Partiamo da una domanda generale. L’editore Bompiani e la poesia: quale storia?
La storia della poesia in Bompiani è lunga, anche se irregolare, e comincia nei primi anni di attività della casa editrice. Fu proprio Valentino Bompiani fin dagli anni Quaranta ad aprire il catalogo a quelli che si ritenevano i maestri della poesia contemporanea, su tutti T.S. Eliot.
Nel corso dei decenni sono stati proposti grandi nomi, come Emily Dickinson, o testi poetici di autori più noti per la loro produzione in prosa: da Marguerite Yourcenar fino a Michel Houellebecq, Erica Jong e Alberto Moravia.
Oggi non si possono dimenticare i contemporanei italiani come Franco Arminio, Silvia Salvagnini, Paolo Iacuzzi, che arricchiscono il nostro catalogo, e le preziose antologie, come quella a cura di Andrea Cortellessa sui poeti della Prima guerra mondiale di recente pubblicazione.
Il genere poesia ha ormai perso la sua centralità nel panorama letterario, ma i lettori di poesia non sono estinti. Il “mestiere dell’editore” come si declina entro queste coordinate?
I criteri che guidano le nostre scelte sono gli stessi che applichiamo per la prosa: c’è sicuramente una volontà di allontanarsi dalle mode, ma soprattutto ricerchiamo “l’ineffabile qualità”, in grado di dirci che uno scritto è in qualche modo senza tempo, e dunque capace di sfidare il tempo.
Come nasce la nuova collana CapoVersi? C’è un filo rosso che intendete seguire?
Nel 2019 la casa editrice Bompiani ha festeggiato i suoi novant’anni. L’idea di una nuova collana dedicata alla scrittura in versi era già in cantiere da tempo e l’occasione ci è parsa propizia, soprattutto nell’ottica di arricchire una linea editoriale già avviata. La nostra volontà è quella di accrescere le possibilità di lettura per gli amanti della poesia, portando al pubblico italiano grandi autori poco noti o dimenticati del panorama letterario internazionale.
Si tratta di una collana dalla vocazione straniera?
Decisamente sì. Pubblicheremo una selezione della miglior poesia contemporanea in equilibrio tra gli autori di culto del Novecento e le più acclamate voci del nuovo millennio, senza pregiudizi linguistici. I volumi avranno i testi originali a fronte, in continuità con la nostra consuetudine pluridecennale con le opere in versi, dai classici dell’antichità fino a quelli moderni.
Per il momento i titoli pubblicati sono tre. Cosa potete dirci di Autoritratto entro uno specchio convesso di John Ashbery?
Anzitutto bisogna dire che i primi tre libri della collana CapoVersi sono stati pubblicati nello stesso momento e sono quindi da considerarsi tre apripista. Di Ashbery, a differenza degli altri due autori, abbiamo scelto non un’antologia ma una silloge, quella che lo consacrò come uno dei massimi poeti in lingua inglese del secolo scorso e con cui vinse, caso eccezionale, tutti e tre i maggiori premi poetici statunitensi. A suo modo, nel piccolo mondo della poesia, Autoritratto è una sorta di libro di culto e ci ha dato l’opportunità di dichiarare immediatamente che non abbiamo in mente una collana composta solo da libri antologici.
Non è tempo di essere di Vladislav Felicianovič Chodasevič e L’ultimo spegne la luce di Nicanor Parra sono gli altri due titoli in collana. Pubblicazioni antologiche, introducono nel nostro panorama editoriale due autori finora ingiustamente dimenticati. Quali riflessioni vi hanno guidato nella scelta e qual è il valore delle antologie oggi?
Per nomi poco noti, specialmente stranieri o di difficile reperibilità, ma più in generale per tutti i poeti, le antologie offrono al lettore uno sguardo complessivo sulla produzione di un autore. Consentono non solo di farsi un’idea di ciò che un poeta ha scritto nel corso degli anni, ma anche di seguirne gli sviluppi, di raffigurarselo nel corso del tempo e di metterlo in relazione alle esperienze della sua vita e del suo tempo. Permettono, inoltre, di selezionare un corpus più complesso ed esaustivo rispetto alle singole raccolte. Questo vale in particolar modo per scrittori già storicizzati, viventi o meno. E questo è il caso di Chodasevič e Parra: il primo fu uno dei grandi nomi del Secolo d’argento della poesia russa, mentre il secondo, dalla vita lunghissima, è da ritenersi una vera e propria pietra miliare della letteratura ispano-americana.
Quali indirizzi e stimoli per il futuro?
La nostra curiosità è rivolta in modo particolare alle lingue cosiddette “minori” – ammesso che si possano ancora definire così, visto quanto è mobile e ricco il panorama anche italiano delle traduzioni – e per autori grandi, ma poco noti o non ancora noti nonostante in patria siano veri e propri monumenti. Uno dei prossimi titoli sarà dedicato a Ida Vitale, uruguayana, premio Cervantes 2018, tra le massime penne in versi della letteratura in lingua spagnola e sostanzialmente inedita in Italia. Come lei ce ne sono tanti. Troppi per poterli pubblicare tutti.
Ma per voi di CapoVersi cos’è la poesia?
“Un corrimano”, per citare Wisława Szymborska.
Quali sono i vostri libri guida e (al di là delle possibilità) cosa amereste pubblicare?
