Le poesie di Antonella Anedda, a partire da Notti di pace occidentale, sono per me legate a una certa mia consapevolezza come persona, come lettore e scrittore di versi in prima battuta, ma più profondamente sono legate a un certo modo di tradurre linguisticamente le immagini.
La dedizione-ossessione per le cucine nei mattini che precedono l’alba, i colori notturni che trascolorano nei riflessi metallici dei lavabi, i riflessi lunari gettati su terreni brulli e siccitosi.
Per questo, dal mio primo incontro con lei, centellino le letture, lascio che passino i mesi (o gli anni come in questo caso) e poi faccio ritorno ai suoi libri, come si fa coi luoghi temuti e desiderati insieme.
Historiae esce nel 2018 nella serie bianca di Einaudi Editore, dopo un silenzio di circa sei anni. Il titolo ricalca le Historiae dello storiografo latino Tacito, che troveremo citato sia in esergo che direttamente nei testi a partire dal nucleo centrale della raccolta, dall’impronta più chiaramente politica, storica, sociale.
Nel libro si avverte intenso un impulso emotivo a cercare nel passato la chiave per la decodifica e l’identificazione della nostra vita oggi contro l’aspetto più razionale di un io che, giocando sul filo delle metafore, disincanta il valore del passato e depotenzia la portata semantica della memoria.
«ogni sette anni si rinnovano le cellule: | adesso siamo chi non eravamo»: è qui, tra questi versi che si afferma come quella vita rimpianta – che per un bias romantico riteniamo la parte migliore dei nostri giorni – sia in realtà la vita accaduta ad un altro organismo («Eppure non ha senso | rimpiangere il passato, | provare nostalgia per quello che | crediamo di essere stati»).
La domanda allora è: cos’è la vita qui ed ora? Da questo l’idea di osservatorio, luogo in cui si prova a ri-trovare uno statuto all’esistenza presente dopo aver scardinato il precedente principio ordinatore: un flusso causale e temporale che porta da momento a momento in modo continuo.
Punti di vista disperati nell’infinitamente piccolo e grande, nel tutto-prima (preesistenza) e tutto-dopo (morte e lutto) della vita. Si va a tentoni, come ogni volta che si scardina una certezza o uno schema culturale, il linguaggio si distende nell’imitazione del vero, semi-prosa: e su tutto domina una gassosa confusione.
OSSERVATORIO
Passato, vita, memoria: tre topoi comuni nella letteratura di ogni tempo e questo nella misura in cui queste tre tracce disegnano la nostra esistenza, fanno la nostra umanità.
Anedda cerca di guarire un passato diventato massa tumorale, ipertrofico («il nostro passato è cresciuto | tanto da non poterlo fendere | né attraversare») e dunque debilitante rispetto alla nostra vita attuale. In questo senso, anche l’archivio storico, singolare e universale, dell’umanità diventa solo un cumulo di scartafacci se «l’acqua ruota in su senza memoria», se ogni personalità si riduce non più alle sue speranze ma ai suoi terrori («Io con l’io mi nascondo | chiamando a raccolta quello che sappiamo| abbiamo paura»).
Anche l’atto metadiegetico del comporre o trascrivere una poesia su PC e salvarla in cloud si traduce in versi fatti così: «salvo in una nuvola l’insalvabile».
È la memoria, siamo noi.
Ma forse è proprio per questa serie di rinunce che ci si attacca così tanto alla vita, come chi ha perso l’amore più grande e lo rivorrebbe uguale e intatto. «Eppure mi struggevo ancora viva d’invidia per la» dice un io dislocato nell’alone galattico (i.e. la parte di spazio che circonda una galassia, relativamente vuota di stelle), un luogo qui quasi extracorporeo in cui la mancanza della vita per come gli uomini la intendono non è compensata da una conoscenza superiore data dalla grande scala d’osservazione.
La vita, per come potrebbe essere, compare per abbagli, «s’illumina d’oro a ogni venatura» se la investono le stelle dell’Auriga o si ricondensa nel grande mot-clef di Anedda: la tregua («ciò che chiamiamo pace | ha solo il breve sollievo della tregua» si diceva in Notti di pace occidentale).
