Ivan Schiavone | Una collana di poesia contemporanea, tutto il resto è letteratura

Presentiamo l’intervista di Davide Paone a Ivan Schiavone, poeta e curatore della collana Croma k per l’editore Oèdipus. La collana inizia la sua pubblicazione nel 2016. A oggi conta undici pubblicazioni.

DP: Perché hai sentito l’esigenza di uno strumento come la collana per concretizzare il lavoro che stai portando avanti, e non invece una rivista, o un qualsiasi altro spazio in cui far convergere una certa idea di poesia?

IS: partirei da lontano, da quando cioè appena laureato e poeta alle primissime armi, mi guardavo intorno alla ricerca di un luogo editoriale le cui pubblicazioni permettessero d’individuare la fisionomia della vera contemporanea poesia, esclusi in partenza i grandi marchi editoriali che oggi come allora paiono incapaci di dar conto dell’attualità in poesia, ricordo l’entusiasmo suscitato dai cataloghi di Zona e di Manni, la collana di Baino  per Oèdipus i megamicri, la splendida fuori formato di Cortellessa per Le Lettere e ancora i volumi del premio Delfini, l’imprescindibile Parola plurale. In quel clima assai vivace cercavo uno spazio per la mia poesia e per quella che sentivo a me più prossima e, mentre le mie prime prove trovavano accoglienza nella collana supernova diretta da Aldo Mastropasqua e presso l’editore Oèdipus, con la poetessa Sara Davidovics decidemmo di fondare una collana presso un piccolissimo editore romano; parlammo della cosa con Nanni Balestrini che, con l’ardore che lo ha accompagnato per tutta una vita e il sostegno entusiasta che sempre ha contraddistinto il suo rapporto con i giovani, non solo ci incoraggiò ma decise anche di  aprire la nostra collana con una ristampa dei suoi testi giovanili, allora introvabili, ne venne fuori Lo sventramento della storia e nacque ex[t]ratione. Dal lavoro con Sara intorno ai testi da pubblicare, le letture critiche condivise, le proposte rifiutate, le perplessità su un autore, mie o sue, ne nacque una palestra teorico-stilistica che fu alla base di profondi cambiamenti nella mia riflessione e pratica estetica, un fare esaltato e contrappuntato dalla pubblicazione di alcuni autori che sentivo e sento prossimi, penso ad Adriano Padua e alla raffinatissima sensibilità compositiva che permea La presenza del vedere, ad  Alessandra Carnaroli e alla forza urticante del suo Femminimondo, una poesia che finalmente aveva la forza della fame, alla Florinda Fusco di Thérèse, al suo perturbamento entropico e familiare. Terminata quell’esperienza rimase viva la necessità di una quotidianità con il testo altrui, la necessità di ragionare sul fatto poetico non tramite gli strumenti critico-teorici ma interrogandone la fisicità in divenire, osservandone minuziosamente la materia e la struttura che la informa sia tramite l’analisi del testo sia tramite un fitto scambio con l’autore, da qui l’esigenza di questa nuova collana.

DP: – Qual è l’importanza del lavoro formale e quale quella delle scelte tematiche per quanto riguarda la collana Croma k? E nella poesia contemporanea?

IS: sebbene sembri circolare una certa aria di famiglia nelle tematiche affrontate nei volumi pubblicati posso affermare con assoluta tranquillità che in nessun caso un criterio tematico sia alla base delle scelte operate; ricondurrei piuttosto quest’aria di famiglia a quell’immaginario collettivo che di sé permea ogni determinato periodo, immaginario che più facilmente possiamo cogliere affrontando epoche letterarie passate ma che si intravede in divenire anche nella produzione estetica contemporanea, non solo poetica. Imprescindibile è invece quell’altero rigore che mira alla costruzione di un testo come opera di alta ingegneria formale, progettandola a partire dai suoi specifici linguistici, retorici, metrico-sintattici e strutturali e richiedendo quindi al lettore uno sforzo di interpretazione lungo tutte le direttive dell’atto linguistico, un prodotto complesso, significante aldilà, a volte addirittura contro, il significato manifesto più direttamente accessibile; come si può facilmente intendere ancora una volta un modo di formare come impegno sulla realtà. Una visione abbastanza aliena al processo di semplificazione in atto nella poesia contemporanea, imputabile tanto ai nipotini di Giuliani che a quelli di Sereni, allineati  sull’idea di una poesia arresa alle proprie asserzioni, o non asserzioni che è lo stesso, sospesa tra il popolare e il riciclaggio di un eterno novecento – in veste avanguardistica o crepuscolare poco importa –  soddisfacente, appena, per l’accademia e le anime belle.

