Marco Corsi / Sparare a zero. Intervista e testi

Per l'undicesima puntata del format "Sparare a zero", la redazione intervista il poeta Marco Corsi. Foto di Alessandro Canzian.
  1. Tra i libri usciti negli anni Duemila puoi indicarne 5 fondamentali per il tuo percorso?

Partirei da un libro uscito nel 1999: Biografia sommaria di Milo De Angelis. E in particolare, al suo interno, il poemetto L’oceano intorno a Milano. Scendendo lungo il filo degli anni Barlumi di storia di Giovanni Raboni, testamentario e altissimo, e La pianta del pane di Biancamaria Frabotta, su cui mi sono formato, entrambi del 2003. Poi viene Jucci, il canzoniere del maestro e amico Franco Buffoni, vera e propria palestra di dettato. Ultimo, per apparizione, Historiae di Antonella Anedda.

  1. Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana? Per chi scrivi poesia?

Scrivere aiuta a vedere e lo sguardo è una dimensione necessaria alla scrittura. Vedere significa andare oltre i fatti per mettersi in contatto con la realtà. Mi interessa la complessità del reale, in una prospettiva che permette il dialogo fra passato e futuro. Attraversando quel nodo temporale in cui viviamo. Non si può prescindere dall’esperienza individuale, purché non sia strettamente soggettiva. Si scrive per tutti. E chi legge deve potersi appropriare della prospettiva del testo.

  1. Senti di fare parte di una comunità poetica a cui aderisci? Com’è il tuo rapporto con altri poeti viventi e con chi ti legge?

Più che far parte di una comunità mi interessa stabilire un contatto con chi legge o ascolta. La lettura e l’ascolto sono prerogative fondamentali per la costruzione di una comunità letteraria, non solo per poeti. Se far parte di una comunità vuol dire negare a sé stessi prospettive apparentemente distanti, allora non mi interessa. Il dialogo risuona nella distanza e ci mette alla prova.

  1. Senti di inserirti all’interno di una tradizione poetica italiana? Avverti una particolare vicinanza con tradizioni poetiche in altra lingua?

L’appartenenza è un sentimento che richiede consapevolezza e istinto. Ma se appartenere a una tradizione vuol dire solo far appello a un’istanza di autoassoluzione, ecco, questo non mi interessa. Ho letto molta poesia, specie italiana, negli anni felici della formazione, senza precludermi nessuno sbocco, da Cacciatore a Zanzotto, da Merini a Rosselli, cercando sempre di concentrarmi sulle forme della testualità. Oggi forse mi interessano di più esperienza come quella di Natalie Diaz, penso soprattutto a When My Brother Was an Atzec, o certi modi della poesia catalana che mi è capitato di incontrare nella voce di Maria Callís. Modi e forme che tornano distanti-vicine nello spazio e nel tempo. Torno spesso anche a Marianne Moore, Anne Carson e Alejandra Pizarnik. La vicinanza può essere un fenomeno improvviso, che non richiede consuetudine. Ci si può toccare sulla lama di un verso.

  1. Sapresti indicare una forma artistica e una disciplina scientifica, se ci sono, che influenzano più di altre il tuo processo di scrittura? In che modo entrano in poesia?

Se penso alle pratiche artistiche, mi piace rimandare al concetto di installazione. Dentro al testo le immagini intrattengono fra loro legami talvolta non espliciti, nonostante il “tema” generale che le unisce. E hanno una loro fisicità precipua. Una consistenza che le mantiene distinte. Quanto alle scienze, invece, più che una disciplina specifica mi piace anzitutto la loro lingua, l’esattezza con cui vengono divulgate. Alla vita di una cellula o al destino delle stelle sono dedicate narrazioni epiche nella loro precisione.

