Stefano Olmastroni | Le sette domande di MediumPoesia

MediumPoesia presenta due testi di Stefano Olmastroni dalla raccolta "Ognuno si racconta la sua storia", introdotti dalle sette domande della readazione, accompagnati da una lettura ad alta voce dello stesso poeta

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?

L’incontro con la poesia contemporanea forse si è fatto sempre più occasionale: ci si imbatte con facilità in singoli testi, si trovano ovunque, sulle pagine dei social, sui muri delle città, ma poche volte si riescono a leggere inseriti in una prospettiva più ampia, nel contesto di una silloge e di una raccolta. Difficilmente si può dire qualcosa di notevole su una singola poesia isolata. Questo può essere visto come un perdita, ma è anche un segno dei tempi, delle effettive possibilità della poesia di interessare, di solleticare la naturale pigrizia verso il genere.

I libri che includo nella lista quindi appartengono a nomi già affermati. Comunque a 5 non ci arrivo, neanche barando, dovendo parlare di raccolte veramente fondamentali. Queste qua sotto però, a modo loro, lo sono state:

Let Them Eat Chaos – Kate Tempest

Human Chain – Seamus Heaney. (Anche soltanto per essere un libro di Heaney. Ho scelto questo, tra gli ultimi che è riuscito a pubblicare nel nuovo millennio).

Ritorno a Planaval – Stefano Dal Bianco.

Notti di pace occidentale – Antonella Anedda. (E qui ho barato, seppur di pochi mesi: è un libro del 1999!)

Nei due libri italiani si avverte una maggiore intimità e una maggiore solitudine. Sono più uniformi nel carattere, oso dire meno innovativi: anche i temi affrontati sono trattati in modalità ormai note. È il limite di tanta produzione artistica italiana e la ragione per cui spesso ci si rivolge (giustamente) all’estero per cercare ispirazioni.

Forse, almeno per il momento, la poesia in lingua italiana è meno capace di sedurre.

2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

Riferisco di un episodio banalissimo, ma a questo proposito illuminante. A una lezione aperta nella scuola dove insegno si discuteva di poesia e una collega mi ha presentato l’ospite invitato per parlare alla classe più o meno dicendomi «Lui è X, è un poeta». Io non ce l’ho fatta a dire «piacere, anch’io sono un poeta». Era imbarazzo? Se fosse iniziata una conversazione forse alla fine avrei buttato là un «anch’io scrivo poesie». Ma non ce n’è stata l’occasione. Per qualche ragione, quello di scrivere poesie, mi è sembrato un legame meno forte che se mi avesse detto «Ciao, io sono di Arezzo», «Ehi che combinazione, anch’io sono di Arezzo».

Credo sia un atteggiamento comune, contemporaneamente alle prime prove di scrittura, preferire l’essere poeta allo scrivere poesie. Ma poi ci si rende conto del tanto fumo e poco arrosto e del sospetto che porta con sé la parola “poeta”; e allora si finisce per ripiegare sulla definizione artigianale: scrivo poesie. Suona più cauta.

Lo scrivere poesie certamente si riflette nella mia vita quotidiana, così come la mia vita quotidiana si riflette nelle mie poesie. È una relazione paritaria. Un’apertura verso le cose, gli eventi, affinché trasmettano i loro messaggi, i loro significati profondi. È una sorta di disposizione ed esiste in tutto quello che faccio. Potrei quasi dire che, dentro di me, mi pongo sempre come poeta. È un atteggiamento che aiuta anche a riconoscersi e quindi a esistere.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi?  Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

No, non credo esista il senso di una comunità. Succede che nella rete ricorrono gli stessi nomi, ci si riconosce. Ma questa non è comunità: è un seguirsi, a volte leggersi, ma decisamente non fare gruppo.

Poi ci sono le miriadi di collettivi di poeti, attivissimi su molteplici fronti e spesso davvero bravi a sapersi promuovere. Penso per esempio al Mep – Movimento emancipazione poesia, di cui ho fatto anche parte nel passato, o guardando oltre, ai meravigliosi Brooklyn Poets. E questo è bello: un gruppo che ti supporta per far conoscere il tuo lavoro oltre i tuoi mezzi e la tua sfacciataggine online. Certo, è difficile trovarne uno che si adatti alla tua idea di poesia: c’è chi pretende l’anonimato, chi fa solo i poetry slam, chi vuole solo i poeti nati a Brooklyn… Al momento non ne conosco nessuno adatto al mio gusto, sono difficile, ma non voglio chiudere le porte.

Riguardo al rapporto con i lettori, provo a ribaltare un po’ la questione; è difficile trovare un lettore di poesia che non sia anche poeta. Chi compra poesia, escludendo le infiorate editoriali sulle leggende del Novecento, in molti casi è la stessa persona che prova a scriverla. Detto questo, sono felicissimo quando riesco a trovare una pista per parlare di poesia, non necessariamente la mia, anche con chi non la pratica. Non è un argomento molto in voga, ma per fortuna ancora rispettato.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

Insegno lingue straniere, ma prima ancora di insegnarle sono un grande appassionato di lingue. Amo impararne di nuove di continuo, abbandonarle e proseguire con altre. Certamente l’influenza maggiore e di più lunga data l’ha avuta la lingua inglese. In particolare la poesia americana, da cui temo di aver attinto in maniera poco delicata, soprattutto in passato, pose letterarie, temi, versificazione. Ma è una tendenza che va avanti per tutte le arti da almeno un secolo sotto il nome di imperialismo culturale.