«Quando la vita non è un intreccio | ma un balbettio di digressioni», quando non è prospettiva, progetto ma equivoco, anche allora «quella tregua consola | anche noi scettici», come fosse «una pace inspiegabile […] che non chiede niente | […] è solo attenta, premuta sulla terra, distante dalle stelle».
Questa felicità che ha nome tregua è allora oggetto reale, terrestre, sotterraneo, contrapposto alle altezze vertiginose del cosmo e, anzi, possibile solo lontane da esse poiché, come abbiamo visto, non schiudono una più vasta conoscenza della nostra.
Anedda è poeta autentica, racconta sempre una forma del vero pur dentro la menzogna letteraria e brilla di una chiarezza splendente pur nei suoi interni fumosi: richiede scavo e ricerca ma restituisce tesori preziosi.
Vita come sopravvivenza di un sogno allora, come accoglimento di una pace occulta e raccolta. Ma certo anche allora la morte «presente da sempre in uno spazio esatto | posata accanto alla nascita». Alcuni lutti personali, infatti, preconizzano i lutti della specie della sezione successiva ma con un taglio particolare: Anedda usa i concetti più sottili ed elusivi di fisica e cosmologia moderna come metafore dell’aldilà della morte: se questa è il luogo più remoto dalla vita, possiamo descriverla con le idee scientifiche che più ci hanno portato lontano. Così in Sciami, fotoni la morte «fino alle stelle irraggiungibile | dove il tuo respiro rallentava» viene bilanciata o definita dal Sole (i fotoni) che conduce «verso un luogo dove si irradia luce | e non esistono pronomi».
E così via, morte e preesistenza si mescolano, portando ai limiti estremi l’idea di vita («scomponimi di atomi, lasciami attraversare dalla luce»), tentando visioni e nuove conoscenze (numerose le occorrenze del verbo “guardare”), abilitando persino il potere semantico del sogno («Di colpo ero via da me stessa mi ero uscita di mente», si dice citando Dante).
Azione intellettuale e nuove forme di conoscenza avranno il potere di plasmare a nuova immagine il mondo? O non staranno solo «provando inutilmente | a scostare la legge dell’essere vicini e poi perduti»?
STORIE A OCCIDENTE
«Ci sono tracce?»: si introduce così la sezione centrale ed eponima del libro di Anedda. E la presenza di questo verso in un testo di esergo sintetizza ed anticipa quello che verrà.
Le tracce sono quelle della storia, non per forza quelle volontariamente impresse nel paesaggio del mondo per restare, per testimoniare. Tracce più vaghe, come graffi guariti male o scarificazioni epidermiche che si notano solo modificando l’angolo di incidenza della luce sulla pelle.
La storia del mondo è la nostra storia e, in qualche modo, fa bene la quarta di copertina a definire ‘politico’ questo nucleo centrale di scritti, se con questo aggettivo intendiamo la storia sociale degli individui.
L’io si avvia in un percorso fatto di spaesamento, in un cammino a tentoni in cui non si discrimina più la realtà fuori di noi dalle allucinazioni della mente («o sento solo i perduti, gli stranieri, | i prigionieri»). Punto di appoggio è l’auctoritas del passato, il Tacito di Annales e Historiae, che permea come un nume questi testi.
La sua «sintassi agiva come un laccio emostatico, | frenava enfasi e lacrime», nella sua opera «non c’è posto per i paesaggi o per l’amore». Forse è proprio questo che occorre all’io: un rapporto di cronaca sulla spietatezza del passato, riflesso su quella del presente, come a porre una distanza, una separazione fredda, raziocinante rispetto a un quotidiano orrore di morte. Un orrore che ci è proposto in fredda serie e che noi ingoiamo in modo quasi inavvertito.
Non a caso i termini “televisione-televisore” si ripetono così spesso: è con questo strumento che ci apriamo alle cose esterne e da esso arriva «l’ennesima notizia della strage», in una rappresentazione straniante, svuotata, artificiale. Il prefisso “tele”, cioè lontano, dispone questi eventi in uno spazio remoto, cioè epico, posto a distanze incolmabili, tra città crollate e date alle fiamme, profughi senza dimora, miseria, crimine: uno spazio distante e vicino allo stesso tempo, in verità, che per un po’ possiamo credere non ci riguardi, che sia sempre il luogo di qualcun altro.
