Davide Paone | La patologia nelle sue diverse facies

Questo passo tratto da "Come smettere di scrivere poesia. Manuale di pronto intervento per il recupero di 12.000 infettati" (Roma, Lithos, 2011) di Francesco Muzzioli, inquadra con tagliente ironia un reale problema della poesia contemporanea: nonostante la pressoché totale esclusione dal mercato editoriale, l’allargamento dei confini del poetico è un fenomeno che ha prodotto forme e contenuti spesso al limite del paradossale, del patologico.

Come tutte le influenze anche quella poetica si prende in modo diverso a seconda dello stato, della complessione e delle eventuali predisposizioni o altre affezioni di ciascuno. Possiamo quindi enumerarne diversi tipi, secondo una casistica che è possibile disporre a ventaglio, collocando agli estremi (ma sono estremi che combaciano, però) la versione minimalista e quella oracolare.

La variante minimalista è oggi forse la maggiormente diffusa, perché si prende con grande facilità. Soprattutto dopo l’avvento della versificazione libera, non c’è che da mettersi a scrivere quel che ci è capitato, come se fosse un diario, solo andando a capo ogni tanto. L’incapacità tecnico-retorica non farà ostacolo, anzi, al contrario, sarà la dimostrazione della forza con cui il contenuto urge e vuole essere espresso, senza aspettare di imparare alcunché. Naturalmente si tratta di dare all’aneddoto vissuto una valenza assoluta, come se dovesse interessare tutti e come se ciascuno non avesse già sufficienti i propri, Il quotidiano deve essere “autentico” e quindi adeguatamente grigio e banale, ma nello stesso tempo prestarsi a fare le mosse di grande intensità. In questo caso le piccole cose e le minime percezioni di ogni giorno per quanto piccole e minime abbiano a presentarsi si gonfiano e si atteggiano al modo di illuminazioni brillanti, sfumano in nebulose suggestioni, accampano ingenti diritti, una volta messe in versi al centro del foglio. Il soggetto colpito crederà la sua “qualunquezza” comunque soccorsa da una sensibilità prontissima e sovracuta che lo conduce a una trasposizione lirica.

Tale forma minimalista prende di frequente anche i soggetti femminili. Aprendosi qui una importante e grave questione sull’essenza delle donne. Infatti, nella storia degli stessi movimenti rivendicativi dell’emancipazione, non appare chiaro se la “femminilità” vada rifiutata, in quanto consistente di ciò che il patriarcato ha lasciato e concesso alle donne come essenza di “serie B”, oppure se, inversamente, vada ripresa con orgoglio, in quanto la colpa del patriarcato sarebbe di non avere sufficientemente apprezzato quelle dimensioni. Pare che, dopo avere la fase d’urto prediletto la prima opzione, la fase di consolidamento e di guerra di posizione (quella che stiamo attraversando) punti sulla seconda. Sia come sia, certo la seconda posizione, per vari aspetti (l’attenzione al quotidiano, al piccolo, al sensibile, all’intuitivo), predispone assai all’assalto dell’agente pato-poetico, per cui si consiglia alle donne, anche quando non incinte, la massima vigilanza e accortezza di fronte all’estro versificatorio.

Ma veniamo all’altra forma, cioè alla versione oracolare. È la forma peggiore in assoluto. Qui il contagiato sale sui trampoli e pretende di vaticinare verità cui voi umani non potete arrivare e non avete mai osato pensare, in un linguaggio che promette le massime rivelazioni dell’Essere. Vedremo più vanti la questione della sacralità, annidata storicamente dentro il modo poetico. Per ora basti considerare il tono decisamente “alto” che prende la parola, fino al punto di rischiare l’oscurità. Non il nonsense, beninteso; il nonsense funziona in modo diametralmente opposto: esso, infatti, fa marameo al lettore che vorrebbe ricevere la Rispostona-super che sceglie gli enigmi – il poeta-vate, invece, lo lascia nel dubbio se sarà capace di arrampicarsi abbastanza in alto da raggiungerla. L’oscuro, per altro, si situa nel cielo dell’altezza, ma anche nella recondita profondità: una variante ulteriore della forma oracolare è anche quella (spruzzata di psicoanalisi) che pratica la poesia come discesa nell’inconscio da parte di un ben scafandrato palombaro.

