Il 2019 ci ha lasciato alcuni libri di poesia molto interessanti, su cui mi pare si possa e si debba dire molto. Fra gli esordi, mi sembra ragguardevole quello di Marco Villa, Un paese di soli guardiani, uscito lo scorso settembre per Amos Edizioni nella collana A27 poesia. Un paese di soli guardiani delinea un itinerario di liberazione personale, il lavoro che un io compie su di sé con l’obiettivo di mettere in scacco le proprie costruzioni, annientare i propri nemici (l’Io stesso in primis, quindi le sue idiosincrasie e i suoi condizionamenti), e infine, dopo errori rovinosi e miglioramenti minuti, procedere faticosamente verso un’incerta edificazione: «Un uomo che deve costruire un mondo solo per provare a se stesso di non essere un fantasma» (p. 19).
Il luogo dell’azione di questo soggetto, dei suoi gesti e delle sue sparizioni, dei suoi sbagli e delle sue correzioni, è un campo di battaglia che dalla mente si apre verso il mondo e verso l’altro. Il suo tempo si distende in una longue durée priva di scatti epifanici e sempre oppressa dalla maledizione del “giorno dopo”; un tempo nel quale chi parla oscilla costantemente fra la consapevolezza etica della direzione da seguire e l’istinto masochistico all’annullamento di sé e alla derealizzazione del mondo; un tempo in cui ciò che viene compiuto non è mai sufficiente e gli approdi – sempre messi in dubbio – si danno come qualcosa da raggiungere, mai di acquisito: «Non possiamo impegnarci per niente che non debba essere ridetto, e sempre con memoria, almeno una volta di più» scriveva Marco Villa in un editoriale del 2015 su formavera.
Questo percorso di liberazione esige coraggio, crudeltà e nessuna forma di ritegno. La verità è una postura irrinunciabile, pena il crollo di ogni credibilità, e non può essere elusa: ogni menzogna finirebbe per essere smascherata – prima o dopo (o, come direbbe Marco Villa: «Poi il lunedì e il martedì…») – dall’incessante lavoro di auto-verifica che costella l’intera raccolta, dunque la vita. Gli approdi non garantiscono mai una pacificazione definitiva e si pongono sempre come parziale vittoria di uno dei due poli che costituiscono la dialettica mai risolta del libro. Da un lato, la tendenza all’auto-annullamento, alla sparizione («c’è sempre una forma che si scioglie / vene in sangue, passi in oceano, terra in cielo», p. 13; «entrare in un’inerzia immobile (sonno, abbrutimento a tutto tondo, morire fino al sonno).», p. 18; «Eravamo sfiniti, peggio che fantasmi», p. 23); dall’altro, la necessità di costruire, di stabilizzare, di dare una forma e un ordine alle cose proprio a partire da quel caos, da quel grumo di casualità e destino, sul quale si innestano le nostre vite («provare a dare forma al mondo», p. 14; «E tutto questo – per quanto ancora – tiene in ordine una montagna.», p. 17; «Un uomo che deve costruire un mondo solo per provare a se stesso di non essere un fantasma.», p. 19).
Distruggere per costruire, farla finita con i congiuntivi, i «come se», le parentesi (di tutti e tre è ricchissima la seconda sezione, Formazione, la più difficile a livello esistenziale, la più carica di falsi approdi e promesse non mantenute); accettare la derealizzazione del mondo come punto di partenza per una sua nuova formazione; accettare il distacco da sé come possibilità meno falsificabile per trovare un nuovo corpo e un nuovo spazio in cui abitare, crescere e edificarsi. È seguendo questa strada che diviene possibile, nei momenti in cui emergono forze nascoste e insospettabili, comprendere il valore della sparizione, che non è più svilimento di sé, ma accettazione di un dovere e di una significazione: l’io si sottrae per lasciare nel mondo qualcosa che accade, che esiste, e che ci libera: uno spazio abitabile, un tu integro e compiuto, una forma che comunica: «svanisce con ordine», p. 31; «e finalmente avremo dato uno spazio», p. 37; «ma fin lì un paziente lavoro di sparizione formata », p. 56.
Sono i momenti questi in cui diventa più chiaro l’itinerario del soggetto, una questione tutta pratica, tutta da realizzare e da ripetersi giorno dopo giorno nella propria vita: «Invece, quando sei così presente a te stesso da coincidere con un corpo, bello e ridicolo, compiere ogni gesto è finalmente solo una questione di tecnica, la tecnica di pratica, la pratica è tutto.», p. 61. Ed è proprio la preoccupazione pratica che questo libro porta con sé che ne rivela tutta la forza, il suo sporgersi oltre il cornicione dell’io per rivolgersi completamente – in maniera esplicita – alla seconda persona, ossia – per chiamata in causa – al lettore: «Quindi smetti di seccare la natura, / cammina e sbaglia tutto – saremo qui», p. 29; «Non ti sto dicendo di dispiegare tutte le risorse che puoi come se stessi condividendo un panino, ma forse sì.», p. 42; «ma pensa, sempre, / che non stai facendo nulla», pp. 50-51; «Puoi fare tutto; fa’ che sia d’amore.», p. 64. L’uso allocutivo del tu da un lato, quello della volizione dall’altro, in particolare nelle ultime due sezioni, le più consapevoli, spingono verso un coinvolgimento sempre più intenso del lettore, che si sente chiamato ad agire, a compiere su di sé il lavoro che l’io di Un paese di soli guardiani sta compiendo su se stesso: la sensazione che prova chi legge è quella di essere stato smascherato, eppure – di fronte a sé, stampate sulla pagina – non può non notare come ci siano anche le tracce per una ricostruzione e un rinnovamento.
