Pietro Polverini | Per un’analisi sinottica di 3 antologie di poeti nati fra ’80 e ’90

Presentiamo un articolo del nostro nuovo critico della redazione, Pietro Polverini, che compie un’analisi sinottica delle tre recenti antologie sui poeti nati fra gli anni Ottanta e Novanta: Poeti italiani nati negli anni '80 e '90 (Interno Poesia, 2019-2020) a cura di Giulia Martini, Abitare la parola. Poeti nati negli anni Novanta (Giuliano Ladolfi, 2019) a cura di Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello, Planetaria – 27 poeti del mondo nati dopo il 1985 (Taut, 2020) a cura di Alberto Pellegatta e Massimo Dagnino. A seguire una tabella con l’elenco alfabetico degli autori italiani presenti in una o più delle antologie, con città e anno di nascita.

Di recente, nel rapido declinare di una manciata di mesi, sono state pubblicate tre antologie di poeti legati alla generazione degli anni Ottanta e Novanta. Al di là dei dibattiti teorici legati ad operazioni simili fondate su criteri quali il contesto generazionale di riferimento, queste tre opere creano una visuale, seppur parziale, sui movimenti tellurici che stanno agendo sottosuolo nella poesia contemporanea in questa fase di iniziale fioritura. Sembra tautologico evidenziare come, in questa sede, l’antologia non vada intesa in senso classico, quanto, per citare Ibello, come «una cartolina spedita dall’antimateria», climaterica quindi di certe tendenze stilistiche e tematiche contemporanee. L’antologia, ergo, non monumentalizza né vuole canonizzare l’incanonizzabile (dal momento in cui ci si trova di fronte ad un’ampia selezione di autori inediti o alla prima/seconda pubblicazione). Da questo punto di vista un pungolo preciso che stimola un’analisi sinottica ce la fornisce Mengaldo che, nella sua introduzione al celebre Poeti italiani del Novecento, sottolineava la funzione museale del genere antologico, il cui scopo è «costringere l’astante entro strutture figurative intertestuali inducendolo perciò a praticare la comparazione che è il primum e la condizione indispensabile di ogni giudizio» (1978, p. XVI). Lo spazio tracciato dall’antologia, di conseguenza, configura uno zwischen, un “tra”, l’interstizio linguistico e ontologico abitato, in una pluralità di sensi e forme, dagli antologizzati.

  1. Corpi, serie ospedaliere e vita vegetale

La prima antologia che prendiamo in esame è Abitare la parola, edita per Ladolfi nel novembre 2019 nella collana Smeraldo. Il titolo immette fin da subito all’interno di una Stimmung heideggeriana, lasciando scorgere il sottofondo ermeneutico che ha guidato il lavoro dei curatori. La metafora dell’abitazione del linguaggio deriva dal celebre passaggio contenuto nella Lettera sull’umanismo dove, con tono perentorio, si asserisce che «il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora» (p.31). Il compito di custodia del linguaggio, luogo in cui viene alla luce l’essere, non è di certo neutro: in Hölderlin e l’essenza della poesia (1936, testo di una conferenza tenuta a Roma nel 1936 su invito di Giovanni Gentile), Heidegger sfrutta cinque detti-guida holderliniani per determinare l’essenza della poesia: lungi dal volere circoscrivere lo spazio dell’essentia o del concetto generale, Heidegger scomoda il Wesen, qualcosa che ci coinvolge fino in fondo giustificando la nostra relazione con la storia. Tra questi cinque frammenti che delineano l’essenza della poesia campeggia a tinte ardenti quello che tuona sul linguaggio come il più pericoloso dei nostri beni. Il linguaggio è un pericolo nel senso che in esso si può occultare l’essere stesso, confondendo la parola essenziale con quella inessenziale. Alla luce di quanto detto resta chiara l’indicazione di Eleonora Rimolo nell’introduzione all’antologia, dove afferma che «i testi proposti, a giudizio dei curatori, sono rappresentativi di uno slancio poetico indirizzato verso un’universalità del dettato che attualmente si sta appiattendo […] centrandosi esclusivamente e in modo nevrotico sul proprio Io» (p.5). Tuttavia, immergendosi nei tessuti testuali degli autori antologizzati, ci si scontra con una realtà letteraria polimorfa, variopinta e, non sempre, tendente al grado di universalità (posto che sia necessaria) annunciata nell’incipit introduttivo.

