Conosco Matteo Meloni da alcuni anni, e ho seguito con regolarità lo svilupparsi della sua scrittura, che mi aveva colpito già all’inizio, quando alcuni materiali preziosi baluginavano in testi non sempre esattamente calibrati, come è inevitabile. Rispetto a quegli inizi promettenti e incerti, questa attuale silloge, La danza degli aironi, mi sembra una bella sorpresa, non del tutto imprevista. Qui, ogni cosa è al suo posto, e tutto ciò che non è strettamente necessario alla scrittura è stato tralasciato, certo non senza fatica, così come è stata ridotta al minimo l’effusione dell’io: che esiste e garantisce la verità soggettiva ed emotiva di ogni immagine, ma che non turba mai la scena con la propria presenza troppo ingombrante o esibita. Ne risulta una diffusa luminosità espressiva, una chiarezza del dettato e della rappresentazione che mi hanno fatto pensare a un commento di Contini alle poesie d’esordio di Giorgio Orelli: «silenzi soffiati, come si dice vetri soffiati». Questa associazione, spero non troppo peregrina, tra un esordio di tanti anni fa (la raccoltina di Orelli, Né bianco né viola, risale al 1944) e questo odierno, sarà stata propiziata anche da un elemento insieme tematico e simbolico, che ricorre in entrambe le esperienze: la montagna, sfondo reale o fondale di teatro di tutte queste poesie, e richiamata sin dall’epigrafe di Antonia Pozzi. Certo, tutte queste montagne corrisponderanno a dei luoghi concreti e riconoscibili: le creste che da Pasturo salgono verso le Orobiche per la Pozzi; l’alto Ticino per Orelli; le alpi piemontesi per Meloni. Eppure l’esattezza geografica è solo un punto di partenza, il segno di un’esperienza vissuta che si trasforma in altro: nel valore simbolico a cui si alludeva poco fa.
Da un’associazione letteraria a un ricordo personale: Val Pellice, qualche anno fa. Matteo mi porta con la sua auto dentro questa valle, dove non sono mai stato, salendo verso il tempio valdese di Torre Pellice. Ma a un certo punto, attraversando non so che villaggio, assistiamo sgomenti a un brutto incidente: un’Ape verdognola schizza in aria, si rovescia e si schianta al suolo, violentemente urtata da un’auto che scendeva nell’altra direzione. Ci fermiamo; l’anziano guidatore dell’Ape è steso a terra scomposto, perde sangue, si lamenta piano. Qualcuno lo soccorre, arrivano i carabinieri e l’ambulanza. E poi, ma ormai la gita si è tinta di un altro colore, proseguiamo il nostro cammino. Pochi giorni dopo Matteo mi scriverà: l’anziano è morto in ospedale, forse avrei voluto saperlo.
La montagna di Matteo Meloni è anche questo, è soprattutto questo: un incrocio complesso di paesaggio, natura e storia, incisa quest’ultima nei boschi e nelle rocce come quell’incidente è inciso nella nostra memoria. Impossibile non pensare a un altro grande, Zanzotto, al suo altipiano sovrastato da vette tragiche, camminamenti, ossari. In Meloni, nella poesia proemiale, una pernice (lo stesso animale di una poesia giovanile di Orelli, A un giovane poeta cacciatore: «pernice troppo pesa, ferita») porta l’annuncio delle neve, consegna la neve allo scadere della notte; e nella chiusa:
Allora
non più graduale la luce e il colore,
ma accecante un bagliore scioglierà
dalla cima più alta le storie
i ricordi, le minime impressioni
Come dopo un primo
respiro cristallino della terra.
«Le storie, i ricordi, le minime impressioni» che salgono dal paesaggio mescolano due livelli di coscienza umana: quello individuale, soggettivo, denso di emozioni e turbamenti; e quello collettivo, storico, secoli che si accavallano lungo i costoni, lasciando tracce. Saranno, nelle poesie che seguono, borgate come «ricordi di pietra», malghe deserte in cui sono passati innumerevoli viandanti consegnati alle ortiche, fantasmi di soldati e antiche fortificazioni spettrali, antenati preistorici, fuggiaschi del XVII secolo e raminghi contemporanei; figure umane che «Percorrono invisibili i sentieri / la traccia dei Balcani le Dinariche / per tutte le Alpi verso la Francia», come recita una delle poesie più intense. Montagna-teatro, montagna-confine, montagna-grembo e montagna-minaccia: sempre, comunque, montagna che non può limitarsi al suo dato di natura, né può tuttavia rinunciare ad esso.
Se la prima parte dei testi che compongono questa silloge pigia dunque soprattutto sul pedale della storia, alternando come soggetto degli attraversamenti alpini un «noi» corale che osserva o rammemora i molti «essi» di qui transitati lungo i millenni, più avanti affiora con maggiore evidenza lo sguardo soggettivo, il pronome «io» («Proverò a curarti in questa / dissolvenza, a ripiegare / nei minuti le garze umide»; «Ma il sole / è in me una radura un gelsomino / la memoria dell’inverno»; «Guardo spesso distratto / in città nei giorni luminosi / i picchi alti più tersi»), che trasforma sommessamente il dettato, rendendolo più intimo, più segreto, e portando con sé, verso questa dimensione di intimità privata, anche il «tu» e il «noi», ora presenze discrete e prossime nell’intrico di elementi naturali:
Anche il ruscello può essere sentiero
nell’intrico della boscaglia.
Tu forse potevi provare a seguirlo
arrivare alla polla nella terra.