È proprio a questo punto che l’afflato politico e di vaga denuncia sfuma, si deposita sul fondo, provocando uno scambio sui binari che di colpo ci riporta al “dentro” della prima sezione. Da un ambito generale, storico, universale si scivola di nuovo al di qua e tutto si fa specifico, emotivo, particolare, ovvero privato. Unire il sé al tutto è possibile se usiamo la morte come criterio per operare la trasformata: è solo così che capiamo che le vite a noi vicine e che tanto ci appassionano sono solo «atomi che pensiamo perdurino | e che invece si perdono nel vuoto».
Il discorso politico allora slitta nelle vite piccole, contigue alla nostra, quotidiane, routinarie: vite di «esseri umani che fendono la notte | fissi verso il loro futuro», sempre ritratti in quella soglia che è il mattino gelato, ancora in sosta tra sonno e veglia, vita e morte, a studiare allo specchio gli «avvisi del corpo | che ancora non conosce il suo destino», e non capire perché vede «il sangue colare giù dalle narici».
Allora, mentre passa in sottotraccia il ruolo di genitore dell’io, acquista risalto il rapporto con la madre, sempre ritratta nei momenti estremi e dunque collettore del senso della morte privata sullo sfondo di una morte universale. E tuttavia, nemmeno la vicinanza fisica permette un surplus di resistenza agli eventi: «non c’è difesa | […] e il tempo è davvero il buco che divora».
Restiamo soli di fronte alla morte e ai segni che in effetti cercavamo, come a confermare la concretezza di ciò che pensavamo/speravamo fosse un’illusione: da soli di fronte ai vestiti inservibili di chi è scomparso (una «pena lasciata come cibo»), ripensando una veglia annebbiata di analgesici, dicendosi «niente forza per scrivere», quando la vita è troppo più forte, troppo più significante dei segni.
E così continuare, in una riflessione perenne, a vuoto, che sembra tanto un’autodigestione, una macerazione in acido di carni ancora vive («se avessi avuto più tempo […] | le avrei detto cose semplici, quotidiane»). E allora fare il tentativo di un’estrema resistenza poiché «tutto imponeva di scacciarla | dettava le regole dei vivi» quell’ombra: serve «aspettare che ritorni l’amore per i vivi’, ‘bisogna uscire, | vivere per chi resta».
Resistere agli spettri del mondo che ci sfiora da lontano, per caso, ciecamente, e ai nostri, che non possiamo ignorare. Farlo sempre, anche se solitudine e distacco sembrano strutturali, costitutivi, anche se la nostra vita e quella di chi amiamo non è diversa da un «vuoto in marcia su due binari bui».
La sezione Occidente coi suoi tre testi chiude e postilla quest’ultima, come una ricapitolazione prima di procedere. Le prime due poesie riprendono infatti il tono socio-politico: da una buia immagine domestica («[…] la luce del forno | tra le pile dei piatti nell’ombra») si rovescia la serena immagine geografica che tutti ci portiamo dalla scuola elementare. «Il sangue stinge nell’Eufrate», la guerra dei nostri vicini, che per noi non esiste mai abbastanza, si riflette nel lungo testo eponimo in cui l’io guarda fuori dalla sua finestra osservando «le case contadine del Duemila», di lamiera e tettoie di plastica ingiallite, «cassoni d’immondizia», «donne spesso vecchie» che «cercano ferro in questa età dell’oro». Ma basta voltarsi e «dietro il condominio | si stende il nostro mondo occidentale» dove «l’acqua scende dai tubi, buona, | per bere, per scaldare».
La nostra storia è giunta al termine, è esaurita: in un testo finale che occhieggia all’esondazione dell’Arno del 1966 (ricordata anche da Montale nella sua poesia L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili) le nuove “historiae” raccontano il futuro mentre si srotola davanti a noi, prima ancora di esser scritto. È la fine del nostro mondo, della capacità di ricordarlo e di plasmarlo come essere senzienti, dotati di volontà, desiderio, prospettiva: «anche noi | fuggiamo nell’onda di una memoria della specie | […] mentre la casa si scompone e scompare».