DP: A partire da queste due risposte si potrebbero spalancare svariate porte, ma facciamo un passo alla volta. Mi interessa molto come hai parlato della tua esperienza editoriale come una palestra teorico stilistica e poco dopo hai chiamato in causa la necessaria fisicità della poesia. C’è un “materialismo poetico” dietro il progetto editoriale di Croma k?

IS: no, non parlerei di materialismo, tantomeno poetico, quanto, piuttosto, di un fare orientato da quei due cardini del pensiero anceschiano che sono fenomenologia critica e istituzione.

DP: Hai chiamato in causa i due cardini del pensiero anceschiano (fenomenologia critica e istituzione), sotto la cui egida sono nati i Novissimi e poi tutta la neoavanguardia: c’è in Croma k la volontà di recuperare e continuare uno sperimentalismo poetico storicamente connotato come quello degli anni ‘60?

IS: no, nessuna volontà di revival quale che sia. L’epigonismo della neoavanguardia in specie mi pare stia dando pessime prove di sé, ferma restando l’importanza di quel periodo storico e l’altezza delle opere prodotte dai suoi esponenti – intendendo neoavanguardia in senso ampio e comprendendovi ad esempio le opere di Villa, Cacciatore, etc. – non vedo molte possibilità di proseguire, prossimi gli anni venti del XXI° secolo, con modalità e immaginari propri alla società italiana del secondo novecento.

DP: Potresti approfondire il concetto di immaginario collettivo? Da un certo punto di vista sembra che tale immaginario costituisca il terreno d’incontro di autori e lavori che stanno confluendo nella collana, da un altro la linfa vitale da cui attinge quella poesia arresa al suo contenuto che vuoi tenere a debita distanza.

IS: preferirei non approfondire sul piano teorico il concetto di immaginario collettivo che in un secolo e più di riflessione ha dato vita ad interpretazioni contrastanti e per il quale mi par lungi la possibilità di arrivare ad una definizione univoca e pacificata. Sul piano operativo e riferito limitatamente a ciò che ci riguarda – un certo fare poetico nell’Italia contemporanea –  si può però riscontrare la presenza di una serie di invarianti o, al minimo, di una serie di modalità ricorrenti che informano le pratiche poetiche; modalità che mi paiono discendere da quella crisi di un’identità condivisa, da quella fine della coesione sociale scaturita dal conflitto in atto nei paesi occidentali tra élite, classe media e proletariato, da quella assenza di progettazione del futuro in cui ci troviamo a vivere a partire dal collasso delle ideologie novecentesche e di quell’agire collettivo organizzato che ha permesso l’ottenimento di tutta una serie di diritti lungo l’arco degli ultimi due secoli. Questa fine delle “grandi narrazioni”, e delle grandi pratiche conseguenti, se in luoghi come l’America, l’Europa di fine secolo scorso o, in parte, la Cina contemporanea è potuto sfociare in un postmodernismo la cui spinta propulsiva è data dalle fortune dell’impero, in paesi in plateale recessione come l’Italia contemporanea si è per lo più incardinata in poetiche ripiegate sulla mimesi della realtà più immediata, sociale o biografico-familiare poco importa, attuate o tramite procedure incentrate su prelievi, più o meno scaltri, dalla realtà linguistica che ci circonda o tramite una descrittività lirico-prosaica risolta in una sorta di esistenzialismo feriale. Vi è altresì accanto a questo tipo di poetiche, che trovo perlopiù noiose e spesso trasandate, tutta una serie di ricerche desumibili da quel concetto di figurale elaborato da Deleuze in Francis Bacon. Logica della sensazione, nelle quali si assiste alla creazione di un vero e proprio  paesaggio figurale retto da un’allegoresi molteplice sfociante in una fuga delle interpretazioni che impone al lettore un lavoro ermeneutico non esauribile, mancando appunto quel retroterra condiviso che permetterebbe una più piana interpretazione delle figure in campo, opere che si risolvono in instabilità e precipitato semantico (penso ad esempio al Canto del rivolgimento di Federico Scaramuccia per il quale, in origine, utilizzai tale concetto). Ulteriore invariante nelle poetiche in atto è una complessa modalità di relazione con la tradizione, vissuta non come univoca identità locale ma come sommatoria di molteplici pratiche e culture conviventi simultaneamente, un’esplosione di immaginari e forme disponibili ad un riutilizzo teso all’edificazione di orizzonti di senso comune, se non orizzontali quantomeno verticali.

