1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?
C’è, prima di tutto, Il sarto di San Valentino (Ensemble, 2018): Iuri Lombardi è una delle voci più interessanti della sua generazione. Con Lombardi ci confrontiamo quotidianamente, potremmo dire parola per parola. Ciascuno è lo spietato editor dell’altro e da lui ho ripreso, e poi fatto mie, alcuni stilemi, certi modi di guardare il mondo. Aggiungo Le parole accanto (Interno Poesia, 2017) di Michela Zanarella. Sebbene a una prima lettura la si potrebbe accusa di eccessiva semplicità, quella di Michela è una semplicità conquistata a fatica, per dire il bello che c’è nel mondo, che è spesso più difficile di raccontarne i mostri. Una scrittura che fa bene leggere. Poi c’è l’antologia uscita per Dot.com Press (2016) delle poesie di Francesco Tomada, che ha delle epifanie davvero spiazzanti e uno stile che potrebbe rifarsi come caposcuola a di Luigi Di Ruscio. Pina Piccolo è un’altra autrice che a me piace molto. Con La macchina sognante e con la controparte internazionale The dreaming machine sta facendo un lavoro eccezionale di diffusione. Ma è soprattutto con la raccolta I canti dell’interregno (Lebeg, 2018) che ho capito davvero la poetica di Pina: è una scrittura dal forte respiro americano, non a caso fa la spola tra l’Italia e la California, una poesia contemporanea per la capacità che ha di denunciare i problemi globali e per risolvere i quali non abbiamo più molto tempo. Una simile direzione è evidente anche in Nuova poesia americana, vol. 1, a cura di John Freeman e con le traduzioni di Damiano Albeni (Black Coffee, 2019), perché oltreoceano i libri mi sembra abbiano una potenza del tutto diversa dai nostri. Come ho già scritto (qui: https://www.barbaricoyawp.com/post/poesia-invito-alla-lettura-della-nuova-poesia-americana-vol-1 ), questo salta subito all’occhio leggendo le note bio-bibliografiche dei selezionati, ricche di Poeti Laureati, premi Pulitzer e National Book Award, storie di attivismo o cattedre universitarie. Ma soprattutto nella maniera di costruire l’oggetto libro, che è sempre centrato su un focus particolare: dalla questione delle minoranze, come la ricostruzione della storia degli indiani d’America in Layli Long Soldier, al rapporto tra fiabesco e miti mohave, come in Natalie Diaz, o al tentativo di fare luce su come sia stato costruito nel tempo il corpo delle donne nere, a partire dalle Indie coloniali e in stretto rapporto con le forme assunte via via dalle dee, fino alle questioni ambientaliste o di carattere scientifico, come le scoperte del telescopio Hubble in Tracy K. Smith.
2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?
Sono un sostenitore convinto dell’idea di «letteratura come vita», per questo ho bisogno di impossessarmi delle biografie prima dei testi. Se è possibile, di permettere ai testi di fare parte della mia vita aprendo la porta alle persone che ci sono dietro, vive o morte che siano. Entrare nei loro laboratori e vivere il presente della loro creazione, la poesia che guardano nel mondo, prima ancora che la poesia guardata nei testi. Con tutti gli autori e le autrici che ho citato prima ho cercato di creare questo rapporto. Francesco Tomada, conoscendo questo mio approccio, mi ha invitato per esempio a leggere le Lettere dal mondo offeso (L’arcolaio, 2014) tra Christian Tito e Luigi Di Ruscio. Io non conoscevo ancora nessuno dei due e non avevo letto ancora le loro poesie. Oggi credo che l’antologia delle poesie di Di Ruscio (Marcos y marcos, 2019) dovrebbe non solo entrare nella lista di sopra, ma anche nel canone della poesia italiana. Ancora un esempio: quando ho conosciuto Alberto Pellegatta e Stelvio Di Spigno sentivo profondamente il loro essere poeti, prima ancora di leggerne i testi. Ipotesi di felicità (Mondadori, 2017) o Minimo umano (Marcos y marcos, 2020), altre due raccolte che aggiungerei alla lista della prima domanda, me ne hanno dato una conferma. Quello che voglio dire è che una volta che crei delle relazioni con delle persone, è il loro modo di guardare il mondo e la loro sensibilità che finisci per accogliere nella tua vita, arrivando in qualche modo a trascendere anche i testi. Ci sono libri che mi hanno cambiato la vita, di cui non saprei citarti nemmeno una riga. Il libro è per me uno strumento che mi avvicina o mi allontana dal suo autore. Con la critica empatica che ho proposto in F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Ladolfi, 2018) ho cercato di dimostrare che questo può accadere anche tra noi e gli autori del passato: sento l’uomo Fitzgerald, per esempio, e il suo vissuto, sempre vicino a me, pronto a consigliarmi, perché per me la scrittura a che fare con la vita, prima ancora che con le parole. Ho una idea puerile della letteratura.