Si può prendere come notevole exemplum iniziale «la prosa senza essere prosa» di Simone Burratti, dove vengono compendiati una serie di aree semantiche che ricorrono per tutta l’antologia: in Progetto per S. (NEM, 2017) svetta come focus testuale un avatar/soggetto dal nome S., di cui vengono tratteggiate fisionomie gastroenterologiche: «S. è un uomo che soffre di meteorismo. La parola meteorismo gli piace, e sente che lo rappresenta appieno» (p.31). Di questo individuo viene servita e elencata tutta una serie di coordinate corporee: «nonostante i segnali evidenti di un peggioramento: l’incurvatura della schiena, la graduale perdita di profondità degli occhi, l’odore animalesco, liberato col sudore e con le feci – S. non vuole essere curato» (p.32). L’avatar S., chiuso in camera sua è emblematico di tutta una serie di testi che si ripiegano sulla registrazione del dato empirico corporale: in Letizia Di Cagno se ne auscultano i segnali già dai presagi dell’alba: «il giorno incomincia dai vestiti sudati. / La disidratazione dall’acqua. / Questi sottili ricatti di vita / che conosceranno perfino te / nel giro di bucato: / riprendimi fiato» (p.63). In Damiano Scaramella: «si potrebbe, forse, essere così ottusi / da fingere di avere un corpo» (p.132). Questa tendenza tematica legata al corpo come dato immediato, registrato nella controparte testuale si intreccia con un’ulteriore declinazione della sfera dei corpi: l’ospedale come luogo biopolitico di cura-detenzione nonché come topos letterario da Residenze Invernali di Antonella Anedda a Non come vita di Gilda Policastro (si potrebbe suggerire timidamente anche Neurosuite di Margherita Guidacci). Cosa accade a un corpo ospedalizzato in un testo poetico? L’esempio più eclatante è fornito dai componimenti di Clery Celeste, dove si assiste ad una sorta di prosodia radiologica: l’andamento ritmico del testo è cadenzato dalle ricognizioni dei macchinari medici: «io li vedo quelli sani / che arrivano con larghi sorrisi / e alla prima scansione di TAC / palle da golf nella pancia / la libertà dei gesti / e da professionale sanitaria / sono gentile, tolgo l’ago / e “arrivederci signore” / ma saperli di un mese» (p.42). La serie ospedaliera, di rosselliana memoria, si configura attraverso stilemi e tonalità varie: dall’approccio radiologico di Celeste si passa a quello più formalmente calibrato, soppesato e cesellato di Dimitri Milleri, in cui, nel poemetto inedito Convalescenza, si legge: «oggi ho capito che il dolore non è quello / dei libri belli o il mio senza memoria. / Ho visto uno riempirsi di un altro morto» (p. 105). Oltre queste due linee tematiche registrate, si può notare, come contraltare dell’esperienza dell’individuo in quanto corpo, una curiosa e costante catabasi nel mondo vegetale, diluendo la sostanza umana nella sua componente vegetativa. In La vita delle piante Emanuele Coccia afferma che «la vita vegetativa, per l’aristotelismo dell’Antichità e del Medioevo, non è semplicemente una classe distinta di forme di vita specifiche o un’unità tassonomica separata dalle altre, ma un luogo condiviso da tutti gli esseri viventi, indifferente alla cesura tra piante, animali e uomini. È il principio tramite il quale “la vita appartiene a tutti”» (Coccia, 2018, p. 19). In Burratti: «gli asparagi sono i germogli della pianta omonima, si usano per fare la frittata con gli asparagi e il risotto con gli asparagi». Carlo Selan invece, in un’atmosfera whitmaniana, scrive: «ancora e camminare nei fiori/delle mani ai fili ruvidi di erba / e stare a guardarsi stare e ridersi / […] / e gli occhi nel sole e il sole nei palmi con voi / e la memoria di oggi, se ci siamo guardati». Sfrutta abilmente un polisindeto vegetale, erboreo dove ogni filo d’erba-parola si connette al prato-testo. Infine in Francesca Santucci, da La casa e fuori, il mondo vegetale è ricondotto alla dimensione della virtù teologale della fede: «il primo giorno di catechismo ci regalano una pianta, perché bisogna prendersi cura delle cose: delle piante, di noi stessi, della fede».