DP: Tralasciamo, dunque, il piano teorico. Si tratta di un’operazione fortemente politica. Sul piano operativo le opere della collana Croma k investono e rivestono in pieno quella manutenzione del linguaggio di cui parla Cecilia Bello, ed è un tentativo, se non di indicare la necessità e l’esistenza di un immaginario collettivo, di mettere a nudo il nostro esistere dentro la trama politica che sempre più rifugge alla nostra comprensione. Ma c’è qualcosa di più: le procedure con cui gli autori di Croma k costruiscono l’istituto poetico rivoltano la necessità di mettersi di fronte alla comprensione di questa assenza di senso, alla mancanza di un terreno entro il quale sia possibile comunicare, e propongono al lettore il negativo di quella fede nel benessere che è perno della società capitalista. In Figura Orecchini parla di «controfigura», richiamando la «controparola» di Per os; in Ex-voto Carnaroli rovescia la colpa in un’anti-colpa, per cui i moti di repulsione e di attrazione al cinismo spietato che caratterizza la voce poetica si intrecciano fino a essere indefinibili. Siamo di fronte a una sorte di antidoto al controdolore? C’è una necessità di rieducare alla sofferenza della responsabilità? E se sì, è compito della poesia?

IS: non credo che la poesia abbia altro compito, per dirla con Cecilia e con lei con il Pagliarani e il Pound impliciti nella citazione, che quello di una manutenzione del linguaggio. E questa già non è piccola cosa, questo tenere fluido, in funzione il meccanismo linguistico in un momento di forte impoverimento nelle capacità dell’uso della parola e delle sue possibilità semantiche, che sono molteplici e organizzabili a molti livelli. Certo una responsabilità morale e politica resta indiscussa in ogni fare improntato alla pubblica condivisione ma non credo che questa possa estrinsecarsi nella scelta di determinati contenuti anzi, di fronte a certa poesia civile, spesso prevale il fastidio dovuto a quell’assenso obbligato che ci impone un determinato contenuto non supportato da nessuna consapevolezza nell’elaborazione formale, testi che sono conniventi con il degrado che ci circonda e che si impongono per una sorta di ricatto morale, per un’adesione obbligata da rigettare. La responsabilità del medium è poi da ripensare alla luce dell’invisibilità della poesia all’interno dell’attuale sistema culturale: esaurita la funzione pubblica e politica del poeta, che ha caratterizzato il novecento e, passato il testimone a narratori, registi e artisti visivi, cioè ai rappresentanti di quei campi estetici in cui maggiori sono investimento e diffusione, il poeta, curata la sua ferita narcisistica, torna ad una verifica della realtà attraverso la costruzione di immagini del mondo pertinenti, unica vera responsabilità implicita all’arte, quando riesce a sbrigliarsi dalla produzione dopata e seriale imposta dal mercato. In questo mi pare vi sia una certa fortuna del mezzo poetico, in questa lontananza obbligata dalle costrizioni mercantili, in questa possibilità di dover sottostare unicamente alla propria logica interna, alla propria legge morale e formale. Una libertà dunque quella del poeta che ne aumenta la responsabilità essendo imputabile solo ad esso la scelta dei materiali e delle forme su cui lavora.

DP: A questo punto però sorge, mi sembra, un duplice paradosso: la poesia è socialmente e culturalmente marginalizzata, ma centrale per il ruolo svolto – Cacciatore parlava addirittura di naturalità fisiologica. Di conseguenza libertà e responsabilità del poeta, come hai detto, sono direttamente proporzionali. Le scelte del poeta sono davvero individuali o questa responsabilità le rende collettive in nome di una necessità politica? E la poesia oggi può vivere solo di questa sua “centralità marginalizzata”?

IS: che si dia in questo mondo qualcosa di davvero individuale non credo, anche il romitaggio più radicale o la rinuncia assoluta a qualsivoglia forma di mondanità sono, a loro modo, pratiche sociali e risposte alle aspettative prodotte da una determinata cultura; credo invece che nell’operare di chiunque vi sia una responsabilità verso l’intera società in cui si trova ad esistere a priori di qualsivoglia appartenenza politica e ideologica. Questa responsabilità primaria, dell’individuo dinnanzi alla società in cui vive e opera, sarebbe importante fosse sempre presente al poeta, come importante sarebbe che fosse ben consapevole dello strumento che utilizza: la lingua, strumento sociale per eccellenza, impone consapevolezza e intenzionalità nel suo utilizzo. Per quel che riguarda invece eventuali necessità politiche non mi pare possano essere che accessorie e volontaristiche, desunte dall’ideologia di ognuno e determinate da contingenze storiche che possono o possono non darsi.