Sapevi assecondare gli sbalzi
del fiume, tenere a bada
la natura cedevole dell’acqua.
L’intervento di questa dimensione più affettiva agisce anche sul linguaggio, accentuandone il tratto metamorfico, l’intersezione semantica tra i piani del discorso, quello naturale e quello umano: come il ruscello può farsi «sentiero», così la foglia dell’olmo «disinfetta la ferita», e «nasconde le cicatrici»; «dal fondo del bosco un mosaico / cuciva i contorni degli alberi / le vene di azzurro /timidezza delle chiome», mentre gli sciami di farfalle «Vanno tra le curve dove piega / la collina sulle case / un oracolo di oleandri». E a mano a mano che lo sprofondamento nel paesaggio si accentua e si precisa, appare anche uno dei motivi portanti di queste poesie, annunciato dal titolo d’assieme: gli animali dell’aria, ora stanziali, come il merlo, ora migratori, come anatre e cicogne; e, sul crinale tra i primi e i secondi, i beccafichi, capaci di alternare i lunghi voli della migrazione e quelli brevi delle boscaglie estive, e soprattutto gli enigmatici aironi, immobili lungo i corsi d’acqua e le paludi, sul «palcoscenico della caccia». Si potrebbe pensare, in ordine a questa minuta osservazione di alberi e animali e al costante, appena dissimulato parallelismo con la realtà umana, a qualche zona della poesia di Giampiero Neri, con la sua attenzione al mimetismo e al «teatro naturale» come corrispettivo muto e tremendo di quello umano.
Ma l’eventuale lezione di Neri è qui alleggerita dal suo dato tragico e inespresso: i paesaggi di Meloni non sono «inospiti», senza per questo diventare del tutto «ospitali»; restano comunque aperti a un divenire, a una forma di progetto e di speranza: senza ingenuità, poiché le foreste e le acque conservano come si è visto tutte le tracce della devastazione; ma senza neppure un’assoluta disperazione. Se in alcune poesie può prevalere l’intonazione mesta, invernale («Muta è la terra che non ha frutti / né fiori, muti sono gli orti / i cortili assolati delle campagne», o ancora: «È l’autunno che sgrava che prepara / la quercia per la neve»), in altre la cupezza si apre in luce, in fiducia, come accade in un testo molto bello:
È un altro sole che ritorna
stamattina e un grumo di calore
fa gli alberi irrequieti, spoglia
la città sotto un soprabito di polline.
E non ci sono giardini ma crescono prati
di gramigne tarassaco
margherite, risposte
luminose tra tutto quel verde.
L’opposizione tra «giardini» e «prati» corrisponde all’altra, qui accennata e ripresa con più forza nel testo successivo («Oppone la sua quiete / la cresta del Monviso»), tra città e montagna, ossia tra oggettiva condizione esistenziale e orizzonte del desiderio: «quella pigra goccia / di cielo dove non siamo». E tuttavia neppure questo contrasto è assoluto o immobile; si disegna in esso ogni tanto una prospettiva di crescita, di cambiamento:
Dovremo – mi dicevi – imparare
a sciogliere i legami,
alternare di generazione
in generazione gli affetti, mancare
al tempo come le piante
imitare per gioco
la danza degli aironi.
L’esito estremo di questa ricerca poetica si colloca forse qui, nel punto immaginario eppure non impossibile in cui tutti i fili tessuti nel corso della raccolta si riannodano e si fondono; nel sogno cioè di un’unità che sappia contenere la lunga storia umana, la più breve vicenda personale, e insieme il ritmo biologico e geologico della montagna e dei suoi elementi; un antropocene rovesciato di segno, si potrebbe dire, in cui «migreremo anche noi senza mai arrivare».
Fabio Pusterla
incipit di La danza degli aironi di Matteo Meloni
La montagna è la prima che ci insegna a durare
Antonia Pozzi
Più veloce di una nuvola arriverà
la pernice, allo scadere leggero
della notte, consegnando la neve.
Allora
non più graduale la luce e il colore,
ma accecante un bagliore scioglierà
dalla cima più alta le storie
i ricordi, le minime impressioni.
Come dopo un primo
respiro cristallino della terra.
MATTEO MELONI è nato a Roma nel 1990. Laureato in Letteratura italiana presso l’Università di Torino, da tempo vive ai piedi delle Alpi Cozie, a Pinerolo (To), dove insegna materie letterarie nei licei. Dal 2016 è membro del Circolo dei Lettori di Pinerolo e direttore artistico del festival “Pinerolo Poesia”. In questi anni ha pubblicato testi di poesia e di critica letteraria in antologie (Premio Lorenzo Cresti, Premio Mario Luzi), blog e riviste (“Atelieronline”, “Apertura Critica”, “In Limine”, “Interno Poesia”, “Inverso”, “Poesia”, “Smerilliana”, “Alma Poesia”, “francamancinelli.com”). Nel 2019 ha partecipato con alcuni inediti all’edizione di Parco Poesia (“Talenti all’opera: un’ora per amare la poesia”). Dal 2020 è dottorando presso la UNC (The University of North Carolina at Chapel Hill).
Link video
Franco Buffoni introduce il XV Quaderno.
Lettura di Matteo Meloni da La danza degli aironi.
Il XV Quaderno a RAI Radio 3 per Fahrenheit con Tommaso Giartosio.
XV Quaderno a La punta della lingua 2021 (Ancona, 12 luglio 2021) con Massimo Gezzi.
Letture dei poeti a La punta della Lingua (Ancona).
Presentazione XV Quaderno a Roma PiùLibri 06-12-21.