La seconda metà del suo animale. Su “La coda del pavone” di Franco Buffoni

Pubblichiamo una nota critica di Stefano Bottero a "La coda del pavone", innesto inedito di Franco Buffoni per la nuova edizione di "Poesie. 1975-2025" (Mondadori, 2025).

Tredici anni dopo il volume Poesie 1975-2012, ormai indisponibile, Mondadori pubblica una seconda edizione antologica della poesia di Franco Buffoni. Il volume è nuovamente aperto da uno scavo critico di Massimo Gezzi – che già nell’edizione del ’12 ricostruiva, segmento per segmento, il tragitto della sua opera. Quest’ultima è adesso ampliata da un corpo ulteriore: La coda del pavone.

L’azione di innesto inedito nel volume complessivo riporta inevitabilmente la memoria a La materia prima di Biancamaria Frabotta, apparsa nel solo Oscar Mondadori del 2018 e, poi, mai in volume proprio. Per Frabotta, come per Buffoni, questa operazione di aggiunta cadeva sotto il cono di luce del raggiungimento di una profonda organicità stilistica. Una conferma del cammino estetico, proprio nella sede in cui il corpo espanso della voce poetica si mostra più empiricamente (editorialmente) coeso.
Come per l’antecedente della poeta, Buffoni inserisce quindi in chiusura delle Poesie 1975-2025 un segmento che non sconvolge l’ordine prospettico già inaugurato dal precedente Betelgeuse e altre poesie scientifiche (Mondadori, 2021) – come rileva Gezzi.

Sin dal titolo, il libro inedito che chiude questo Specchio conferma che Buffoni negli ultimi anni ha aperto un nuovo ciclo che potremmo definire scientifico: «se […] in Betelgeuse mi sono annullato nell’infinitamente piccolo e nell’incommensurabilmente espanso», leggiamo nella nota finale, «qui […] mi sono concentrato sul mondo animale in prospettiva ‘cyborg’».
Un legame evidente – che tuttavia poggia su una virata sottocutanea significativa.
L’interesse per l’etologia, conquistato nel tempo, era già emerso in varie zone dell’opera di Buffoni […] Eppure, nella Coda del pavone gli animali sono anche e soprattutto vittime della crudeltà umana: che siano trote dalle fauci squarciate lasciate a boccheggiare nel retino da pesca, uccellini accecati da un mercante perché cantino più forte, la cagnetta Laika «Nata nel 54 e sparata in cielo viva dai sovietici nel 57», o ancora castori in fuga dall’essere umano «Pronto a infilargli un elettrodo nel culo / Per non sciupargli la pelliccia», i crimini verso gli animali compongono un elenco raccapricciante che getta una luce sinistra sulla «bestia d’uomo», ovvero sui sapiens sapiens.

Il dolore non è astratto da una parallasse morale. I fenomeni che screziano e massacrano gli orizzonti di vita animale e vegetale non sono ricordati (tradotti in verso) come parte di una casistica astratta, ma di un discorso civile. Non che Buffoni cerchi di attribuire loro un significato, o che li collochi nella traiettoria di un martirio – tendente alla trascendenza: essi non hanno alcun ‘Senso’.
Così come il topo kafkiano, divorato dal gatto nel pieno dell’elucubrazione isterica, il poeta presenta un baratro de-significato. Ne descrive i movimenti, le evoluzioni, lo contestualizza sul piano geografico, matematico, politico – storico perfino. Si pone, la voce di Buffoni, come camera d’eco: tiresiaco osservatore (cieco) dell’accadere fenomenico, il poeta è ai margini di un flusso materiale. Soprattutto, indugia sui corpi.

In basso sta la bestia terrorizzata,
Destinata a far girare la ruota,
In alto il principe di Biancaneve
Che mentre vola sul suo cavallo bianco
Non si accorge di affondare gli speroni.
Rossa di sangue infine giunge a meta
La seconda metà del suo animale.

