»), quando i suoni e le immagini sfumano a tal punto da somigliarsi senza mai coincidere: può essere, questa, la metafora di una vita individuale, che solo nella dissolvenza si accorda con le altre. Tuttavia, a tal proposito, in Sistemi è diffuso un certo pessimismo, che impedisce il miracolo anche sul limine di esso, perfino a chi, scegliendo di non nominarlo, evita di raffigurarlo come corpo estraneo e perciò irraggiungibile («è sempre un terzo, vedi, a rivelarlo, / restando escluso dal miracolo non meno / di chi lo vive senza nominarlo»): il momento della morte, di soluzione dell’io all’esterno delle forme del corpo, è verificabile solamente da un osservatore che ne viene escluso. In effetti, l’esclusione è un altro motivo dominante del libro e, suggerito in primis dai titoli delle sezioni d’apertura e di chiusura, Detentivi e Chiusi, sembra correlarsi strettamente al concetto di singolarità incomprensibile e prigioniera di se stessa. È infatti tra le pareti di una «rude / stanza insonorizzata» – come quelle del cranio –, che si può «spergiurare che la morte no!», vergognandosi di farlo di fronte allo sguardo degli altri, della «seriosa commissione / revisione patente». L’autenticità appartiene a una dimensione privata, e viene inevitabilmente corrotta nel contesto di socialità: per questa ragione l’individualità è incomunicabile, e amputata da ogni possibilità di connivenza con il tutto che resta («Sapevi del tuo corpo, come un diamante, / giocato tutto sulla sottrazione, / ma almeno trova il modo di scordarti / se non di perdonarti, di scordarti / l’amputazione»).

Intermezzo e altre sinapsi, di Marilina Ciaco, suggerisce uno dei suoi temi principali già a partire dal titolo e dalla poesia incipitaria: per il corretto funzionamento del corpo, e in primis del cervello che lo comanda, le cellule nervose devono comunicarsi informazioni attraverso dei collegamenti. Ci pare una situazione assimilabile a quella di un’istituzione sociale o di un gruppo di persone, che possono assolvere alla loro funzione solamente se gli individui che li compongono strutturano un ambiente cooperativo: «propositi del mese: / incominciare a parlare / favorire l’omeostasi termica / essere con gli altri». Abbiamo però già riscontrato – nei testi di Sistemi, ad esempio, ma anche in Corpo striato – come la collaborazione e in generale qualunque tipo di relazione umana portino l’individuo ad assumere una configurazione ogni volta diversa, dunque a un’apertura non esattamente autentica e totale («ripensarsi come sistema semi-aperto / ridimensionare il ciclo delle verifiche / inserire, fra le strategie e gli atti, uno scarto […] imparare a parlare in pubblico in cinque mosse»). Il contatto fra l’io e il mondo avviene infatti attraverso un rivestimento il cui scopo è proteggere «quanto è contenuto al proprio interno»: una membrana che coincide con quanto di più complesso anima l’essere umano («sogni», «istinti», «ricordi propri e altrui»), ma che, per costruire le sinapsi con l’alterità, deve necessariamente «semplificare», cioè falsificare, cosicché «la meccanica di contatto fra due tessuti» è di fatto un «frastuono frammisto o roboante risuono / di voci che amplessano / senza toccarsi». Anche la nominazione delle cose e degli stati d’animo è una corruzione della loro inconoscibile costituzione ontologica; la lingua è un atto arbitrario di semplificazione semplicistica, ma necessario al dialogo e alla comprensione, utile a perforare «l’involucro»: «una luce ustiona la parete / la chiamano vastità / devastazione / non ha nome ed è il suo nome». Esistono poche soluzioni alla comunicazione reale, alla coincidenza autentica con l’altro: una di queste è la condivisione del tragico, che è forse l’unica esperienza circoscrivibile a tutti. Di fronte a un incidente mortale, è possibile una dissoluzione, una separazione dell’io dal profilo della sua forma: «Gli specchi riflettono l’immagine del visitatore, ma opaca, appiattita dalla lastra scura, si perde il contorno che distingue figura e sfondo». Dall’altra parte, esiste la via dell’annichilimento («si attende il momento / giù nella tana / ma avviene la forsennata la / fuoriuscita di vita?»): «imbambolarsi» è la scelta di essere talpa, di «cavarsi gli occhi» per non distinguere più, poiché vedere è soffrire la separazione dal mondo, sentirsi intrappolati nella propria identità («non esistono in natura due iridi identiche»). È questa una soluzione adottata da diversi autori nati negli anni Novanta, come abbiamo già visto attraversando la poesia di Carlo Ragliani e Giorgiomaria Cornelio nella prima tappa di questa indagine (qui).

