I moti dell’io negli esordi poetici degli ultimi anni. Prima tappa (Vivinetto, Cornelio, Ragliani, Ottonello, Righi)

Proponiamo un intervento critico di Diego Ghisleni, che studia cinque opere d'esordio degli ultimi anni attraverso il filtro dell'identità. Copertina: Umberto Boccioni, "Materia", 1912.

Primo di una serie più lunga e articolata, questo articolo non pretende di stilare mappature canonizzanti, ma vuole condurre un’indagine sui moti dell’io, approfondendo il rapporto tra la volontà e la forma negli esordi poetici a cavallo tra gli anni Dieci e Venti del secolo corrente. Per questa prima tappa ci focalizzeremo su cinque libri: Dolore minimo, di Giovanna Cristina Vivinetto, pubblicato nel 2018 da Interlinea per la collana “Lyra Giovani”, diretta da Franco Buffoni; La promessa focaia, di Giorgiomaria Cornelio, edita nel 2019 da Anterem per la collana “Opera Prima”; Lo stigma, di Carlo Ragliani, che nello stesso anno ingrossa le “Rive” di Italic Pequod; l’esordio di Silvia Righi, Demi-monde, uscito nel 2020 per NEM, collana “Civette”; infine Isola aperta (Interno Poesia, 2020) di Francesco Ottonello.

Questi titoli condividono la tematica centrale dell’identità e del suo rovescio, la “disidentificazione”, il rifiuto di una precisa forma identitaria. Poiché intendiamo analizzare i rapporti tra queste due spinte contrastanti, l’indagine che conduciamo non è da confondere con un discorso teorico sui soggetti empirico e poetante. In due dei cinque libri qui analizzati – Lo stigma e La promessa focaia – l’“io” lirico è completamente assente (o quasi, se si eccettuano le poche occorrenze del “noi”), eppure non si può negare che di un “io” si tratti, finanche in maniera precettistica. Presenza e assenza del soggetto lirico saranno comunque termini di confronto da considerare per una più accurata analisi della poetica dei suddetti esordi, anche perché tra questi ve ne sono alcuni – qui è il caso di Dolore minimo – in cui l’autore non intende trattare l’identità in generale, quanto piuttosto la propria. Anche per queste ragioni, un’analisi comparata di queste opere rappresentative consentirà di abbozzare un disegno delle spinte tra io e sé che dominano la poesia della generazione anni Novanta. Si premette che nel nostro studio “io” e “sé” non sono utilizzati come sinonimi, bensì quali locuzioni atte a indicare due momenti distinti dell’essere: il primo termine si riferisce a quella forza tensiva che può riconoscersi o meno in un’identità; il secondo interessa le forme identitarie che la prima persona può attribuirsi.

Dolore minimo è il primo libro italiano che narra in versi un’esperienza di transizione al genere femminile. In esso l’andamento dell’io tra i suoi due sé, maschile e femminile, descrive la parabola di un moto pendolare. Nella poesia di Giovanna Cristina Vivinetto è evidente la tensione dell’essere a un’identità precisa, tuttavia traspare altrettanto limpidamente come questa identificazione conservi come presupposto la valorizzazione di uno strappo: si tratta del vuoto avvertibile nel corpo con il processo di transizione. È allora indissolubile il laccio tra le due nascite, quella della donna, stabilita dall’io, e quella primigenia, presente come assenza e perciò destinata a propagare dolore. L’oscillazione tra i due poli si palesa del resto anche nella seconda parte della sezione eponima del libro, dove a un testo in tondo in cui l’io abita un sé maschile corrisponde un testo in corsivo in cui questo è l’«Identità» con l’incipitaria maiuscola, «la Coscienza / che slarga le ombre senza nome / della notte». Nei versi dell’autrice la crepa tra i sé è una ferita da custodire, poiché la «voce interna fiorisce / solo a forza di strappi e toppe / mal ricucite».

Il vuoto è dunque il presupposto indispensabile per un «secondo battesimo», e ciò accomuna due esordi diversissimi come Dolore minimo e La promessa focaia di Giorgiomaria Cornelio. In quest’ultimo libro, l’uomo e il testo sono la brace sulla quale soffiare per attizzare un fuoco nuovo, che infiamma però solo al termine di un processo di prima arsura consapevole. Tra le pagine dell’opera è infatti palpabile una tensione opposta a quella che spingeva l’io di Vivinetto a un’identificazione con il sé femminile. Fin dall’inizio la voce poetante, che non si configura mai come una prima persona, si domanda se non convenga «chiudere l’agire, smagrirlo nella clausura / ustoria che più non domanda / il compiersi e l’azione». La poesia invita insomma a recedere dal sé spirando e mettendo a fuoco le contraddizioni: la mano, simbolo d’incontro e di «interezza», è in realtà la sigillatura del vuoto; Laszlo Toth, l’uomo che rovinò la Pietà di Michelangelo rivendicando di essere la reincarnazione di Cristo, attentò all’icasticità della morte dominatrice ottenendo beffardamente in cambio la sua restaurazione e protezione; la vita è uno sfranare continuo, e il battito dell’uomo si misura con il sismografo.