2. Veicoli e apocatastasi

La seconda antologia oggetto di studio è Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90, edito per Interno Poesia in due volumi, pubblicati a distanza di un anno, curati da Giulia Martini. Le differenze epidermiche che balzano subito all’occhio a una prima analisi sono principalmente due: l’allargamento dello spettro generazionale alla decade Ottanta e l’inserimento di un prezioso cappello introduttivo, a opera di critici-critici o critici-poeti esterni alla curatrice, a mo’ di nota per ogni poeta antologizzato. Per quanto riguarda le due introduzioni ai volumi, le indicazioni ermeneutiche di Giulia Martini puntano sull’ostinata presenza, nei vari autori, di svariati mezzi di trasporto (macchine, autobus, teleferiche, treni et similia) necessari «per lottare contro un’assenza, per tornare a casa» (p.5, Vol. 2). Questo ritorno tratteggiato da Martini troverebbe il proprio punto di partenza da uno stato lucreziano di “disgregazione del mondo”, una zona di de-soggettivazione alternativa rispetto alla catabasi nel mondo vegetale segnalata nell’antologia precedente.

Un primo veicolo con cui si risponde alla frantumazione – all’io che si pensa e considera isolato – è il monitor, indagato nella prospettiva di Maria Borio, dove nidifica «l’enigma della distanza / dal posto in cui si addensano i luoghi che ci hanno abitato» (p.31, Vol. 1). Le immagini che si sedimentano attraverso lo schermo, viatico di antiche visioni, creano una zona di intersezione tra puro e impuro: la trasparenza, da trans parēre (mostrarsi attraverso), che «ci separa e insieme ci connette» (p.27, Vol. 1). Da questa linea possiamo rintracciare come costola di derivazione tematica la massiccia presenza di oggetti consueti legati alla sfera informatica, telefonica e social, declinati in più modalità (compiendo forse un abuso). In Demetrio Marra è inscenata una rocambolesca videochiamata: «ieri nel sogno con Pepè in Skype call / come se nell’inferno ci fosse un corso per down / di aggiornamento informatico, ecdl» (p.154, Vol. 1); in Ophelia Borgesan in chat «ci daremo a volte dieci / anni in meno, a volte dieci in più / per il profilo e per il curriculum / vita terremo la stessa foto” (p.113, Vol. 2). Tuttavia, oltre lo stradone virtuale, il canale attraversato per oltrepassare l’assenza è il catalogo tombale, adottando la meditatio mortis come medium per sondare un principio che non parla. In Manuel Giacometti il sepolcro è riportato al suo dato materiale: «Elucidare le pietre tombali / coi loro p(r)ezzi di marmo / unito, classico o fiorito / d’elleboro, stramonio ed artemisia», mentre in Damiano Sinfonico si tratteggiano i paramenti di un funerale: «la funzione non è durata molto, / poi le macchine in processione: abbiamo varcato il cancello, / la terra profumava di crisantemi (p.82, Vol. 1). Infine Terzago: «Camminiamo tra lapidi industriali, calpestando la terra rimestata / confusa con gli aghi di pino” (p.101, Vol. 2). In un certo senso è come se agisse come temperie comune dell’antologia – pur con le dovute differenze – un desiderio di apocatastasi nel senso di ritorno ad uno stato originario in cui, valutato il peso delle contraddizioni della storia, si valica il confine posto tra principio e principiato, tra origine e creato per interrogare il Grund, il fondamento