Lo stato di salute della poesia contemporanea è ciclicamente oggetto di accese discussioni il cui spirito di fondo pare essere quello della rassegnazione ad una teorizzata marginalità: il risultato? Nessuna prospettiva.
Basta però volgere lo sguardo un poco più in là per trovare, se non la soluzione, almeno una costruttiva prospettiva. Ed è all’altra sponda dell’Atlantico che ho volto lo sguardo per capire se quanto percepito e teorizzato da questa sponda sia l’analisi autoptica di un processo irreversibile o solo una condizione di questo luogo e di questa società.
La presenza della poesia alla cerimonia di insediamento dell’amministrazione Biden un anno fa ha sollevato nel nostro paese, soprattutto tra i poeti, un’accesa discussione: dall’analisi critica del testo al ruolo della Gorman nella cerimonia, passando per critiche e notazioni che spesso manifestavano un pesante giudizio nei confronti della poeta e della situazione in sé piuttosto che una conoscenza della poesia americana, con le sue dinamiche e i suoi riti, ignorandone soprattutto il ruolo comunicativo e simbolico.
Questo non per difendere in alcun modo quanto accaduto, messo in luce da critiche anche giuste, ma spesso non nel merito, con l’eccezione dell’intervento di Jessy Simonini.
La realtà poetica di una nazione è un giocattolo estremamente complesso: difficile pensare di poter dire di conoscerla bene.
Anni fa, interessato a comprendere dinamiche e tendenze dietro ad una scena poetica apparentemente informe e schizoide, chiesi ad un amico poeta di New Orleans di consigliarmi come approfondire “criticamente” la contemporaneità poetica nordamericana. Shane Manieri mi diede la risposta migliore che potessi ricevere consigliandomi di leggere gli editoriali di apertura delle varie edizioni di Best American Poetry.
Best American Poetry è un’antologia ad uscita annuale e raccoglie circa un centinaio di testi selezionati tra quelli usciti nei migliori giornali e nelle migliori riviste di letteratura del paese come anche in giornali locali o in testate meno rilevanti. È un lavoro mastodontico che David Lehman, editor della collana, ogni anno a partire dal 1988, assegna a un guest editor, responsabile della selezione così come dell’editoriale di apertura. Per l’edizione del 2018 fu scelto Dana Gioia.
Dana Gioia, classe 1950, è un poeta con un curriculum molto particolare: la sua formazione va dal più tipico Bachelor of Arts al meno comune, almeno nel mondo della poesia, Master in Business Administration. A questo curriculum studii ha fatto seguito prima una carriera nell’impresa privata e da ultimo il segretariato della National Endowments for the Arts, un’agenzia indipendente del governo federale che offre supporto, anche economico, a progetti di eccellenza nel campo delle arti. Ed è grazie a questo suo ultimo incarico che Gioia ha potuto studiare e analizzare la situazione della poesia negli Stati Uniti anche da un punto di vista che non fosse quello solo della critica letteraria.
La NSE, ogni cinque anni, redige un’indagine per avere informazioni su quello che è il pubblico della poesia. I dati del 2012 mostrano come il pubblico della poesia fosse crollato, da un 20%, della popolazione adulta nel 1982, a un 7%. C’è però un dato che sembrava andare controcorrente ovvero che il più giovane segmento della popolazione (quello tra i 18 e i 24 anni) dimostrasse un maggiore interesse verso la poesia di qualunque altro segmento anagrafico analizzato. Il report successivo del 2017 ha portato ulteriori sorprese, ovvero ha dimostrato come il numero di lettori fosse, dal 2012, praticamente duplicato arrivando al 12%. Di seguito a questi dati sono state fatte ulteriori indagini qualitative sulle modalità di diffusione e di fruizione della poesia, mettendo in evidenza come il modo principale con il quale i poeti americani ora raggiungono il proprio pubblico sia attraverso reading: siano essi in presenza di un pubblico o trasmessi dai media.
La più logica e più evidente conclusione è che i nuovi luoghi della poesia, come ad esempio YouTube, non hanno affatto rimpiazzato la poesia stampata ma hanno semplicemente amplificato l’offerta. L’interesse e il nuovo entusiasmo verso la poesia creato da questi nuovi mezzi ha infatti contribuito ad aumentare anche il pubblico per la “poesia stampata”. Questa tendenza ha cambiato la “cultura” della poesia soprattutto per gli scrittori giovani o emergenti.
L’analisi procede sottolineando come la poesia performativa così come la Spoken Poetry non rimpiazzino affatto l’opera scritta, così che le nuove forme coesistono come approcci alternativi alla stessa arte: una focalizzata sulla “pagina”, l’altra sul “palco”. E non solo, le diverse forme si influenzano le une con le altre a tal punto che oggi è impossibile leggere poesie senza notare quanto il suono, il ritmo e la musicalità del testo siano diventate importanti. I giovani poeti del resto sono cresciuti ascoltando il ritmo, i versi e i giochi di parole dell’hip-hop e leggono i propri componimenti ad alta voce di fronte a un pubblico: l’intera loro esperienza poetica è legata alla dimensione scenica e performativa.
Non ci si deve quindi stupire di quanto le nuove forme di poesia orale influenzino profondamente la poesia tutta, perché come è sempre successo, la lingua parlata rivitalizza la parola scritta: è successo lo stesso a Langston Hughes con l’utilizzo dei suoni dell’Harlem Speech e del blues ed era successo – Gioia si lancia in questo parallelo – a Dante Alighieri quando rinunciò al prestigio del latino per la lingua italiana volgare.