Le figure antropologiche, culturalizzate da una tradizione occidentale specista e sessista, sono contestualizzate in una rete estesa alle relazioni con ciò che non è umano. La «bestia» della figurazione dantesca (Inf. VI) non latra ma trema. Il principe non salva ma uccide – animale anch’egli, per quanto inconsapevole. Il raggiungimento di Buffoni (siamo sulla Coda, d’altronde) è quindi privo di consolazione: la sostanza non reca alcun riscatto dalla sofferenza. In questo, ancora, colpisce il parallelo con Frabotta – che passava, nella raccolta aggiunta al proprio volume collettivo, da una mortalità portata da «mani» a una tragedia iscritta nelle molecole stesse dell’esistente. Leggiamo in Buffoni:

Chissà, se ridevano, come ridevano
E quando impararono a ridere,
Se lo chiedeva Bataille in Lascaux
Associando con certezza riso e arte.
In seguito fu Villa a dichiarare
Che l’esperienza assoluta
Del primo vivente è l’assassinio:
Uccidere come ferire
Entrare penetrare estrarre sviscerare espellere.

In principio non il riso – ma la morte: l’omicidio cainico, traslato come categoria antropologica. Per estensione, afferma implicitamente Buffoni, Abele non è quindi diverso da un alce irlandese estinto – da una «bestia» spezzata. I processi di morte sono iscritti nell’«esperienza assoluta», quella a cui Cioran dedicava un passaggio di straordinaria profondità in Al culmine della disperazione, nei termini di «lirismo assoluto»: momento in cui «l’espressione si confonde con la realtà, è tutto, diventa un’ipostasi dell’essere». Totalità incarnata nel gesto – tanto di morte, quanto di scrittura poetica, assoluto e privato insieme. È d’altronde proprio Bataille a ricordare che c’è un abisso tra un dato oggettivo che ci raffigura la necessità della morte connessa con la sovrabbondanza e il vertiginoso turbamento introdotto nell’uomo dalla conoscenza interiore della morte. Tale turbamento, legato alla pletora dell’attività sessuale, determina un profondo smarrimento.
L’assoluto della morte fenomenica (la particolarità della sua declinazione crudele, eteromaschile) si incarna nell’opera attraverso il canale del corpo. Soggettivo, biograficamente individuato: Buffoni basa la sua composizione sulla specificità di un vissuto. Nella raccolta si alternano così frammenti diaristici, riflessioni critiche, riferimenti alla storia e alle morti personali.

Le divinità indù
Volte a Kamadhenu
La vacca che realizza i desideri.
Come quella di Keats
Nell’ode sopra un’urna greca.
Me la chiese Raboni nell’ottanta
Mentre Jucci stava morendo:
Chi sono questi che vanno al sacrificio?

L’accordo stilistico abolisce la gerarchia tra l’universale e il particolare. Il processo di osservazione (con Gezzi, scientifica) focalizza orizzonti allargati e minimi: crea un contesto in cui l’incidenza emotiva è depotenziata su entrambi i fronti. La tragedia implicita all’esistenza fenomenica non è per il poeta motivo di sconvolgimento. E tuttavia, in linea con il suo cammino poetico, questo aspetto non spegne una silenziosa (assordante) condanna delle cause: delle azioni che stanno dietro la tragedia stessa. Lo sguardo del poeta è per Buffoni un atto di memoria – la stessa che nel precedente Betelgeuse accomunava il minerale della «crioconite» ai «polmoni degli ex fumatori» (ancora, nel sinolo, la materia e la persona).