  1. Che rapporto hai con la metrica e la rima?

La metrica e la rima sono per me fattori endogeni della scrittura, qualcosa che portiamo nell’orecchio e nel nostro DNA di discepoli. Affidarsi al ritmo è tutt’altra cosa. Nella variazione si nasconde il tentativo di avvicinarsi alla materia trattata in modo più consono. Non tutto si può dire allo stesso modo. Detto questo ho mandato a memoria diverse parti di Corsia degli incurabili di Valduga, e leggo con interesse quello che scrive Giulia Martini.

  1. Tra le nuove generazioni ci sono 3 poeti che ritieni particolarmente preminenti o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Non mi piace l’aggettivo preminenti. Preferisco dire interessanti. In ordine strettamente alfabetico: Riccardo Frolloni, Vera Linder, Mariagiorgia Ulbar. Sarei curioso di leggere le loro risposte.

0. Acer in fundo, se non vuoi dirci 3 poeti contemporanei che proprio non ti piacciono, puoi indicare uno o più testi del tutto distanti dal tuo modo di ‘sentire’ e ‘pensare’ la poesia?

Non mi piace la poesia che non corrisponde alle intenzioni, né il corporativismo di quelli si credono vittime, esclusi, e che reclamano attenzione. Tutto ciò che deriva da tale atteggiamento non può che essere deleterio per la poesia stessa. La forma migliore di critica che si può mettere in atto sta nella consapevolezza di ciò che si scrive.
Detto questo, faccio tre nomi in cui non mi rispecchio: Davide Brullo, Simone Burratti e Tommaso Di Dio. Se devo giocare, gioco col fuoco.   

***

Ti chiediamo infine di proporci alcuni tuoi testi poetici.

Propongo cinque passaggi da un poemetto intitolato Grand Tour, che fa parte della raccolta inedita a cui sto lavorando. A cui mi piace già dare un nome: Nel dopo.

Ho cominciato a scrivere questa poesia
nella grande pianura del cervello
con un punto di sole alto
che sperde a sera i rami induriti 
dei tigli. Una calma sofisticata
riposa intatta sui fiori ermafroditi
cordati all’apice del fusto:
come per sempre si unì Filemone
a Bauci in un solo tronco venerato
così furono per noi gli amori antichi.
«Was ist Minne?»: vorace esaltazione 
                                       piacere nella rinuncia. 
Senza metro, in cerca di canto, 
resto nel centro del mio cervello 
senza corpo, senza cuore, senza. 
                                                        Acque più fredde
salgono alle caviglie, urla il corvo,
                                                  bisbigli «Winterreise»
ti appresti al congedo.
In nessun luogo mai è dato soggetto:
le acque scorrono gelide
                                           e qui, nelle carni,
i tigli riprendono a fiorire, a ritardare
                                                     secondo natura,
ne guardiamo l’amorevole gemma,
                                       i colori mutare col giorno
e tendiamo le mani al cielo.

Ho cominciato questa poesia portando
a compimento molte parole quiescenti:
il ramo tagliato ricresce sulla rete metallica
l’edera secca si attacca alla vita
             per sempre, 
                                  per sempre finita. Nessuno
la vede. E
                 senza crederci
                                           continua.

[…]

Amore, mi vedi ancora
                                        in questo splendore
di cenere e ossa?
                             Cedi con me 
                             sii esatto, sii molto desiderato
ripeti anche tu
                          il latte, il lutto, la luce,
venire al mondo per essere niente
come un uovo di rana imperlato
sul filo della corrente.

[…]

Cosa portare con noi
                                 cosa abbandonare…
Mentre taglio con minuzia il pesce
liberandone il cuore dalle spine
cedo all’armonia della luce.
                              È questo che facciamo
guardando il cielo come gli avi:
il grande studio
                         e il grande amore.

…………….

