Henry Ariemma | Un gallone di Kerosene (Transeuropa, 2019)

Il poeta Henry Ariemma (Los Angeles, 1971) presenta 5 testi da "Un gallone di Kerosene" uscito per la casa editrice Transeuropa nel 2019

M.M. Lungo la lettura di Un gallone di Kerosene” incontriamo una scrittura priva di ammiccamenti, che non cerca alcuna compiacenza nel lettore. La prima cosa che mi ha colpito di “Un gallone di Kerosene” è il partire dal trauma della vita, dalla frustrazione dell’animo e dalla delusione: Sei venuto a casa un giorno e ci siamo promessi uno scambio. \ Erano frutti dei nostri alberi da insaccare: \ siamo usciti e una volta rientrati sono stati requisiti… \ Hanno contato per noi, quanto siamo amici….”.

Secondo te esiste una scrittura senza una delusione, senza un trauma – trauma anche come traum, forse, come sogno?

H.A. Certamente esistono innumerevoli scritture. Credo che la delusione, o la mancanza a quello che riteniamo la possibile completezza dell’essere uomo e donna declinato in felicità e al semplice e mai scontato (eticamente parlando) rispetto per chi considera e rispetta gli altri siano alla base di una scrittura che non accetta lo stato di cose o realtà – da considerare sia al passato e quindi anche sogno (perché scelta mediata di ricordi) sia al presente. La riproposizione del sogno a quanto ci succede è sempre la risposta a un mancato allineamento.

M.M. È proprio quando tutto sembra potersi riassumere nel proprio male, diciamo, quando sembra concludersi lo scavo nel suo punto massimo di dolore, di piattezza, che assistiamo alla trasformazione del verso: sembra volerci spingere altrove, verso un territorio inesplorato, estraneo a chi si vive solo la routine del quotidiano; la sintassi e il lessico mutano, come se il testo accrescesse su se stesso,  visione dopo visione – una lingua dalberi / per non sapere / […] per dire: / è luno la somma daltro […] per essere… / Quello che altri non sono”.  Credo che anche in questo libro, in fondo, sia affrontata la questione del bene e male. Secondo te ci sono due modi differenti per scrivere, cioè due lingue, una del bene e una del male, oppure si scrive sempre di entrambi, in un modo e con una lingua sola?

H.A. Certamente è affrontata la natura direi, più che la questione del bene e male che permea l’uomo nella sua interezza e non è scindibile. Allo stesso modo con la scrittura e la lingua si è all’unisono di paradiso e inferno.

M.M. Ho notato, piuttosto presenti, riferimenti al viaggio: per intendere che uno è linsieme dei luoghi in cui è stato, che ognuno è la cucitura di tutte le proprie geografie. Quali sono i luoghi poetici che ti hanno formato, hai delle tradizioni a cui sei più legato, dei maestri a cui ti riferisci?

H.A. Credo alla fine che un luogo poetico non possa esulare dal contesto in cui si vive, la poesia sa essere ovunque; certamente i viaggi ne sono un complemento come dei ponti alle nostre isole di percezione ma alla fine è il quotidiano che vince per essere percettivi al camminare nelle strade o tra una pineta e un mare o anche al parlare con chi non si conosce per il dopo chiuso ai propri riverberi. Un luogo poetico e una propria geografia inoltre credo possano intendersi anche dentro di ognuno come a una aspirazione interna e nel mio caso è come fame di grandi spazi o vastità dopo il concerto umano delle relazioni nei più angusti di strade e piazze considerati sempre dentro.

La tradizione di riferimento è quella dei giganti latini di cui siamo sempre sulle loro spalle e dalle cui lezioni si beneficia a farne proprie. Per maestri, moderni del secolo scorso e inizio del nuovo, sintesi di maestri è Luzi e per altri versi, contemporanei al nostro millennio è Fiori.

M.M. «Un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte». (Cristina Campo, da “Fiaba e mistero”). Mi sembra uno stimolo molto utile per inquadrare insieme lanimo, lintenzione del libro: se ti ritrovi in questo estratto, che cosa ci vuole ricordare “Un gallone di Kerosene”? Qui citerei alcuni versi che mi hanno fatto pensare a questo legame tra la tua scrittura con la memoria, il ricordo di un incontro originale, quello fraterno tra gli uomini, che molti hanno dimenticato: E i passi non sono loggi, / sospesi senza musiche ne libri aperti dei riti… […] / Tutto abbandona ai pensieri colmi mentre impegna / solitudini riempite vite, viziose […]. La persa armonia dei tanti al dimenticare / perpetuo non è tua amico mio”.