Il saggio procede prendendo in considerazione il ruolo della poesia nella cultura americana e di come sia fondamentalmente paradossale. La poesia infatti sta emergendo velocemente come elemento presente nelle sceneggiature televisive nello stesso momento in cui i media tradizionali “tagliano” sulle riviste di poesia e il sistema educativo ha cominciato a dare sempre meno spazio alla poesia nel curriculum letterario. Quanto la cultura di élite ha diminuito il proprio interesse per la poesia tanto la cultura popolare sembra averlo abbracciato.
Ma il paradosso più complicato secondo l’autore di tutti è il ruolo dell’Accademia nella poesia americana. Per decenni l’espansione dei programmi accademici di scrittura ha infatti fornito un rifugio per i poeti, prima come studenti in seguito come insegnanti, dando a migliaia di essi un lavoro sicuro e ben pagato: qualcosa senza precedenti nella storia della letteratura occidentale, praticamente una versione americana del sistema imperiale mandarino. E se trent’anni fa il tipico giovane poeta insegnava all’università o nelle scuole superiori, ora la nuova generazione solitamente vive nelle grandi città (le piccole città sono spesso negli Stati Uniti, sede di prestigiose realtà accademiche) e lavora come barista, cameriere, libraio così come nei campi della medicina, della finanza e delle professioni in generale.
Tutto questo ha portato a uno stravolgimento della scena poetica: i nuovi poeti, lontani da pretese accademiche, non si devono più preoccupare della peer review e delle mode che ne influenzano lo stile per essere accettati dalla critica, anch’essa di espressione accademica.
Ora le nuove comunità includono quella parte della popolazione che difficilmente avrebbe preso parte alla vita letteraria delle università e delle scuole più prestigiose perché tenuta lontana dalla povertà, dai limiti dell’educazione, dalla lingua e della razza. Questi nuovi gruppi hanno portato nuove prospettive ed energia alla vita letteraria. Autori e pubblico appartenenti alle minoranze spesso condividono l’idea dell’importanza della letteratura e dell’alfabetizzazione attiva nel supportare l’identità, la crescita e la sopravvivenza stessa delle loro comunità: quando creare la propria letteratura diventa una questione di vita o di morte, può emergere una poesia molto diversa da quella comunemente trovata in un dipartimento di lettere.
L’effetto più evidente di questo stravolgimento sociale nel campo della creatività poetica è che non esiste più una forma di mainstream, ma solo più alternative. La miglior metafora non è quindi la morte, ma la nascita: la scena poetica americana contemporanea non è un cimitero, ma un affollato e rumoroso reparto di maternità. Gioia conclude dicendo che non c’è bisogno di spaventarsi, che la poesia non è in pericolo o almeno non più di quanto non lo sia sempre stata. Che nuove forme di poesia non cancellano, eliminano o sostituiscono le forme più classiche ma le influenzano, modificando la cultura che non è una realtà binaria ma dialettica. La poesia ha oramai tante categorie e tipologie di ascolto, tante quanto la musica popolare: ciò che va ad Harvard non porterà sulla pista da ballo alcuno a East Los Angeles… e va bene così. Tutti gli stili sono possibili tutti gli approcci aperti e sono tutti invitati: perché nella Storia non ci sono forse mai stati così tante razze, culture e stili di vita che coesistono, che configgono e che spesso si mescolano, come nell’America di oggi. Ed è per questo che possiamo dire che la poesia americana ha definitivamente raggiunto la sua fase Cole Porter: Anything goes (tutto è permesso). Metrica e verso libero non si escludono a vicenda e a prevalere è una positiva salute mentale grazie alla quale i poeti sembrano poter creare nel modo più libero nel quale l’ispirazione li possa guidare.
È una descrizione profonda e dettagliata quella fatta da Dana Gioia, un quadro che analizza la realtà poetica americana a tutto tondo, senza giudizio alcuno se non la presa di coscienza di un processo evolutivo complesso che non riguarda solamente la pratica della scrittura poetica, ma che coinvolge aspetti della vita culturale di un paese così come le sue dinamiche sociali. Gli spunti su cui ragionare sono numerosi ed in questa stessa rubrica, che comunque resterà principalmente dedicata al lavoro di traduzione, potremo affrontarli uno dopo l’altro così da poter dare prospettiva a quesiti che sono rimasti non solo senza risposta, ma spesso neppure mai realmente formulati nelle sedi appropriate.
Il canto interrotto di Gertrud Kolmar
Totalmente ignorata in vita e molto tardivamente apprezzata dopo la morte ad Auschwitz nel 1943, la poetessa e scrittrice Gertrud Kolmar di cui l’anno scorso si è celebrato il 125esimo anniversario della nascita a Berlino nel 1894, è considerata oggi una delle poetesse tedesche di origine ebraica di maggiore importanza del secolo scorso. Il critico Patrick Bridgewater nella sua antologia “Twentieth-Century German Verse” la definisce “uno dei grandi poeti del suo tempo, e forse la più grande poetessa che abbia mai scritto in tedesco”. Poco si sa della sua vita e nulla sulla sua morte, ma il suo canto così crudelmente spezzato, ci incanta oggi non solo per l’altissimo livello poetico ma anche per il coraggio di parlare apertamente in un periodo in cui molti poeti ed intellettuali si erano defilati davanti alla repressione culturale nazista.