Non conosco un altro libro di poesie, scritto negli ultimi vent’anni, capace, come Perché ancora / Pourquoi encore (2005), di presentificare la ferita storica inferta dal nazifascismo.
Scritta in vista del sessantesimo anniversario della Liberazione, la raccolta di Luciano Cecchinel compie quell’atto straordinario della nominazione. Se, come evidenziava Freud ne L’interpretazione dei sogni, pronunciare il nome del dormiente lo riporta allo stato cosciente, pronunciare il nome delle vittime della Storia, ha una duplice funzione: da un lato salva quelle singole vite dall’oblio, dall’altro desta le nostre coscienze, ci pone di fronte alle tragedie permettendoci di specchiarci in chi aveva un nome, come noi. È quello che manca alle tragedie contemporanee, che percepiamo attraverso le montagne numeriche dei morti, troppo alte perché si possa davvero scalare il significato di quelle cifre. Di questa alienazione, oggi rappresentata dalle fredde addizioni dei mass media, parlava anche Wislawa Szymborska che, in Campo di fame presso Jaslo (nella raccolta Sale del 1962) scrive: «non gli fu dato da mangiare, / morirono tutti di fame. Tutti? Quanti? […] Scrivi: non lo so» / La storia arrotonda gli scheletri allo zero. / Mille e uno fa sempre mille, / Quell’uno è come se non fosse mai esistito…».
I morti rimangono invisibili nella cripticità dei numeri che riflettono solo se stessi. Non si è erosa la realtà, forse aveva ragione Susan Sontag, si è eroso il suo senso. Ed è proprio questo che tenta di recuperare Cecchinel, affiancando al corpus testuale un apparato di note che svela dettagli e nomi dei soggetti di cui mette in versi le storie o, meglio, i momenti finali delle loro vite, le storture disumane subite. Il libro che tengo tra le mani, mentre scrivo questa breve nota – che vuole essere un semplice invito alla lettura – mi appare come una sindone, tanto sono visibili i segni dell’abominio. Penso, tra le molte poesie, a Speranze, dedicata al medico emiliano Mario Pasi, commissario della Brigata Mazzini, il quale: «Orribilmente massacrato, non cedette e fu portato all’impiccagione steso su una scala a pioli perché le ginocchia trapassate coi ferri di tortura non gli consentivano di camminare.» (p. 149)
Ogni testo di questo libro è un lenzuolo insanguinato, un grido inchiostrato nella pagina e il titolo, come osserva Martin Rueff nella prefazione della raccolta, non è una domanda, ma un’esigenza, «evoca l’emergenza e il problema» (p. 7).
Giulio Medaglini
Intervista all’autore
GM– Ciao Luciano, apprendendo, in questi giorni, del monologo di Antonio Scurati per il 25 aprile censurato dalla Rai, ho pensato al tuo libro e a una frase di Mandelstam riportata nella prefazione della raccolta da Martin Rueff: «Va bene, d’accordo: ma tutto questo appartiene a ieri. Ma io dico che questo ieri non è ancora venuto».
Come stai vivendo questo tempo? Credi che la nostra democrazia sia in pericolo?
LC- Malamente. Quasi non capacitandomi della tragicomica realtà di questi giorni, pencolo davanti alla televisione per ascoltare vari dibattiti politici, certo con un masochistico senso dell’orrido. Nel contempo mi si accresce dentro un senso di diffidenza e fastidio nell’affrontare le situazioni comunitarie, pensando a quanti alle ultime elezioni politiche hanno votato in un certo modo. Questo sentire mi era già presente nell’era berlusconiana ma adesso mi si è drasticamente acuito. Risultato: una paura della “gente”, termine volutamente usato nell’accezione di entità anonima, e quindi, con un disagio a comparire in pubblico, la tendenza a rinchiudermi in me stesso. Ma parteciperò certo a qualche cerimonia del 25 Aprile, che, dati i tempi, assicurerà di per sé una decisa selezione.
GM- Gramsci in Odio gli indifferenti scriveva: «chi vive veramente non può non essere cittadino e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti».
Se penso al tuo libro, penso anche a questa frase.
Qual è stata la motivazione che ti ha portato a scriverlo?
LC- È stato, oltre che per rispondere a molte critiche indirizzate alla Resistenza, per commemorare molti caduti che erano un po’ dei morti di famiglia: erano stati compagni di lotta di mio padre e alcuni di loro quasi dei figli per mia nonna paterna che, vedova della prima guerra mondiale, era stata nei loro perigliosi movimenti loro protettrice. In loro memoria avevo partecipato fin da piccolo a numerose commemorazioni e non è stato certo impunemente che mi sono misurato con lo strazio dei loro genitori. Come purtroppo ben sappiamo, la memoria dei partigiani che hanno restituito onore all’Italia – come fa dire Fenoglio al partigiano Johnny di fronte all’obiezione che non sarebbero stati loro a poter vincere da soli la battaglia – è sempre stata ripresa, al di là di certa nociva agiografia di parte, prevalentemente in sordina, almeno rispetto ai fasti nazionalistici con cui veniva celebrata la grande guerra; e sempre più spesso, in tempi di montante revisionismo con punte oggi scopertamente revanchistiche, e, sulla scia purtroppo di forse inevitabili nefasti episodi, anche sofisticamente quanto iniquamente, vilipesa.
Certo parlare di tutto ciò dà una profonda e quasi irredimibile amarezza e fa riflettere con un senso di impotenza, anche in ordine ai limiti dimostrati tragicamente nel secolo trascorso da tutte le colonizzazioni politico-culturali, su quel pericolo che è la stessa natura umana.
Testi da Perché ancora / Pourquoi encore
Speranze
A Mario Pasi (Montagna),
medico, lungamente torturato
e poi impiccato dai tedeschi.
Guardare oggi, così lontano,
entro i tuoi occhi
di adolescente – come scrutare
in un destino – una speranza
sconfinata.
Si sarebbe fatta
per dottori di strazio e terrore
l’invocazione ai compagni del veleno
per non dover di male ammattire,
parlare invece che urlare.
Per le ginocchia forate
ci fu una scala di legno
per portarti massacrato al tuo castagno
come per operazione necessaria,
disperata.
Confessioni
A Giovanni Morandin (Barba)
suicidatosi in combattimento dopo aver esaurito le munizioni.
Vivide braci nella cenere
ogni mattina quegli occhi fissavano:
era lui che senza scampo in sfracello
di bomba soccorrevole
da sé era voluto andarsene
per non rischiare ancora
il suo essere uomo,
fra lampi di lame, alcol e sale.
La sera con chiostre serrate
e bave nere
quegli occhi
avrebbero aspettato
in sfinito tremore,
braci braccate dalla cenere
dietro la grata di un confessionale
irremovibile.
Per questi sentieri
Per questi sentieri
le voci di coloro che videro
il male così nero
che sentirono il bisogno
di essere migliori.
Voci di coloro
che non lottarono per la morte
ma per la libertà:
ridicono il senso, separano
il fuoco, il sangue.
Voci che insieme
si levano
incontenibili come luce
per un altro splendore
di quell’aprile.
Nota bibliografica
Luciano Cecchinel, Perché ancora / Pourquoi encore, traduzione di M. Rueff, note di Claude
Mouchard e Martin Rueff , Istituto per la Storia della Resistenza, Vittorio Veneto, 2005.
Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino, 2004.