H.A. Sì, mi ritrovo nelle sue parole e potrei dire che se si può essere amici (con la A) allora si può essere pienamente e civilmente uomini tra gli uomini e donne in ogni contesto: familiare, sociale e anche politico perché l’essere amici presuppone e pone eticità come terreno di relazione con scambio a valore e verità.

M.M. Un gallone di Kerosene è composto da quattro sezioni: Amico”, Desinenze”, Mancati noi” e Nature”. Sono rimasto colpito da questo Tu” con cui inizi tutte i testi di Mancati noi”, che raccontano di persone differenti ognuna a che fare con un certo tipo di routine o di attività. Questa seconda persona che chiami in causa mi ha dato limpressione sì di essere un interlocutore, ma tutto richiuso su sé stesso, un pocome se fossimo al telefono e trovassimo prima la linea occupata (tu-tu-tu-tu-tu) e poi ci rispondesse una voce registrata, che non ci ascolta. Nonostante questa sensazione così straniante, ho percepito ugualmente la tua partecipazione alle fatiche del vivere, alla continua perdita di serenità che contraddistingue il nostro tempo e le vite di chi ci sta intorno. Chi sono questi “Tu” che racconti nella sezione?

Non credo che i nostri tempi fino alla presenza e parentesi del Covid -da chiudere presto per recuperare il perso in benessere generale ma accomiatando a dovere e più umanamente le nostre perdite di persone che sono obbligate a una solitudine, slegati ai propri affetti- siano stati una prerogativa di difficoltà o perdita di serenità a scapito di chi ci ha preceduto. Credo che fino ad inizio di febbraio di quest’anno si sia potuto vivere abbastanza confortevolmente rispetto anche ai decenni più vicini. Il problema (ora acuito) credo sia nella perdita dell’essere ognuno contraltare d’altri e dell’esserci rotti nel legame, nella catena che ci unisce agli altri (salvando gli eroi che si chiamano eroi proprio per questo). Ai decenni passati più vicini come dicevo, le difficoltà erano per tutti (o quasi) e ci si aiutava e ci si parlava e relazionava; oggi, i problemi nascono dal non sapersi o potersi relazionare (“anche il saluto può sminuire…”) che non sia funzionale agli interessi e mai vero scambio.

I “Tu” di cui parlo sono persone o conoscenti che non possono o vogliono aperture di amicizia (con la A) e che si incontrano in ogni ambito: da quello familiare al lavorativo, nei condomini o ad una partecipazione e che sono quasi tutti votati all’evanescenza nella comunicazione: significativamente impalpabile. Con l’uso delle proprie attività e anche hobby come diversivo ( il telefono, il cane, la macchina…) si velano distratti e distanti al fare che non sia funzionale appunto e aggiungo; purtroppo, sempre che non ci si imbatta in personalità mistificatorie e mitomani ormai in forte aumento che parlino propri narcisismi (l’Era del fake). 

M.M. Come si struttura il rapporto verso-prosa nella tua poetica?Il tuo utilizzo dellitaliano risente in qualche modo della presenza dellinglese come altra lingua?

H.A. Questo rapporto di versi e versi lunghi (polimetri) più che un rapporto verso-prosa, come accennato in precedenza, appartiene a una espressione interiore che agli strati significativi delle parole in funzione anche simbolico-ermetica affianca a completamento (quando richiesto dal dettato poetico) un più ampio spazio di descrizione ma senza perdere mai la natura e gli a capo in ogni verso.

L’ariosità del verso inglese e come da ultimi in Thomas, Auden, Strand, Walcott è presente più come necessità linguistica e di espressione che di vera e propria appartenenza nella casa della lingua.

Come parola che parla
scarna la vita stessa
avvolta ironia e bellezza:
Ti chiedo il dare
e fare per fare e dare, basta.
Una lingua d’alberi
per non sapere
composto dei giorni,
sgranato frutto
dolce al colore per dire:
-è l’uno somma d’altro
colonna di fattori, per essere…
Quello che altri non sono.