3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?
Sono contrario all’idea di poesia come dono, che è una bella parola con cui molti autori nascondono quella più autentica di promozione. Leggevo di uno studio che metteva in evidenza il fatto che spesso a Natale si facciano i doni più inutili o evitabili, per chi li riceve. Così accade spesso anche con i famigerati doni della poesia. Siamo sicuri che sia un dono che a me piace o che sia felice di ricevere? Questa premessa è necessaria per rispondere alla tua domanda. C’è una forte crisi della poesia che non riguarda tanto la ricerca e il linguaggio, quanto l’editoria e il mercato. La scena poetica italiana non è reticolare come quella, per esempio, della narrativa: è al contrario un microcosmo, dove ciascuno di noi conosce o ha sentito parlare di tutti gli altri e in cui, più o meno a turno, eliminando antipatie personali, tutti escono sulle stesse riviste o spazi on line. Per certi versi la scena poetica italiana è similare alle logiche degli algoritmi, perché è difficile uscire fuori dal mondo degli addetti ai lavori. Grazie a Yawp, posso leggere molto di ciò che di nuovo viene pubblicato e in qualche modo tra i redattori di Yawp si è instaurato un rapporto comunitario, che però rimane anche un rapporto professionale. Ma ora come ora ci sarebbe bisogno di strabordare e di cercare la comunità con un pubblico che non sia quello di chi scrive poesia o degli addetti ai lavori (che per inciso quasi mai comprano i libri, dovendoli recensire). C’è bisogno di cominciare a parlare anche di mercato poetico e non solo di critica letteraria, come ho provato a fare durante la mia esperienza in «Atelier».
4. Che rapporto hai con la poesia straniera?
Mi sono formato e continuo a leggere prima di tutto poesia americana. Ho cominciato dai poeti della Beat Generation, per poi proseguire a ritroso. Lo dico, per me: ancora oggi Howl di Allen Ginsberg mi pare un poema irragiungibile. Ciò che mi affascina della letteratura americana è prima di tutto questo stretto rapporto con la vita e l’idea di professionalità legata al mestiere di scrittore, di cui ho parlato prima. Spesso mi viene rimproverato che dovrei prima recuperare i poeti italiani degli anni Settanta, Ottanta e così via… il problema però è che alcune concezioni della poesia americana non riescono a trovare terreno fertile in Italia. Emerson per esempio diceva che l’intuizione detta da sé il proprio ritmo. Williams Carlos Williams che la metrica è una forma di rituale che si frappone tra la poesia e la realtà. Sono robe che qui fanno storcere il naso. C’è poi il fatto che, come ho scritto su Yawp (https://www.barbaricoyawp.com/post/essay-centouno-anni-di-ferlinghetti), la poesia americana ha una tradizione tradita fin dai suoi albori: Walt Whitman è il poeta tradizionale americano per eccellenza, ma è anche il poeta che rompe tutto. Questo fa sì che quella che a noi sembra una avanguardia come la Beat Generation, in realtà sia una poesia legata dritta dritta con un filo a quella della tradizione. Credo in più che la poesia americana sia anche tradizionale nel senso più antropologico del termine. Questo si vede nel rapporto che lega i beat al jazz o, ancora, se si confrontano i beat con i poeti della negritudine. Ecco cosa scriveva per esempio Léopold Senghor: «Il negro ha i sensi aperti a tutti i contatti, alle più lievi sollecitazioni. “Sente” prima di vedere e reagisce immediatamente al contatto con l’oggetto, e cioè alle onde che esso emette dall’invisibile. E attraverso questa potenza di emozione egli prende coscienza dell’oggetto. Qualcuno mi ha rimproverato di aver definito l’emozione come negra e la ragione come ellenica, cioè europea. Ed io mantengo fermamente questa mia tesi. Il fatto è che il bianco europeo tiene l’oggetto a distanza. Lo guarda, lo analizza, lo distrugge o per lo meno lo soggioga, per utilizzarlo. Il negro-africano intuisce l’oggetto ancor prima di sentirlo, ne assimila le onde invisibili e i contorni; poi, in un atto d’amore, lo incorpora a sé per conoscerlo profondamente» (in LEOPOLD SENGHOR, Poesie dall’Africa, trad. di GIUSEPPE CECCONI, Pontedera, Giovane Africa Edizioni, 2014). Pensiamo anche al negro di Arthur Rimbaud, che non a caso è uno dei modelli esemplari di questa poesia: c’è una linea che lega tutte queste esperienze e che si muove molto molto lontana dalla corte di Federico II, che guarda all’Africa e ai suoi ritmi come alla culla dell’umanità.
5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?