Ecco, dunque, il ruolo dei guardiani, unici abitatori rimasti nel perimetro della coscienza dell’io, soggetti consapevoli del proprio potere repressivo e iperprotettivo, ma anche della propria inutilità: se le spinte vitali sono scomparse, se la realtà perde significato, se il desiderio langue, allora non c’è neppure bisogno di chi le reprima e le direzioni. Eppure i guardiani ci sono, tangibili e molteplici (il Super Io è sempre, anch’egli, una macchinazione, un vortice di conflitti e di voci), e sanno che, per recuperare il loro ruolo, per pacificarsi, dovranno dar vita a un nuovo equilibrio: da forze oppressive dovranno farsi forze propulsive, creatrici e stabilizzatrici. La direzione di questo itinerario, tanto meditata quanto sfuggente, emerge con tutta la sua carica liberatoria al termine della prima poesia di Tracce: «Ingannerà la maledizione della sua specie deviando a un nulla ordinato tutti i suoi desideri // Un desiderio senza padrone, che può permettersi di avere una direzione e persino di amarla // Darà una direzione all’onda di probabilità che è non è più sarà in più // Creerà uno spazio gigantesco per», p. 56.
La lotta al peggio di sé diviene un passaggio ineludibile per poter avvicinare l’altro. L’acquisizione di uno spazio potrà essere allora anche acquisizione dell’amore: qualcosa, di nuovo, di mai definitivo e allo stesso tempo “da raggiungere” (si legga, in questo senso, la terza sezione: Per cominciare, sorta di liberazione iper-consapevole dopo la fatica di Formazione). Senza maturazione esistenziale non esiste via d’accesso alla relazionalità, al confronto, al collettivo. L’individuo non può accontentarsi dell’io per definirsi e edificarsi, pena l’autocritica più feroce. A testimoniarlo sta l’oscillazione pronominale che pervade l’intera raccolta, che pare costringere il lettore a ricalibrare costantemente il proprio sguardo e a concentrare l’attenzione sulla scena, dunque su ciò che viene detto e non su chi lo dice.
La spinta ad avvicinare il lettore emerge a livello formale grazie a numerosi stilemi che alimentano la carica comunicativa di questa voce, che se da un lato mira ad adeguarsi al grado zero della lingua, in una sorta di afflato ricompositivo, dall’altro non esita a rivolgersi all’altro con la forza impositiva della volizione. A un lessico piano e quotidiano, capace però di affiancare reminiscenze letterarie a riferimenti della cultura pop odierna, e a una sintassi fondata su tecniche di montaggio a metà fra la cinematografia e certe movenze del surrealismo poetico, si affiancano infatti numerose sententiae icastiche e assertive (spesso in chiusura dei testi). Altro aspetto formale interessante è l’uso calibrato della ripetizione, spesso utilizzata come snodo sintattico decisivo, tramite l’anafora, a evidenziare i tentativi falliti e ripresi dell’io nel suo lavoro di maturazione, come se forma e contenuto lavorassero insieme alla realizzazione della tensione più profonda di questo libro. L’esito è una lingua estremamente comunicativa e coinvolgente, e che sa esserlo senza mai fare sconti a sé o all’altro: terribile, se necessario, eppure intima. L’impressione, se proviamo ad acquisire un punto di vista più distante e dunque più ampio, è quella di una voce strettamente connessa al movimento oscillatorio del soggetto che la pronuncia, ai suoi sbalzi psicologici e alle sue insperate conquiste; una voce che riesce a tenere assieme, senza farle stridere, le due posture che definiscono la raccolta: quella confidente e sapienziale da un lato (su cui peserà sicuramente l’insegnamento di Dal Bianco); quella tragica e assertiva, intrisa di Dostoevskij e De Angelis, dall’altro.
È dunque proprio attraverso la forma che Marco Villa riesce a far emergere il valore politico, in quanto costruttivo e dialogante, di queste sue poesie, tanto rivolte verso se stesso quanto tendenti alla condivisione e al confronto con l’altro, fino a delineare una voce che sembra avere come tenace e costante obiettivo quello del coinvolgimento (e del sommovimento) del lettore. Partire dall’io, e della sua messa in stato di accusa, per oltrepassarlo e raggiungere una prospettiva condivisa; oppure, come scriveva Fortini di Zanzotto, tramutare «il rapporto con il proprio inconscio […] in rapporto con la storia» (F. Fortini, Zanzotto 2, Breve secondo Novecento): da qui, da questo tentativo, mi pare abbia inizio la poesia di Marco Villa. Sarà interessante seguirne l’evoluzione.
di: Pietro Cardelli