senza parola che della parola poetica ha bisogno per dirsi e rivelarsi. Questo itinerario di apocatastasi viene compendiato da una serie di diramazioni testuali legate alla sfera dell’archeologia: ancora Terzago espone il rinvenimento dei resti di una ragazza nello Yucatan: «gli studiosi le hanno dato il nome di Naia quando / la hanno ritrovata in un complesso di caverne dello / Yucatàn allagatosi circa diecimila anni fa. / Le sue ossa erano mischiate a quelle degli elefanti e orsi preistorici» (p.98, Vol. 2).  In Marco Malvestio, di cui stupisce la radicalità d’indagine nei lacerti riconsegnati dall’antologia, si legge: «i castrati di Attis hanno senz’altro / acconciato la salma nel migliore / dei modi, dissimulando / le frane che la morte / imprime alle pieghe del viso / con la fragorosa abbondanza dei fiori» (p.130, Vol. 2). L’origine a cui rinviene il testo poetico è perciò una coincidentia oppositorum monca, la lacerazione non conosce la strada effettiva della riconciliazione. La temporanea e parziale sovrapposizione dell’alpha e dell’omega emerge chiaramente in Francesco Ottonello: «senza numeri senza foto né ricordi / pian piano sbiadiranno i volti e i nomi / e aspettare che vengano a prenderti / e di nuovo essere / riportato nella vecchia casa” (p.158, Vol. 2). Infine, alla luce di quanto detto, sono emblematici i versi di Maria Chiara Rafaiani, casualmente (?) posti a conclusione dei due volumi: «voglio godermi il poter capire / quando dura il gioco / se l’inizio è sempre fine» (p.172, Vol. 2).

3. La comunione dei vivi e dei morti.

L’ultima antologia che prendiamo in esame è Planetaria. 27 poeti nati dopo il 1985, esordio editoriale di Taut. Il primo dato che contraddistingue questo volume è la composizione internazionale dei poeti che campeggiano all’interno del libro, tutti introdotti da una breve nota biocritica. L’introduzione, di Alberto Pellegatta e Massimo Dagnino, è animata da una pervicace acribia metodologica: fin da subito i curatori cercano di delineare con perizia i criteri che hanno guidato l’operazione di cernita antologica. Da una parte si mette in luce la necessità di compendiare «una poesia il più possibile immune all’effetto amalgama» (p.5): da ciò deriva l’idea di superare la dimensione di un’indagine di natura censitaria. Dall’altra, fatta un’ampia e ariosa premessa sulla relazione tra testo poetico e internet/socialnetwork, i curatori sembrano delineare i propri parametri d’elezione per via negationis: i componimenti dei contemporanei operano «quasi sempre a livello superficiale, ossia tematizzando anziché formalizzando: terminologie tecniche, assunte solitamente come un dovere, scene o scenari tratti da ambiti tecnologici inevitabilmente intinti in salsa quotidiana e diaristica» (p.6). Inoltre, data la possibilità di accesso totale alla rete, da parte degli autori, la fruibilità totale di stili (comunque da dimostrare) creerebbe una sorta di «palude terminale attraverso cui solo apparentemente vengono attuate opere di transcodificazione» (p.7). Alla luce di quanto detto, i poeti di Planetaria, sono stati selezionati per «caratteri irriducibili e antifrastici» alla tendenza comune delineata in precedenza. Il loro campo d’azione è lo stile: «conseguire una riconoscibilità immediata e incontrovertibile attraverso lo stilema» (Ibidem).