Nella Promessa focaia lo scavo del sé si accompagna dal punto di vista stilistico alla ricerca dell’arcaismo, e ciò distanzia ulteriormente questo esordio dalla poesia di Vivinetto, al contrario abitata da un lessico medio e da uno stile più limpido e piano. L’esordio di Cornelio, che del sacro è costantemente alimentato, non tende solamente alla riduzione identitaria: la frequente coniazione di neologismi e il gioco con cui l’autore lascia trasparire l’inchiostro di un foglio negli spazi bianchi della pagina retrostante lasciano pensare a una spinta riedificante, secondaria rispetto a quella iniziatica di annichilimento. Al soffio il carbone ardente riduce progressivamente la sua forma, infine diventando cenere, in favore della fiamma.

Una medesima tensione verticalizzante pervade – anche graficamente – i versicoli di Carlo Ragliani nel suo esordio, Lo stigma, dove l’io è una parola proibita e l’infinito il tempo verbale dominante. Qui l’allontanamento dal sé è un parallelo della sacralizzazione, alla quale è consentito avvicinarsi mediante l’esercizio del silenzio, «sufficiente a saziare», e l’accettazione dell’amputazione («ormai la solitudine / annoda la carne / alle amputazioni / guarendo / per seconda intenzione»). Persino le lettere dell’alfabeto ebraico che l’autore attribuisce alle sezioni del suo libro narrano un rapporto di nullificazione e ottenimento: di fronte a uno scrigno che recita “Metti se puoi, togli se devi”, il povero Dalet (ד) prende del denaro e si allontana ricurvo, schiacciato dal peso della vergogna; Gimel (ג), assistendo alla scena, corre incontro a Dalet per donargli altro denaro. Da una parte, chi nullifica i suoi averi ottiene un guadagno spirituale; dall’altra, chi si annulla elemosinando riceve ulteriore grazia in beneficio. Nello Stigma la parola torce la perfezione, pertanto la poesia invita l’individuo a smarrire qualsiasi pretesa di controllo e di scansione con essa: i nessi logici e sintattici scompaiono e l’unica certezza esauribile è il punto fermo alla fine del componimento. Ne consegue l’aborrimento di qualsiasi dialogismo, da considerarsi, al pari dell’esistenza, l’«affanno di risolvere / il rimpianto d’una riparazione / debole / mentre la matrice / prende forma».

Se i buchi bianchi di Cornelio tarlano l’orizzontalità del verso e le spezzature di Ragliani innervano la poesia di vuoto, i trattini orizzontali (–) utilizzati da Francesco Ottonello in Isola aperta mimano invece l’anelito delle isole al ricongiungimento: «Sento te attecchire in me / – / questo abile transmembramento / un archeoscavo di forza, una spinta di orizzonti». In quest’opera d’esordio l’io lirico è continuamente proteso all’altro, in uno slancio che però non può che vanificarsi, come un «grido assorbito dalla terra». Il segno diacritico scelto dall’autore è d’altronde anche un simbolo di separazione oltreché di convergenza. Diversamente da quanto succedeva nella Promessa focaia e soprattutto nello Stigma, e nonostante lo scontro insistito con l’incomunicabilità (motivo pregnante della silloge), la poesia di Ottonello valuta l’apertura come una possibilità disidentificante, rinunciando alla chiusura nichilistica.

Identità è sofferenza anche per l’io di Demi-monde, dove il vuoto pare connaturato al genere come dolore inflitto dalla propria avvertita incompletezza («La forma è una prova / una prova ad amare / una prova a.»). La risposta è allora ancora un tentativo di disidentificazione che può risolversi nell’incastro temporaneo dei corpi o nella limatura della forma: «la Signora Neve mi taglia / i capelli con affetto / poi i capezzoli, infine / il clitoride.». In ogni caso, anche nell’opera d’esordio di Silvia Righi, come in Isola aperta, la carenza originale non è una ferita da valorizzare, bensì un torto gridabile, poiché l’anelito naturale è ancora una volta desiderante, ovvero comprensivo della volontà di colmare un vuoto essenziale.

