Attraversare la censura | Diario privato 2.0 con Tommaso Di Dio

A partire da lavoro inedito "Attraversare la censura" uscito su MediumPoesia, composto da 4 testi poetici di Francesco Ottonello, 4 cianotipie di Michele Milani e altrettanti video, un dialogo privato reso pubblico, da email, messaggi, note, messaggi vocali.

Francesco Ottonello: Ho appena ascoltato l’audio di Tommaso, in cui parlava di delicatezza. Questo termine un po’ mi stupisce e non mi ci ritrovo del tutto. Forse ho una certa antipatia verso questa parola, la rinnego perché vorrei censurare questa delicatezza. Sì, probabilmente c’è un’idea di qualcosa che sbiadisce e sfuma, ma io sento nei miei testi anche un impulso legato alla violenza. E penso che anche nelle tue Cianotipie, Michele, ci sia oltre a una delicatezza anche un aspetto ruvido, acerbo. Mi verrebbe in mente come titolo Attraversare la censura, perché c’è un percorso, che parte dalla necessità della dimenticanza. E la poesia per me nasce da questa dimenticanza.

Si dimentica forse per avere fissato troppo a lungo. Per un dolore acerbo. Avviene una falla nella memoria, un guasto del serbatoio. Non so se mi capirete, ma questa idea di attraversamento è per me legata anche a un’idea di censura. La censura mi fa pensare innanzi tutto ai censores romani, una carica straordinaria. Al di là di fare il censimento – contando dunque le persone, le unità familiari, abitative – erano incaricati di fare rispettare la morale pubblica. C’era molta paura per la censura che potevano esercitare. Da lì c’è poi tutta una storia di censure lungo i secoli: libri interi censurati, tematiche legate a un certo eros che per lungo tempo è stato censurato, anche in poesia (si pensi ai sonetti di Shakespeare e Michelangelo). E poi il censurato si ricollega in senso psicologico al rimosso, quindi alla dimenticanza, che per me è il primo passo per l’attraversamento. Non è solo la scrittura a essere censurata, ma è la scrittura poetica stessa che si censura, perché è un fare che ha il paradosso di una tensione all’autenticità e alla verità, ma che al contempo conserva un elemento imprescindibile di finzione.

Poi anche il concetto dell’isola mi è particolarmente caro: intendo questa percezione che noi siamo isole e le altre isole sono lontane. Al massimo può esserci una tensione verso un sogno di arcipelago, ma rimane sempre una doverosa accettazione della condizione di isola. Eppure allo stesso tempo l’isola sopravvive solo se si apre e si dilacera. Questa idea di rottura è connessa anche all’idea della rottura della memoria. Una verso di uno dei miei poeti preferiti, Harth Crane, è memory, commited to the page, had broke (la memoria, affidata alla pagina, è stata rotta). Ecco, questo lo sento particolarmente.

L’attraversamento non è una traversata che si compie una volta per tutte, ha in sé un’idea di imperfezione, di non finitezza, si riproduce in continuazione. E tutto ciò si riconnette all’acerbo. In questi testi c’è stato un lavoro per sottrazione, di rimozione e congregazione di frammenti di diversi testi ( anche da qui l’utilizzo dei trattini). Quindi il senso di perfezione e finitezza semmai lo può restituire il testo in sé, che ha una struttura chiusa, definita, come se fosse un’isola. Tuttavia, vorrei che ci potesse essere sempre anche un senso di apertura e lacerazione. Forse questo senso di delicatezza può nascere da lì? Non so, io nella ferita vedo più che altro qualcosa di cruento, anche se forse è vero, in fondo non c’è un’esibizione del sangue, del dolore, forse per questo emerge qualcosa di delicato…

Michele Milani: Provo a raccontare il mio flusso, quali suggestioni ho seguito per arrivare a questo lavoro. Per quanto riguarda il rapporto che ho con la Cianotipia, credo che questa tecnica sia interessante perché dà l’opportunità di mettere in rapporto l’antico e il contemporaneo, una tecnica nata a metà dell’Ottocento, agli albori della fotografia, che richiede molta cura, con il mondo digitale, dinamico, rapido. Questa frizione ci concede un punto di vista del contemporaneo fuori dal tempo. L’immagine oggi è consumata. Attraverso la Cianotipia possiamo dare una consistenza pittorica, fissiamo davvero i soggetti per mezzo dei liquidi fotosensibili, su una superficie, riflettiamo sui materiali. È una tecnica artistica e l’effetto che può trasmettere in più è dare pittoricità, materia, grazie al diverso rapporto che si è costretti ad instaurare con gli oggetti utilizzati e i soggetti rappresentati.

Per quanto riguarda le tensioni presenti nelle mie Cianotipie, non sono diverse da quelle che vivo quotidianamente. Nei miei lavori credo ci sia spesso un gioco di spazi. Se dovessi esprimere brevemente quello che cerco di fare, quando lavoro, direi che il mio è il tentativo di “stare dentro al dentro”, cioè di trovare una sorta di spazio sconosciuto interno alle cose, che concede l’opportunità di un respiro umido. Vorrei evitare quello che dicevi tu, ovvero di mostrare, di essere cruento. Mi piacerebbe che il respiro delle mie immagini non fosse un alito sbattuto in faccia dell’osservatore, ma un vento che entra nel corpo di chi osserva, evitando il contatto con l’esterno, che corrompe sempre. Mi immagino una conversazione diretta, un contatto tra dentro e dentro. La delicatezza sta forse in questo. Non rinuncio all’ingenuità, perché mi permette di immaginare un mondo di relazioni un po’ meno mediocri.