DP: Altro elemento costitutivo delle opere della collana Croma k è il vuoto: in ciascun lavoro la significazione della testualità poetica è possibile soltanto entro un intervallo definito, una parentesi, una pausa o uno scarto. Questo spazio è riempito per la maggior parte da un vuoto di materia – un precipitato, appunto – che, come in Lucrezio, permette il clinamen, la creazione della materia stessa. Succede in fabula rasa di Bonito, dove il vuoto assurge a elemento significante, ma anche in tutti gli altri libri. Qual è il ruolo del vuoto nell’immaginario delle opere di Croma k? Dietro questa ricorrenza del vuoto c’è una scelta editoriale o è una convergenza naturale di una certa produzione poetica?

IS: non saprei, né percepisco così nettamente come è da te percepito l’affiorare di un tema siffatto. Il vuoto… forse parlerei piuttosto di una percezione dell’accadere slegata da ideologie precostituite, percezione che a volte ha un sentore di materialismo altre di epochè altre ancora di quel nichilismo filosofico ben enucleato da Heidegger lettore di Nietzsche, spesso si fa percepibile, in molti testi della collana, l’affiorare di un’assenza, una riflessione sulla morte, ma è altra cosa, non so…

DP: Non ho parlato di tematizzazione del vuoto, la considero più una procedura linguistica, o tutt’al più una tematizzazione extra-testuale: molte di queste opere innescano alcune macrotematiche fondanti proprio in quella zona franca tra la produzione e la ricezione, ossia nella relazione tra testualità e lettore. L’assenza è uno spazio lasciato vuoto, mentre la morte è il referente di ogni abisso che si spalanca sotto il testo. A ogni modo questa percezione dell’accadere non è una mera verbalizzazione del dato reale, o sbaglio?

IS: non sbagli, ogni verbalizzazione del dato reale è un’invenzione del dato reale, con tutti i problemi che ne conseguono. Si potrebbe aggiungere che anche la percezione dell’accadere è invenzione dell’accadere ma ciò ci porterebbe troppo lontani da quel che qui ci riguarda.

DP: Quanto consideri Croma k una nuova tendenza della poesia contemporanea?

IS: Il termine nuovo ha sempre qualcosa di pubblicitario, di merceologico ed eviterei di utilizzarlo. Non parlerei neppure di tendenza essendo uno degli obiettivi primari di questa collana quello di non rappresentare specifici gruppi o tendenze e anzi di tentare di spacchettare questi contenitori presentando opere in linea con la poetica curatoriale che informa il progetto, ciò dovuto anche alla presenza di autori appartenenti a generazioni diverse; mi interessa più il singolo poeta che il gruppo di provenienza, quando c’è, e forse neanche il singolo poeta quanto piuttosto una determinata opera all’interno di un corpus. L’idea di partenza di Croma k è quella di un luogo in cui possano convivere e dialogare esperienze molto lontane tra loro ma accomunate da una strenua volontà di investire il mezzo poetico di una capacità di significazione complessa unita ad un prezioso artigianato formale. Tutto il resto è letteratura.

Intervista a cura di Davide Paone

Ivan Schiavone

Ivan Schiavone (Roma, 1983) ha pubblicato: Enuegz (Onyx, Roma 2010 e, in versione ebook, 2014), Strutture (Oèdipus, Salerno/Milano 2011), Cassandra, un paesaggio (Oèdipus, Salerno/Milano 2014). Ha curato diverse rassegne letterarie tra cui Giardini d’inverno, Generazione y – poesia italiana ultima (da cui il documentario omonimo realizzato da Rai5) e, affiancando Luigi Ballerini, Latte e Linguaggio 2019. Ha diretto, con la poetessa Sara Davidovics, la collana di materiali verbali Ex[t]ratione per le edizioni Polìmata. Attualmente collabora con Alfabeta2 e dirige per la casa editrice Oèdipus la collana di poesia Croma k.

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Lorenzo Carlucci, Ultima Eldorado, Ultima, Tommaso Di Dio, Ilaria Mai, Francesco Terzago, Carmen Gallo, Maria Borio, lettera al prete Gianni, lettera, prete Gianni

da Ultima*Eldorado | “Lettera al prete Gianni” di Lorenzo Carlucci

Riprendiamo il ciclo di pubblicazioni legate al primo volume del progetto Ultima, Ultima*Eldorado. Dopo il saggio a firma di Maria Borio, in apertura del volume, pubblichiamo un estratto dello scritto successivo, di Lorenzo Carlucci, intitolato “lettera al prete Gianni”.

Ultima*Eldorado custodisce una raccolta di quattro interventi di poetica. Maria Borio, Lorenzo Carlucci, Carmen Gallo e Francesco Terzago hanno perlustrato la terra della scrittura, i propri limiti, i propri desideri, portando alla luce ciò che hanno trovato nel percorso. Eldorado è il sogno degli uomini che vivono fra le poche cose del mondo; e che scavano per cercare. E così trovano non come restare, ma i resti di tutte le cose del mondo.​

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