In Ghost Track, questa poetica dell’impossibilità di una comprensione con o nell’alterità viene ripresa e approfondita. Lo possiamo constatare già dalle prime prose, dove si rappresentano le storie di una perdita (del gusto, di un figlio, di una donna associabile alla bellezza) che ha sicuramente a che fare con il contesto in cui l’autrice scrive: in lockdown, chiusa tra le pareti di qualche edificio – una situazione che, di certo, avrà stimolato più di una voce a ragionare sull’io e sull’importanza dei rapporti con l’altro. Da un lato, in questi testi è avvertibile tutta l’incomunicabilità che già percorreva Intermezzo: «Se ad esempio mi dicessero «sei neurotipico» io lo prenderei come un complimento, anche se nel frattempo penserei: mi dispiace, ti stai sbagliando, le cose non sono andate proprio così»; dall’altro, Ciaco fa un passo avanti, introducendo il problema – già visto in Frolloni e Milleri – di ciò che comporta una relazione qualsiasi allo statuto dell’identità: «Adler diceva sempre me lo ricordo, Occhiblu, quando eri viva […] preferiva pensare […] che era giusto aver perso la bellezza quando la bellezza rischia di farti perdere te stesso». Constatati i limiti della forma con la sua plaquette d’esordio, l’autrice presenta qui il bisogno di identificazione dell’io, la sua esigenza di aggrapparsi a sé stesso e di riconoscersi: «parcheggiare la bicicletta fuori dall’ufficio / o dentro al cortile della casa / è demarcare il territorio, darsi un posto». Tuttavia questa prima spinta diretta all’interno, fra le pareti del sé, convive e collide con un’originaria incapacità di vedere l’altro, di comprendere la sua essenza autentica («non riesce a vederli, i contorni si riversano sullo sfondo / le linee non si chiudono […] ha visto una processione di fantasmi, si attraversano senza toccarsi / c’è così tanto qui che non si tocca niente»): per un’identità, l’alterità è irraggiungibile, appare sfuocata come una traccia fantasma. La soluzione è ancora una volta la cecità, la scelta di disinnescarsi, di non distinguere per non percepirsi come corpi estranei, scartati dal resto di un mondo che non ammette relazioni autentiche («riesce a vederli quando ruota il meccanismo di chiusura delle imposte / per riaprirle soltanto il giorno dopo»). O forse una «nuova specie» di esseri-con-la-mascherina («metà viso tempestato di paillettes dorate») può far sperare in una comunicazione di sguardi, più sincera e luminosa, prescindente dalla parola che stabilizza e falsifica.

[1] P. Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila. Un percorso di lettura, Carocci, Roma, 2017.

[2] Per un esempio, si vedano gli ambienti installativi del Gruppo T, alcuni dei quali sono conservati al Museo del Novecento di Milano.

[3] Il riferimento è a Gli strumenti della poesia. Manuale e diario di poetica (Interlinea, 2020) di Franco Buffoni, dove l’autore individua sei tendenze della poesia contemporanea: Post-Neoavanguardia, Neo-orfici e/o neo-ermetici, Poesia civile, Manierismi, Eredi di Linea lombarda e Poesia dialettale.

[4] P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna, 2012.

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Silvia Righi | In direzione uguale e contraria. Sulla poesia di Laura Di Corcia

“In tutte le direzioni” (Laura Di Corcia, lietocolle&pordenonelegge) è una contro-Odissea, il canto in cui il ritorno è una meta a cui non aspirare e il passato non è una spinta ma una condanna, e deve essere inibito per la pura sopravvivenza. Silvia Righi recensisce l’ultimo libro della poetessa Laura Di Corcia, uscito dopo due anni dalla plaquette “Traduzione e microsismi” (2017) (Rimini/ParcoPoesia).

Con poesie lette ad alta voce dall’autrice.

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