*

Con le montagne all’orizzonte
-di quel blu che confonde al cielo-
chiedi: “affacciati, guarda!…” fai leva
sulle spalle per feritoie al basilico in fiore…
Ammonisci come se ne avessi colpa:
“vedi la bandiera in fondo?…
dopo il campo di calcio,
quella della caserma che ondeggia
dietro gli alberi dove nasconde?
La vedo, dico, distratto dagli aquiloni
e sul fare dei filatori …”Allora la vedi?”, insisti.
Si, ricordo anche le fanfare per quella bandiera…
Con fare amico, dici: “nessuno ti porterà oltre
quella bandiera! Nessun padre… E ricordalo perché vero!

Per una collezione di lustri
il cuore guarda alle mancate mani
più lontano possibile…

*

I tuoi sorrisi ristoratori,
alberghieri si incontrano
vicino ai tavoli: brillano
aguzzi i rombi dentini
ma vicino casa portano
odori spregevoli e musi lunghi.
La paura alberga le stanze
vuote e i corridoi dell’anima
al sapere della visita retrobottega.
Si capisce l’improvvisare
in questa vita, ci si inventa cucinieri
in linea sottile tra cibo e rifiuto.

*

Tu sei un gaudente per l’esercito
pioniere dei volontari
senza prole. La parola più forte,
è il coro nazione in mille scuse,
sotterfugi a non rinunciare
la nulla materia.

*

Tu rimani a casa con mamma,
perché papà è venuto a mancare
e lei non può stare sola…
Un nuovo marito magari perso
profondi studi al cielo infinito,
felice rinuncia di prospettive
perché impegnato a dire:
“scusami, ma come faccio a…”

*

Il mare parla per ognuno di noi,
bagna la terra dal silenzio marinaio
su queste case stese al colore di barche
e non gonfia petto orgoglio del tutto avere,
ripetere sordo la linea che muove l’onda
grande quanto l’isola se vuoi o il mondo
fino a che si vuole avvolto:
Il profumo salmastro marca dentro
un vento spingendo figli, sguardi segnati
poco agire nelle strade vuote, insabbiate
piazze urlate eccesso. E i passi non sono l’oggi,
sospesi senza musiche ne libri aperti dei riti…
Questo dio terreno incombe masse d’acque
più vicino del buio universo le sue luci…
L’approdo sono fari, vicina terra e questo silenzio.
Tutto abbandona ai pensieri colmi mentre impegna
solitudini riempite vite, viziose per senso di possesso
bestia. La persa armonia dei tanti al dimenticare
perpetuo tutto non è tua amico mio.

*

Non mi hai dato tempo per incontrarti
sei andato con sorriso e sguardo alle parole
non dette, portando l’esempio mancato al togliere
mondo materiale, ornamento e gesto che ora ha fine.

Non mi hai dato tempo per incontrarti
sei andato con sorriso e sguardo in voce forte
senza l’aspettarti storie sbagliate, disimpegno
mancato coro parlando d’alberi, cielo e mare
ogni dove cuore al solido freddo.

Tolgo cento miei giorni a non essere
solo, a tradurmi tuoi sapienti libri,
capire se di interesse puoi parlare adesso
stessa indifferenza al dolore che mi libera.

Henry Ariemma

Henry Ariemma è nato a Los Angeles nel 1971 e vive a Roma. Suoi componimenti sono apparsi su riviste e litblog specializzati. Per Ladolfi pubblicato le raccolte di poesie Aruspice nelle viscere (2016) e Arimane (2017). Con “Un gallone di kerosene” è risultato finalista (2020) al Premio Int. Gradiva, Anterem, Carver. Prevista per il 2021 la traduzione in Inglese del libro per Gradiva Publications.

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Nouri Al Jarrah e le vaghe stelle del lutto

Per il nuovo numero della rubrica “Tra due esili” sulla poesia araba, si propone un articolo di Emanuele Bottazzi Grifoni su “Una barca per Lesbo” (L’arcolaio, 2018), del poeta siriano Nouri Al Jarrah. Traduzione di Gassid Mohammed.
Foto: Nouri Al Jarrah, Incisa Valdarno, giugno 2021 (ph. Bottazzi Grifoni).

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