Sì, sono molto appassionato di antropologia e, in una certa misura, di transumanesimo. Prendo moltissimo da lì. In questo periodo, però, sto cercando di raccapezzarmi anche su altro. Penso per esempio all’esperienza di Cambridge Analytica e a quanto questa ci ridimensioni. A come funzionino i big data. Cerco di seguire le mille idee di Elon Musk e di confrontarle con gli strumenti della letteratura (per esempio qui: http://www.altrianimali.it/2017/11/28/cronache-marziane-ray-bradbury-vs-elon-musk-distopia-vs-utopia/). Anche i poeti dovrebbero mostrarsi interdisciplinari, perché altrimenti si rischia di rimanere fuori dai temi della contemporaneità. E non è tanto una questione di posa civile: il climate change è un aut aut, da una parte c’è un modello di società futura fondata sulle reti, in tutti i sensi, e dall’altra quella che viviamo oggi. Potremmo essere gli ultimi a dire qualcosa.
6. Che rapporto hai con la rima?
Come ho cercato di argomentare, secondo me il ritmo non deve per forza aderire a delle forme metriche. Devo confessare che la rima, quando la sento in un autore contemporaneo italiano, mi allontana dal testo. Credo che il motivo sia dovuto in parte al fatto che, essendomi formato sugli autori americani e, in una prima battuta, sugli autori americani tradotti, è difficile che in una traduzione la rima resista. Sento la rima come qualcosa di anacronistico, forse sbagliando. C’è poi da dire che è difficile non suonare cose già suonate, usare cioè la rima in modo nuovo o diverso. Questo però non mi vieta di amare per esempio la poesia di Vivian Lamarque. Sono poi un accanito lettore di libri per bambini: il modo che ha di usare la rima Winnie Puh o Roald Dahl nelle sue filastrocche è straordinario.
7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente interessanti o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?
Credo che Dolore minimo di Giovanna Vivinetto e In che luce cadranno di Gabriele Galloni siano libri destinati a rimanere nel tempo. Sono autori che hanno cercato e hanno trovato, più la prima del secondo, un pubblico fuori dagli addetti ai lavori. Sono entrambe esperienze molto interessanti e che ho già difeso in più sedi. Ci hanno fatto capire quanto i poeti italiani fatichino a concepire il libro anche come qualcosa che debba essere promosso. C’è poi la poesia di Mattia Tarantino, una specie di enfant prodige per tutto ciò che porta avanti. Anche Paolo Pitorri e Sara Comuzzo hanno due poetiche che mi hanno colpito molto e per questo motivo ho fatto in modo che entrassero in Yawp: Paolo deve ancora esordire, ma la sua poesia ti arriva dritta addosso e non ti permette di spostarti, mentre di Sara Comuzzo suggerisco la raccolta Una bellezza lontana (2018). Ho fatto delle belle scoperte anche tra i poeti di Planetaria e se devo dirti un nome tra tutti sceglierei Manuel Micaletto, perché la sua mi sembra una poesia che strizza l’occhiolino al mondo digitale e dei videogames in una maniera davvero interessante.
Che cosa faremo quando finiranno i soldi
se da qualche parte ci aspetta un ponte
o forse una madre a indovinare la forza
per cercare ancora una parte nel branco: ma fare la spesa
ogni giorno era la prima soluzione contro l’assurdo
come accettare di avere scoperto il mostro
sotto il letto a sorridere nero come una parte della famiglia.
Ci eravamo lasciati alle spalle una mancanza
tra le stanze vuote: ricordo ancora la povertà della casa
quando non avevamo ancora la corrente, ogni bolletta
costava una madre o una schiena e minorava l’esistenza
come matricolare la vita giorno per giorno
o subire la tragica necessità del cibo:
avevamo così poca fame
che cercavamo da mangiare nella spazzatura.
*
c’eravamo lasciati alle spalle una giogaia
di ampiezze bianche: era il problema di una cura
così che il nostro abbraccio si faceva radice
e come una coppia di rinoceronti estinti
somigliavamo agli eroi delle foreste o alle rupi.
*
C’era ancora la paura del ritorno:
chiedevamo l’unicità a qualcosa che non poteva ripetersi
una volta sola come tremare gli agguati degli uomini,
piangere l’inverno. Ci avrebbero di nuovo tagliato
la corrente e portato via la mobilia della casa,
finché non saremmo piegati alla spazzatura, al sapore amaro
delle cose gettate: allora facevamo la doccia fredda
fino a tracimare il gelo. Non ho mai saputo
meglio la fine: vorrei pagare il mese con le parole,
mangiare la carta – invece ho una fame vera
di trascrivere l’arcobaleno in bianco e nero,
alterare il diluvio: voglio alberare il cielo di caducifoglie.
Antonio Merola
la presente intervista è stata redatta a luglio 2020. La data di pubblicazione è stata scelta esclusivamente per motivazioni editoriali.