1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?
Tra tutti, Luogo del sigillo, di Alfonso Guida:
«gli anni ossuti, cruenti, gli anni che fanno
la nostra tenerezza, il vuoto nero
dell’abisso, Torremozza era questo»
C’è poi Poesie della ricucitura, di Francesco Russo
«So di una catastrofe imminente,
ne dicono le case, i numeri
il pane. L’angelo pende
obliquo sul filo del nascere»
Ultimamente mi sono perso tra le poesie dialettali, in logos erchomenos di Zanzotto da cui, credo, bisognerà tracciare nuovi movimenti di studio e di pensiero:
«dài baranài tananài tatafài
sgorlemo i sissi missiemo i sonai»
Ancora, c’è un poemetto di cui si è parlato molto, nelle riviste dedicate, ma ancora fuori commercio. È il lavoro che mi sembra culmine e vortice di questi anni; una bestemmia diagonale, una spina nella stigmate: Dialoghi con Amin, di Giovanni Ibello.
«Amin, il volo a trapezio dei cormorani è un alfabeto senza luna. Avrai una stella di cenere
sul fianco, uno stecco di mezzaluce. Una spilla conficcata nel cuore di neve, la tua parola
sarà l’inganno, la Mesopotamia dell’invisibile: uno che batte furiosamente il viola dei polsi
sulla rena. Fermati, fermati primavera»
Infine, l’opera al fondo del dialogo coi morti che ho tentato di instaurare – ma chissà in quale lingua, in che miseria. Parlo di In che luce cadranno, di Gabriele Galloni:
«I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano – e l’altra all’Invisibile»
2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?
Ma io del quotidiano non ho nessuna esperienza: i poeti li riconosco solo perché in qualche tempo, alle pendici del Carmelo o tra le strade di Gerico, nello Zin o a est di Chesbon, li ho già conosciuti. E le loro lingue hanno tratti incerti, come se attingessero in malagrazia a un altrove sfibrato, a un’infanzia barocca di lamiere. Balbettano, di solito – e io con loro.
3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?
No, non è una comunità cui aderisco: piuttosto vi indugio. Ma è in tutto, che indugio, in Tutto – e Mario Mieli ci ricorda che «al di là della totalità, c’è tutto il resto». È quella soglia sconosciuta che mi interessa; quella porta senza fondamenta – arco aperto sul deserto e l’invisibile. Ho stretto profonde amicizie, però, con i poeti; alle volte anche con i lettori. Altri li amo, teneramente e in segreto, e forse non sono mai esistiti.
4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?
Mi piacerebbe usare i nomi, nei miei versi. Nomi dell’al-di-qua; saper dire Simona, Samuele, Alessandra, o Pasquale – e ordinarli, aprirli, sparpagliarli. Mi chiedo come facciano, inglesi e americani, a fissarli tra le rime o le cesure. Quant’è che durano, i loro nomi, e quanto robusti paiono? Ho paura dei nomi che mi abitano – e di quelli cui busso, perfino appena appena. Sarà che credo onesta soltanto una parola oscura, adespota, brevissima.
5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?
Dicevo, poco prima, dei Dialoghi con Amin, e li dicevo una «bestemmia diagonale». Penso a Kandinskij, a Tensioni e controtensioni diagonali con un punto che provoca il pulsare interno in una costruzione esterna. Spesse notti Roberto, nella mia stanza, mi racconta del nastro di Möbius, di torsioni della pseudosfera, di altre e quasi inaccessibili algebre. Ultimamente, poi, la notte è Rachmaninoff.
6. Che rapporto hai con la rima?
La rima si rinnova nell’identità del suono; innesca un paradigma sonoro definito, la più prevedibile di ogni elastica. L’orecchio, detto altrimenti, sa cosa aspettarsi; è già nel suono a venire, già nel ritmo. D’altronde, se a rhythmus cade la dentale…
Bisognerebbe provocare una carie, frantumare il suono e ricomporlo irriconoscibile, sperso in altre voci, smarginato. Usare, oppure, la rima come pedana, come costruzione di una prevedibilità che si sfaldi. Cadere dalla rima, e mai nella.
7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?
Mi piacerebbe piuttosto sapere quali domande pongono i poeti. Quelli che vorrei ascoltare saprebbero, domanda dopo domanda, di non avere risposte. Tuttavia, poiché ne abbiamo parlato più volte, bisognerebbe domandare a Giovanni Ibello. Sarei poi curioso di Pietro Romano e Alessia D’Errigo. Ecco, però, che immagino da mesi un dialogo di Romano con Lorenzo Fava. Come separarli?
«Come tradurre l’azzurro arreso del cielo,
quando, con l’odore di terra riarsa, le parole
separano le nubi dalle nubi, gli uccelli
dagli uccelli, le foglie dalle foglie?»
- dice il primo
«Descrivi tutto: una clessidra si rovescia,
una colonna s’assottiglia. Tutto
si lima, si limita a rispondere a disegni
in corso d’opera. Vedi, si conciliano
così amore e morte. A parlarne sempre
non li hai mai sperimentati. Io so
cos’è vedere la luce raccartocciarsi,
so come ci si sente nell’esprimersi
solo nei silenzi»
- risponde l’altro.
Questi versi sono tratti da L’età dell’uva, il mio studio sui morti e sugli amanti; i miei anni confusi tra i due poli, i due margini, le due visioni.
Vorrei conoscere il mondo dei morti,
reclamarlo in una lingua senza storia
che non abbia una grammatica, ma possa
avverare tutto ciò che si pronuncia.
Mi usano per parlare a chi è rimasto,
vogliono che dica, rovesciandola,
la parola che non hanno mai trovato
*
Legami nel sangue. Non temere
che mi ammali o sia stretto troppo forte:
solamente ciò che è unito nelle vene
resiste alle stagioni e non finisce.
*
Non leggermi la mano. Tra le linee
troveresti soltanto la tua sagoma.
*
Incida in tutto il corpo la parola
invisibile che governa le stagioni;
al rovescio incida i segni sopra i tagli
delle vene, a sangue aperto
ne ricavi bandiere e vaticini:
solo questa la missione degli amanti,
nuova nella cenere ogni volta
che giochiamo ad allacciarci all’ombelico
la luna, il tabacco e i nostri morti.
*
Vedi, non restano che i nostri
frutti sulla tavola:
mia madre che li sbuccia; i loro
nomi che pendono dall’orlo
e cadono tra il pavimento e l’invisibile.
Ora all’uva basta un soffio per marcire
in fretta e diventare una preghiera.
Mattia Tarantino