Poi sono numerose le lingue in cui mi sono imbattuto e di cui, anche con tutte le difficoltà che purtroppo esistono nel reperire testi, ho provato ad affrontare la poesia in lingua originale.

La mia ultima mania in ordine di tempo è il giapponese. Non sono mai stato un amante di quello stile, ma un viaggio in Giappone ha cambiato tutto. Quello che a noi arriva della poesia giapponese è soprattutto l’haiku, quasi esclusivamente in traduzione, spesso inserito in discutibili contesti post-new age e associato a brillantissime foto di fiori di ciliegio.

Ho scelto anch’io di appassionarmi all’haiku, innanzitutto perché è breve: non sono in grado di leggere più di 17 sillabe di giapponese. Ma è stupendo riuscire, anche in minima parte, a guardarlo e a penetrarlo da dentro. E nelle poesie che sto scrivendo in questo momento sto provando a tradurre un po’ di quelle emozioni, a mantenere quell’atteggiamento, quella densità e quella sinteticità, anche in testi di respiro più ampio.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Parallelamente alla poesia ho sempre seguito il percorso della musica. La stessa ossessione per le lingue straniere si riversa negli svariati strumenti che suono. Cordofoni perlopiù. Eppure non sono mai riuscito a fondere le due cose, per quanto possa sembrare un passaggio naturale. E come se con la musica e con la poesia cercassi sempre una profondità che difficilmente può andare d’accordo. Ci sarebbe bisogno di semplificare, da una parte o dall’altra, ma è una modalità che ancora, e lo dico con rammarico, non mi appartiene.

Per quanto riguarda le discipline scientifiche, nei testi che scrivo, salta subito all’occhio tanta botanica e zoologia. Ma parlare di scienza è un po’ troppo. Fondamentalmente, ho subìto il fascino delle nozioni elementari e condivise sulla natura, che già un paio di generazioni precedenti alla mia avevano perso. E sono nozioni che adesso magari si vanno prima a ricercare su Wikipedia (anch’io spesso parto da lì) e poi ad approfondire. Ci sono periodi in cui preferisco quasi leggere saggistica, anche scientifica, che narrativa. Ma davvero, niente di specifico: le nozioni elementari da cui poi provo a dipanare un punto di vista inedito o inusuale sulla realtà.

6. Che rapporto hai con la rima?

Direi un cattivo rapporto. Non ci parliamo, anzi non ci siamo mai parlati. Penso di aver cercato sempre di evitarla, quasi inconsciamente. Forse perché nella nostra lingua, la rima richiama subito a uno stile, che riportato alla scrittura personale non mi è mai stato congeniale.

Certo, a livello del contemporaneo, l’uso della rima sta avendo sviluppi notevoli e riconosco un potenziale superiore al club dei rimatori che a quello dei versoliberisti. Viene subito da pensare all’esordio in lingua italiana di tendenze come il poetry slam e il rap. Almeno per il momento, non è il mio stile, ma sicuramente una ricerca anche in quel senso, scevra dall’autocompiacimento di certi artifici neometrici, non può che far bene alla poesia italiana.

Nei miei testi, a volte, la rima accade, e succede che in momenti singolari può anche piacermi. 

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Rispondo bruscamente: non ci sono. Leggo molti autori giovanissimi che sanno essere anche critici molto attenti. La poesia, da noi, come nel mondo anglosassone, prende spesso ancora le mosse dal contesto accademico e chi viene da quei contesti ha strumenti molto raffinati e precisi per scrivere sulla poesia. E così si mantiene quell’opposizione arcinota, mai superata dalla nostra cultura e a cui ho già accennato, in cui la poesia contemporanea parla solo ai poeti. E temo che anche per molti di noi, considerati poeti delle nuove generazioni, tutto ciò non sia stato ancora superato.

ti prego ricordati
dei prati scoscesi
che il sole ancora batte
e accende.
Affacciata sul fiume gigante
come a uno strapiombo
i forasacchi ti infilzano il cuore:
tu lasciati prendere e far male

*

LES JOURS SE SUIVENT

non ho scritto nulla di composto
nel mezzo di quei giorni
schiccheravo qualche appunto e per il resto
mi stringevo a guardare

quando la metropolitana riemergeva dalla galleria
poco prima della nostra fermata della sera
si vedeva il cimitero alla sinistra
l’ultima notte ti indicai una croce
messa in piedi con dei tubi arrugginiti
come un segnaposto della povertà
(la tana di una volpe)
la nostra sorte era andar via
da quella morte continuamente appostata
lasciare senza mancia gli autisti
delle città sepolcrali
volare sopra la Groenlandia
a vedere i ghiacciai

i giorni si susseguono
e non si riconoscono
la prima spesa è stata la più lunga
e la più bella. I primi alberi della pentecoste
sulle acque adombrate di quel lago

Stefano Olmastroni

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