ANIMALIA
Questa sezione propone un breve movimento poematico con la funzione di provocare un distacco rispetto ai discorsi precedenti. Già sappiamo come questo libro si fondi sul contrasto di altezze e di risoluzione, passando di continuo dal grandangolo al microscopio. Se la chiusura della sezione precedente scivolava ripidamente verso l’atmosfera privata di un lutto personale, qui si gira l’angolo e si scende ancora di più, mettendo a focus elementi del mondo animale che nella loro specificità ne esemplificano comunque la generalità.
Animali e umani sono legati dai concetti di dignità e pietà, gli stessi di cui gli uomini si servono per vivere in modo sano ed empatico: «tanta prossimità mi riguardava», dice l’io guardando cuocersi una gallinella, costituendo un paragone paritario per cui l’animale non è più anonimo alimento ma degno interlocutore. Anche nella breve sezione successiva il gatto è accomunato all’uomo, nelle stesse sensazioni di smarrimento e paura («In questa cucina invasa dal vapore | non ho un viso e tantomeno un nome. | […] Il gatto sale con me | e si ferma su un gradino. | Guardiamo in basso insieme | per contemplare il nostro purgatorio»).
Ancora, è pietà di un’ape cieca e intrappolata nelle mura domestiche a far dire all’io «stavolta ho spalancato i vetri, ho soffiato con forza | e si è posata un’ultima volta sulla terra bagnata». La pietà giusta che concede l’attenzione necessaria a colmare quel gap tra umani e animali (che non esiste: entrambi hanno «anime tremanti d’animali») che non si basa sulla superiorità biologica ma sulla difficoltà di comunicazione. Nati dalla stessa terra ma come alieni: con essi ci è naturale solo la prevaricazione, cioè la banalizzazione di un rapporto. Lo sa l’io quando guardava il suo pasto e dubitava che «bollire in un brodo la mia preda | […] facesse parte davvero della mia evoluzione».
DUAS LIMBAS
Gli ultimi otto testi sono racchiusi in due sezioni in cui il percorso di discesa è condotto alle estreme conseguenze. Si giunge infatti a uno stato di rarefazione estrema, contigua all’idea di vuoto. Poche particelle per metro cubo caratterizzano il vuoto siderale così come qui poche sono le sillabe nello struggimento per una lingua che manca. Si giunge infatti all’essenzialità primordiale del discorso: come dire? Come tradurre il pensiero? Un problema ancora più teso, ancora più doloroso in autori in sostanza bilingui come Anedda: «Madre lingua sei triste | […] Figlia lingua: scricchioli […] | e le nuvole, le nuvole fuggono | cancellando dai rami ogni genealogia».
Il sardo e l’italiano non si compongono («duas limbas, nulla est mia»: due lingue, nessuna è mia) e allora poco potrà dirsi. Restano in questi testi le tracce di una resistenza alla scomparsa quando si insiste sul ruolo biologico della morte («[…] il realismo glabro dell’anatomia | […] ritornare pietra, saperci senza cuore») che riapre uno squarcio sull’idea minerale della vita, prima della coscienza, dell’evoluzione, quando la chimica era molto più semplice di così, quando era solo un discorso di rocce e acqua («il sangue […] | si fa polvere | e può – sì – sciogliersi nel sale» si diceva nella prima metà del libro). Nel finale, non resta nulla alle parole che vengono direttamente interpellate con una sfilza di imperativi negativi: «dunque parole siate buone andate nel silenzio | abbasserò la voce fino in fondo».
Forse a nulla in questi tempi insensibili serve la parola che, se non danneggia è almeno inascoltata. Un altro discorso sembra schiudersi alla fine, portando la rarefazione al suo estremo: la nullità. «È duro il cammino verso ciò che è chiaro», quasi fosse la rivelazione di una dimensione altra, di un a parte rispetto al mondo, alla storia, all’uomo. Un luogo «che stinge soprattutto le iniziali» dove la lingua non occorre più e così il tuo io: se chiudi gli occhi sei già svanito.