Ma le foglie, le foglie…, sì…, desiderate:
pioveva a dirotto quel giorno in Central Park,
acquattati scoiattoli nei vapori opalescenti del bar.
Le perline di mercurio che scivolano dalla bocca
gli occhi dentro la tazza: dove eravamo, 
                                                                    davvero,
                                                                                   amore?
«Quale trista notizia dovrai apprendere
da me! Dèi… non fosse mai successo!
Patroclo giace senza vita e sul corpo nudo
infuria la battaglia: le sue armi, ora,
sono preda di Ettore» traduco all’impronta 
………………………………………………
«Una nuvola nera pervase il volto di Achille
cenere e terra raccolse con ambo le mani,
se ne cosparse la testa e insozzò il volto adorato.
Fu il bel manto tutto coperto di cenere negra
disteso sull’arido suolo, lui, l’eroe, giaceva
straziando le chiome con mani feroci.
Le donne che insieme a Patroclo aveva predate
colpite nel petto levarono alte grida; e intorno
al figlio di Pelèo, una volta uscite dalla tenda, 
battevano il seno fino allo stremo delle forze».
…………………………………………………
Hai visto anche tu di giorno in giorno
in questo campo magnetico di foglie
l’amore intimo, vero, 
cedere il passo
                        inconsistente
                                              al tradimento?

[…]

Sono tornate anche qui le rondini
                                    in mezzo alle rovine.
Ditelo a Fleba il Fenicio, ditelo a Tiresia, a Cassandra
sono tornate le rondini
                             Sed ne ad aliud quam de quo agitur abducar,
                              nos quoque […] apes debemus imitari

………………………………………

Rileggo finalmente gli appunti per questa poesia:

– la mia generazione ha tradito sé stessa
                                                                   e gli altri. Così
comincia la storia, l’individuo
                                                   la massa, una cosa sola.
–  Filemone fu trasformato in quercia, in tiglio Bauci,
– come si contano i cerchi nel corpo dell’albero?
– mettere da parte tutto il necessario:
                           un paio di calze per attraversare la notte
                           le tue matite colorate e l’albo dei disegni scontornati
                           l’alba per sempre

Con questo nodo
                             io ti sposo
                                              finché sonno
non ci separi
                     o ragione.
Siamo soli nella grande matassa del cervello
                                    con indifferenza e stridore di denti.

[…]

                                Guarda, è questo
lo studio degli scavi
                                Ilio dentro Ilio
un profumo rosso di fuoco
e pesci morti nell’acqua. Sei padre,
sei figlio, sei vecchio e poi, di nuovo, bambino
quando la notte ti sveglia
                                         sei tutto ciò che resta
nell’epoca perenne degli ignavi:
piange Astianatte con foga
in cima al muro di terra.

                                       Ascolta,
sotto gli archi della nostra detenzione 
letteraria
               così in cielo come in terra
esposti a nord alle tempeste più forti
torneranno i fiori e le malattie
estinte. Sarà bello vedrai, 
                                          amore.

L’epoca della nostra formazione.

***

MARCO CORSI. Nato in Toscana nel 1985, vive a Milano dove lavora nell’editoria. Ha curato alcune rassegne e pubblicato diversi contributi dedicati alla poesia italiana contemporanea, una monografia su Biancamaria Frabotta, un libro intervista con Franco Buffoni, e curato il volume di testimonianze critiche per Anna Cascella Luciani. Sue poesie sono apparse su importanti riviste e blog letterari. La sua prima silloge, Da un uomo a un altro uomo, nel 2015 è stata inclusa nel Dodicesimo quaderno italiano (Marcos y Marcos) e nello stesso anno ha vinto il Premio Cetonaverde sezione giovani. Nel 2017 ha inaugurato la collana “Lyra giovani” di Interlinea con Pronomi personali (Premio Maconi e selezione Premio Fogazzaro e Premio Ceppo). Del 2021 è la sua ultima raccolta La materia dei giorni, pubblicata da Manni (Premio Prestigiacomo). Nel 2022 è uscita la plaquette Appunti per un incendio dell’occhio (Stampa 2009, con prefazione di Maurizio Cucchi).

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