Se in Dolore minimo la cesura tra il sé femminile e quello maschile era dolorosa e insieme necessaria all’io per il raggiungimento della propria identità di genere, in Demi-monde non c’è alcuna volontà d’identificazione, pertanto, dopo il taglio platonico dell’androgino, l’individuo sessuato non può che soffrire la sua separazione dal corrispettivo opposto. Diversamente, nell’esordio di Giovanna Cristina Vivinetto, prima della transizione il vuoto grava unicamente come possibilità per l’io, dato che il corpo è ancora un ponte d’interazione tra esso e le sue forme. Ciononostante, ambedue i libri coltivano nell’amplesso una soluzione parziale alla forma, ovvero un suo sconfinamento temporaneo: «Il fatto è che un corpo come il mio / quando s’incastra a un altro corpo / non è più transessuale. Quando / si lega a una carne che accoglie / forse non è più nemmeno un corpo» (Dolore minimo); «hai disarticolato una creatura / banalmente magra, banalmente sessuata / e hai impastato una pulsione. / L’acqua delle attese ha compiuto il miracolo / levigando il bacino da ragazza / e dallo scarto dell’onda è nato uno strano androgino / che a te sarà vicino e separato / come la carne all’unghia» (Demi-monde).

L’incastro amoroso rischia però di culminare nella germinazione di altri individui sessuati, contribuendo dunque alla propagazione generazionale della malinconia, associata nei testi di Righi alla percezione che l’io ha della propria forma (leggi incompletezza). Per questo motivo il dettato poetico di Demi-monde suona anche come una feroce condanna al desiderio, un invito a “seminare nell’acqua” che sottende allo stesso tempo i significati contrastanti della fecondazione e dello spreco.

Anche Lo stigma predica la strozzatura netta della bramosia concupiscente: l’invito a «rassegnarsi / alla frusta», a tesaurizzare la «persecuzione / di ogni giorno», è rivolto all’uomo affinché non si lasci traviare dal desiderio, eviti di rinnovare i tumuli di «morte impilata». Poiché contribuisce al protrarsi della solitudine, l’amplesso «conferma / il distacco che separa / ammalandoci / nell’etica dello spreco». D’altronde lo stigma è una condanna a vivere, come scrive Mario Famularo nella prefazione, «con una natura ostile e ogni genere di avversità», e questo fardello di libertà sartriana marchia fin dalla Genesi Caino e la sua discendenza. Anche in Demi-monde il ritaglio delle forme che la «Signora Neve» compie nel giardino edenico sembra per certi versi ricondurre il peso dell’incompletezza all’origine biblica del mondo.

Isola aperta, invece, incuba il tema della sterilità sviluppandolo in più punti, basti pensare – come ricorda il prefatore Tommaso Di Dio – alla «riflessione offerta ad una generazione di coetanei» che si apre dicendo nel primo verso «sarai sterile», oppure alla poesia Sterilità («prima di sparire / innaffiate il mondo, saremo altro») e a versi come «vorrei essere violato, dolore in fiore / salvo in un vaso impossibile verde / acerbo, lì fermo per sempre». Il tema viene poi approfondito ulteriormente in Futuro remoto, incluso nel XV Quaderno italiano di poesia contemporanea a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2021), espandendosi oltre l’io. Ad esempio, i motivi della riproduzione e della sterilità si incrociano nel poemetto di Dentro il metaverso, toccando anche la quaestio della crioconservazione («salvare un pianeta destinato a sparire. / stolto secolo che vedevi in linea il tempo / con il futuro di generazioni da serbare / salvare con delizia e amore questo seme»). O ancora, nell’ultima sezione, il tema si declina nell’universo zoomorfo di pianeti alieni («intorno a un pianeta, per registrare / embrioni in chissà quali lontani alberi»). Pregnante l’endecasillabo «per riprodursi rifarsi del male» a proposito di un’esistenza sorbita dall’inganno e dall’incomunicabilità.

In conclusione, il tema dell’identità è un nodo che stringe in maniera particolarmente evidente tutti e cinque gli esordi presi in analisi, ma possibilmente anche un’intera nuova generazione poetica, che in alcuni casi è in grado di affrontarlo in maniera originale, con esiti linguistici e stilistici diversificati, che meriterebbero ulteriori analisi a sé stanti. In sintesi, se in Vivinetto l’io è il fuoco di una tensione centripeta e lo stile è generalmente piano e non particolarmente innovativo, in Righi e Ottonello prevale una forza centrifuga, tesa verso l’altro, con uno stile in bilico tra liricità e spinte avanguardistiche. Anche la poesia di Ragliani e Cornelio insegue la disidentificazione, valendosi però della nullificazione sacralizzante e rispettivamente con uno stile che tende da un lato alla rigida asetticità e dall’altro a una paradossale forma di manierismo sperimentale.

Vittorio Sereni sosteneva che la scrittura «non può fruttare se non riconoscimenti episodici, cioè identificazioni – e autoidentificazioni – parziali e transitorie»[1]. Se le voci considerate da questo articolo convengano o meno con l’asserzione sereniana, fiduciando nella capacità della poesia di esaurire i moti dell’io dentro e fuori dal sé, è argomento che non compete a chi scrive. Ci si limiterà ad attestare con sicurezza che l’arte poetica è lo strumento privilegiato di una ricerca così viscerale.

[1] Vittorio Sereni, Autoritratto, in La rassegna della letteratura italiana (n.3, settembre-dicembre 1981).

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