Il nesso tra le mie opere è questo sguardo, sono io che fisso tutto e cerco di trattare quello che vedo come se potesse supplire a un’assenza. Vorrei che tutto potesse sopperire a questa assenza che sento sempre, vorrei riuscire a introiettarmi in questi corpi con il mio sguardo. Senza farli miei, ma standoci dentro, accoccolarmici e respirare del loro respiro.

Tommaso Di Dio: Sentendo le vostre parole mi ritrovo e non mi ritrovo. Ma non è importante che io mi ritrovi. Voglio dire: è importante ascoltare, non trovarsi; è importante sporgersi verso una ricerca possibile, se questa è sincera come la vostra è, non concordare. Diciamo così: non concordo, ma mi metto in ascolto. Lo faccio perché sento un desiderio comune di cercare, di provare a guardare la scrittura (o meglio “le scritture”) attraverso una lente che non ne faccia soltanto un prodotto cieco, un prodotto meramente estetico, ma un’occasione di riflessione condivisa.

Sento quanto sia difficile oggi riattivare uno stile per riflettere intorno alla scrittura: ogni via sembra sbarrata, ogni grande strategia retorica sembra abolita. Questo è il tempo di una grande estinzione: in questo avvertiamo tutta la distanza dal Novecento delle retoriche pronte, stabilite, già coese e formalizzate. Non abbiamo più un linguaggio condiviso, non abbiamo più né le parole né gli spazi per una condivisione delle nostre scritture. E ciò proprio per paradosso: oggi lo spazio per mettere in mostra le nostre scritture abbonda più che mai, ma è spesso uno spazio “al singolare”, unidirezionale; è come se rispondesse al comando implicito “io mostro qualcosa a qualcuno”, senza che si possa realmente stabilire una connessione dialogica con chi incontri quel testo. Chi lo incontra allora non è l’altra anta di uno scrigno che con la prima dovrà, prima o poi, coincidere in una serratura, ma il destinatario di un messaggio che non avrà mai risposta: sarà perdutamente aperto nelle innumerevoli diramazioni, nelle infinite interconnessioni possibili. Proprio per questo, quello che ci rimane al di là di quanto dite, oltre cioè il piano stretto dei contenuti, mi tocca particolarmente. Mi tocca perché provate a mettere a nudo un dialogo che sembra rapito da un’intimità; è cioè colto da uno sfondo fuori scena, che nondimeno ora si dispone alla lettura comune, ma senza censurare il carattere privato in cui avviene. Un amico mi avrebbe detto: non sono parole in posa, queste. È come se nella dimensioni di iper-scena in cui ogni cosa oggi avviene, si potesse ritrovare – per paradosso – una rinnovata dimensione di intimità, in cui può nascere un dialogo sulle scritture che pratichiamo che, proprio perché non ha parole pronte, nondimeno cerca le parole per dirsi e le cerca laddove avvengono: nel mondo della vita.

Ed è allora così significativo che nelle vostre parole torni il tema della censura e che vi abbiano colpito le mie parole (sicuramente imprecise, affidate ad un messaggio vocale registrato mentre accadeva altro, ma – ora mi dico – sempre accade altro, mentre facciamo qualsiasi cosa) che facevano riferimento in merito alle vostre scritture alla parole “delicatezza”. Da un lato, mi sembra, che oggi vi sia, sempre di più, la condivisa esigenza di parlare del lavoro della scrittura: voi avete trovate, per questo, il termine “censura”. Sì, si richiama alla figura del censor: colui che doveva tenere il conto, contare i presenti, contare il numero dei vivi; dall’altro era proprio colui il quale era custode di una funzione morale. Ed è interessante: pensare che chi scrive debba avere al proprio servizio un censore, ovvero una funzione del proprio sguardo se non proprio qualcuno in carne ed ossa, che tiene il conto, sa che cosa è vivo nella scrittura e cosa no; e al contempo, monitora, salvaguarda, indica e eventualmente condanna ed espelle ciò che non rispetta il senso vivo della scrittura. Di fronte alla iper-scena contemporanea che vorrebbe che tutto fosse emerso e visibile sullo stesso piano, ecco che avvertite la necessità di “cancellare ciò che è morto”: la scrittura è frutto di questa cancellazione, è ciò che resta, che resiste. Ed è interessante perché non è una funzione esterna (non è un ente moralizzatore) ma dalle vostre parole emerge chiaramente che è una funzione della scrittura stessa. Il censore insomma è dentro la scrittura: è essa stessa, se le si accosta con ricerca sincera, che espelle il morto da sé.

Dall’altra, vi ha colpito che io vi abbia parlato di tenerezza. Perché? Questo è un retaggio post-novecentesco. L’idea che alla poesia appartenga soltanto un’espressione violenta, che mostri sempre una lacerazione, una ferita: una sofferenza acefala. Secondo me, possiamo andare oltre. Ma già la vostra ricerca, già le tue cianotipie Michele e la tua scrittura Francesco, mostrano che è possibile indagare uno spazio dell’arte dove si possa posare uno sguardo non violento. Nessuno di voi ha l’anima dell’urlo, né lo spazio incandescente della ferita slabbrata. Entrambi costringono lo spettatore, il lettore, da un ricatto: dicono ascoltami, ascoltami, dentro per forza. Mi interessa in voi questa mancanza di ricatto: voi volete che chi si accosti alle vostre scritture lo faccia davvero, tanto liberamente che non volete catturare la sua attenzione con la forza. Mi sembra questo vostro gesto delimitare un’area difficile sì, ma fertile. Sembra davvero un lucus, una radura, un’area dove sedersi, e stare insieme per un po’.

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