In mezzo a questi estremi del “piccolo” e del “grande” si situa una grande quantità di stati e stadi intermedi. Intanto, il minimalista può molto agevolmente divenir colloquiante. Già non vi è nulla di più quotidiano dello scambio verbale. Non c’è da faticare per trovare un interlocutore cui indirizzare il proprio testo. Si potrebbe anche parlare di una variane epistolare o, forse oggi meglio, messaggistica. Il virus si instilla con gran piacere là dove la parola, poeticamente atteggiata, funziona come emissario affettivo. Che il destinatario/a risponda o meno. Anzi, meno risponde, più sfugge agli ami allocutivi, e più la “tabe” si espande su due fronti: uno quello dell’oggetto amato renitente, l’invocazione reiterandosi a tutto spiano e senza requie fino a rimanere cronica, l’altro verso gli astanti che dovrebbero ascoltare i lamenti amorosi e per ciò stesso addolcirli consolando e compartecipando (vedremo più avanti quanto classica sia questa postura). In mancanza di meglio, il “tu” viene rintracciato anche là dove mancherebbero le orecchie per ascoltare – e siamo nell’allerta dell’aggravamento, come si comprende – per esempio nel parlare alla natura, se non proprio ai muri. Si può partire per la tangente e nei casi in cui il soggetto si rivolge all’invisibile, all’imperscrutabile o al divino, perveniamo in una forma tra le più difficilmente curabili, la forma che definirei orante.

Un po’ a metà strada possiamo identificare altre due facies che sono quella umanitaria e quella mitica. La versione umanitaria lascia il personale e si muove ai confini del pubblico e della situazione storica. Lo fa, però, sollevando essenzialmente commozione. Non meno che nella sofferenza amorosa, qui ci si appella al cuore o, più esattamente, allo “strizzacordio”. Come prima tra oscurità divinatoria e nonsense giocoso, c’è da istituire qui e chiarificare la differenza rispetto alla poesia politica. Perché politica significa “dissidio”, significa che siamo in disaccordo e in conflitto su come le cose vadano fatte; mentre la poesia umanitaria tocca ciò in cui non si può non essere consenzienti, vale a dire il compianto per le vittime. Sventolando tale bandiera, vagamente ricattatoria, il soggetto suppone che tutti debbano seguirlo (che poi, anche in questi casi, dall’altra parte non ci sia nessuno è altra questione, che mi riservo di trattare nel capitoletto 5).

Andiamo avanti. C’è inoltre il poeta mitico. In questo caso ulteriore, gli affetti della sindrome seguono la concezione – oggi alquanto diffusa – che vede nella poesia un serbatoio di archetipi, di antichissimi modelli però sempre validi. Al contrario della forma minimalista, che può impiantarsi su qualsiasi brodo di coltura, mi veniva da scriver “di cultura” tanto la cultura è oggi sbrodolata, tale variante necessita di una certa capacità di sintesi. Tuttavia è vero che il mito, per sue grandi capacità metamorfiche, si ritrova in buona quantità nell’immaginario collettivo fià i suo a portata di mano. Ridisporlo con una qualche nuova formazione è ciò che la “tabe lirica” spinge a fare, aggrappandoglisi come la cozza allo scoglio e magari facendolo tornare a galla da reminiscenze scolastiche che si credevano definitivamente dimenticate. Basta un leggero incremento dell’esposizione o una accentuazione dello stato febbrile e c’è da aspettarsi che lo stadio mirico sconfini in quello oracolare che degeneri e che ne divenga alquanto problematico il recupero.

Quello che è chiaro in questa ampia casistica che potrebbe diventare ancora più ampia andando a distinguere le sfumature intermedie è l’effetto istantaneo e letale che trasforma la poesia da una pratica in una sostanza e da un fare in un essere. La poesia di per sé sarebbe una attività e quindi un fare (come dice il suo stesso etimo greco, derivante dal verbo poiein): il suo stravolgimento patologico consiste nel vedervi una sostanza, il “poetico “ in quanto tale, che assumerebbe alcuni caratteri e non altri (privatezza, espressione, interiorità, sentimento, ecc.). E, a quel punto, scoppia l’idea che la poesia esista prima ancora che sia scritta, sia un modo di essere che contraddistingue una persona il Poeta con maiuscola, spiritualmente intenso, sensitivo, errante, ai limiti della santità.

[F. Muzzioli, Come smettere di scrivere poesia. Manuale di pronto intervento per il recupero in otto giorni di 12.000 infettati, Roma, Lithos, 2011]

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