Queste premesse sono corroborate da alcuni casi felici, come Gabriele Galloni, nelle poesie del quale si riconosce senza ombra di dubbio l’abilità volatile, gravida di spettri letterari di ascendenza crepuscolare, di risemantizzare forme canoniche come le quartine di In che luce cadranno, dove l’evocazione di una comunità dei morti sui generis fa da contraltare alla creazione di uno spazio metrico in cui c’è un dialogo fra lisoformio e infestazione, tra misura e Abgrund (abisso): «Ai morti si assottiglia il naso. Quando / li sogni se lo coprono. È normale / vederli a volto coperto passare / dal corridoio al bagno alla cucina» (p.84). Il naso – oggetto letterario gogoliano – si assottiglia perché non c’è più nulla da fiutare, il mondo dei vivi è al di là di una recinzione che non consente anabasi o resurrezioni, permeato dall’index aromatico dello zenzero che «brucia. Ma calma /. I morti così calmano l’alta marea che invade / le loro abitazioni – con lo zenzero». (Ibidem). La prospettiva letteraria che indaga la possibilità di questa comunità sui generis risulta originale proprio perché la poesia italiana del Novecento ha posto l’accento sull’inesistenza di un’effettiva distinzione tra vivi e morti. Di fatto per Giovanni Raboni questo steccato non sussiste, tanto che in Gesta romanorum si legge: «se non fosse per questi apostoli di merda,/ per queste incredibili dodici persone / che fra morti e essere vivi / trovano sempre qualche differenza». Stesso discorso vale per i versi di Mario Luzi, presenti in Dal fondo delle campagne: «Solo / la parola all’unisono di vivi / e morti, la vivente comunione / di tempo e eternità vale a recidere / il duro filamento d’elegia. / È arduo. Tutto l’altro è troppo ottuso». Il consorzio dei vivi, altrimenti, negli autori antologizzati, adocchia e ammicca alla comunità dei morti, come sottofondo costante e ritmato. In Dina Basso, i cui componimenti sono in dialetto siciliano, si ritrovano riferimenti cromatici al lutto: «Ma matri mi diceva / ca nun m’ava vvestiri di niuru / ca è u culuru de morti, do luttu de’ vecchi (Mia madre mi diceva / che non dovevo vestirmi di nero / che è il colore dei morti, / del lutto, / dei vecchi)» (p.26). In Davide Cortese: «Ragazzi nel colmo del coraggio all’assalto / delle mura filano traendo fiammelle fra le tombe / in un fatuo spavento, la morte incapsulata / nella loro scia turbinosa di fuoco» (p.57). Un’ulteriore atmosfera epigrafica si rintraccia in una poesia in Mario Gennatiempo: «Sono arrivato deserto / e me ne vado deserto. Rigoglioso mi ospitò marzo / con ampi festoni di alloro. / L’amata stringeva fiori / la madre allattava il suolo» (p.86).

Conclusioni

Da questo incrocio sinottico attraverso il quale si sono scorte simmetrie e asimmetrie che hanno accumunato questi lavori antologici – con le osservazioni preliminari fatte in sede di introduzione – rimane il beneficio (più o meno lasco) di aver aperto uno terreno proemiale che traccia – tramite un placet iniziale – l’ipotesi delle modalità compositive degli autori avvinti alle generazioni Ottanta e Novanta. Da ultimo incuriosisce più che la presenza di alcuni poeti in quasi tutte le antologie, l’assenza sibilante di altri, i cui nomi ronzano come lo sciame d’api di Aristeo rinato dalla carcassa del vitello nel IV libro delle Georgiche virgiliane.

Pietro Polverini

A seguire MediumPoesia propone una tabella di tutti i poeti italiani antologizzati nelle tre operazioni

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