Oltre che come motivo di organicità stilistica, che attraversa con forza evidente l’arco 1975-2025, questo aspetto pone Buffoni in linea con la tradizione (critica e intellettuale) della letteratura queer italiana – che proprio negli anni del suo esordio muoveva i primi significativi passi. Pensiamo in questo senso all’opera poetica di Dario Bellezza o all’azione politica del F. U. O. R. I. (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), tra i tanti esempi possibili per collocare l’origine di una spinta prospettiva mai disattesa, dal poeta, negli ultimi cinquant’anni. Alla luce di questo cammino, e della progressiva conquista di immediatezza dichiarativa rispetto alle istanze dell’attivismo omosessuale degli anni Settanta, La coda del pavone appare come parte di un tracciato focale unico.
Non stupisce, per questo, come nella raccolta l’autore guardi tanto ai cambiamenti sociali del suo tempo, quanto alle ripetizioni infinite dei cicli animali e vegetali, come alla conferma di un unico principio di decostruzione.

E oggi che mi trovo a ragionare
Di machine learning e reti neurali
Provo adulte fitte di rimpianto
Per le certezze di mio padre:
Ciò che nell’uomo
Dell’animale è il segno
È la sua natura mortale.
Ciò che lo trascende è la parola.

A fronte della caducità ineliminabilmente (con Bataille) connaturata all’essere-in-vita, della ritrosia epocale della fiducia nel sacro, la parola poetica resta il solo punto di trascendenza possibile. Il declinare delle certezze (le stesse dell’omofobia e dell’oppressione delle minoranze sociali) è osservato da Buffoni come parte di una controprova naturale – ancora: quella della morte imperante. Già in Quaranta a quindici (1987) scriveva:

Schiavi da battere e impiccare
Terapie di confessioni
E varie opere minori della morte.
Il Signore aveva il volto medico
Il volto di mio padre.

Paradossalmente è proprio per questo che La coda del pavone, nelle parole di Gezzi, «si rifiuta di configurarsi come un approdo definitivo e come una tesi unilaterale». Il principio della poesia come argine trascendente della morte biologica ha infatti in sé un punto di auto-negazione – un cavallo di Troia che Buffoni inserisce nel suo stesso libro. Ogni cosa è materia, e nella materia è il crollo: la parola poetica non ne è esente.

Laddove anche le vie d’uscita offerte dalla mineralizzazione primonovecentesca sono ormai negate dalla corrosione antropologica (la «crioconite» permane radioattiva), e laddove quindi anche i tentativi di rendersi cosa tra le cose non sono più praticabili, cosa resta da fare? A fronte di questa domanda, sembra che nella raccolta Buffoni metta il lettore davanti a un bivio: da un lato il ritrarsi in un silenzio vegetale, transumano – spegnere la voce e la prospettiva; dall’altro, la rinascita di una tenerezza bambina. Davanti al bivio, il poeta lo lascia. Dichiara in chiusura che la «mise en abyme di questo libro» non è altro che una cognizione gaddiana: dopo il trauma «il vecchio corpo rimane com’era».

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De Pisis, Fireze, Dante, Franco Buffoni, MediumPoesia

Franco Buffoni | Dante e i suoi maestri (da “Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney” – 2020, Vydia editore)

In questo articolo Franco Buffoni ci parla del rapporto di Dante con i suoi “maestri”, Brunetto Latini e Virgilio, soffermandosi sul canto XV dell’Inferno e sulla sodomia, provando a rovesciare alcuni aspetti dati spesso per scontati. Il contenuto che qui leggerete apre la raccolta di saggi brevi “Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney” (2020, Vydia editore), strutturato nelle 3 sezioni: Sulle spalle dei giganti, Il Novecento, Tra due secoli.

Come esplicita l’autore stesso nella premessa, in questo volume non troveremo approfondimenti sugli autori di cui Buffoni si è occupato maggiormente durante la carriera accademica e saggistica, ovvero gli scozzesi del Sei-Settecento Ramsay e Fergusson, gli inglesi romantici Byron e Shelley e altri autori a lui cari come Wilde a Auden. Come fa intuire il sottotitolo, Buffoni si è mosso incrociando due tradizioni principali, quella letteraria inglese e quella italiana, lungo un periodo che si estende dagli esordi delle letterature europee fino al contemporaneo. (F. Ottonello)

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