Dobbiamo riconoscere come modelli alcune delle storiche collane di poesia del panorama italiano, dalla Bianca di Einaudi a quelle di Donzelli o Crocetti o – tra le scomparse – Scheiwiller, tutte caratterizzate da una curiosità vivace e scevra da qualsiasi pregiudizio geografico. Le esperienze altrui devono essere sempre tenute davanti agli occhi, come bussola e ispirazione.
Quanto a quello che ameremmo pubblicare, più che tentare una lista impossibile possiamo dire che ognuno dei tre componenti del piccolo comitato editoriale di collana ha le sue predilezioni linguistico-geografiche: Beatrice ha un gusto particolare per certe esperienze britanniche e anglofone, Paolo è appassionato di Est europeo, Gerardo ama andare a scovare (e a scavare) tra le letterature più neglette.
intervista a cura di Giulia Vielmi
Infine, vi lasciamo con tre testi in traduzione, provenienti da i primi tre libri di CapoVersi, di cui continueremo a seguire l’evoluzione. Tutti gli estratti sono stati pubblicati sul sito della casa editrice.
Iniziamo con Nicanor Parra (1914-2018), fondamentale autore cileno che nei suoi ottant’anni di scrittura ha saputo condurre agli estremi le possibilità della creatività in versi, inaugurando il genere dell’antipoesia e riuscendo a scardinare dall’interno il sistema delle lettere sudamericane grazie a una beffarda e ostinata azione corrosiva. Più volte candidato al Nobel, vincitore dei più importanti premi letterari ispanici, tra cui il Cervantes nel 2011, tradotto da Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti, amatissimo dal conterraneo Bolaño, considerato in America “essenziale come Walt Whitman”, Parra (al contrario della sorella Violeta) è ancora poco noto al pubblico italiano.
L’antologia uscita per Bompiani, L’ultimo spegne la luce, curata da Matteo Lefèvre, è la più ampia mai apparsa in Italia, e intende colmare questa lacuna.
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ULTIMO BRINDISI
Che lo vogliamo o no
Abbiamo solo tre alternative:
Il passato, il presente e il futuro.
E in realtà neanche tre
Perché come dice il filosofo
Il passato è passato
Ci appartiene soltanto nel ricordo:
Dalla rosa che è sfiorita ormai
Non si possono cogliere più petali.
Le carte da giocare
Sono soltanto due:
Il presente e il giorno del futuro
E in realtà neanche due
Perché è un fatto acquisito ormai tra noi
Che il presente non dura
Se non in quanto diventa passato
E già è alle spalle…
come la gioventù.
Alla fine dei conti
Ci resta solamente il futuro:
Io alzo il mio bicchiere
Per questo giorno che non giunge mai
Ma che è l’unica cosa
Di cui noi veramente disponiamo.
1947
John Ashbery (1927-2017) è il maggior poeta del postmodernismo americano, nonché il primo autore americano a vedere da vivo la propria opera raccolta e pubblicata dalla Library of America. Nel 1975, proprio con Autoritratto entro uno specchio convesso, che Bompiani propone nella traduzione di Damiano Abeni e con uno scritto di Harold Bloom, vinse i tre più prestigiosi premi poetici degli Stati Uniti – il Pultizer, il National Book Award e il National Book Critics Award – con un canzoniere complesso ed entusiasmante, evocativo, spesso onirico, ricco di riferimenti enciclopedici e continue reinvenzioni.
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UN UOMO DI PAROLE
Il suo caso suscita interesse
ma scarsa simpatia; è più piccolo
di quanto non sembrasse a prima vista. Che contributo
dà la prima ortica se ciò che cresce
diventa uno sketch? Tre lati conchiusi,
il quarto aperto all’erosione delle intemperie,
uscite ed entrate, gesti intesi in modo teatrale
a interrompere ripetutamente come malerbe piegate su se stesse
mentre il giardino si satura di neve?
Ah, ma si sarebbe trattato di un altro, ben altro
spettacolo, non del sapore metallico
che ho in bocca mentre distolgo lo sguardo, densità nera come polvere infume
negli angoli in cui continua lo scrivere d’erba,
Rosarossa in luoghi inusitati come la pressione
di dita su un libro chiuso di scatto all’improvviso.
Quelle intricate versioni del vero vengono
sbrogliate, i ringhiosi grovigli estirpati
e sparpagliati. Dietro la maschera
permane una comprensione continentale
del bello, che s’appalesa di rado e quando lo fa già
muore sulle ali del vento che l’ha portato sulla soglia
della parola. Racconto consunto dal raccontare.
Tutti i diari s’assomigliano, limpidi e gelidi, con
la prospettiva di un gelo interminabile. Vengono collocati
in orizzontale, paralleli alla terra,
come i morti che non ci intralciano. Giusto il tempo di rileggere
e il passato ti scivola tra le dita, augurandosi che tu sia con lui.
1975
Vladislav Chodasevič (1886-1939) è nato a Mosca nel 1886, subì inizialmente l’influsso del Simbolismo ma professò sempre un profondo culto per i classici ottocenteschi. Protagonista della grande stagione della letteratura russa di inizio Novecento, il cosiddetto “Secolo d’argento”, era il più giovane tra coloro che esordirono all’inizio del ventesimo secolo e conobbe fulgore e declino: per età apparteneva alla generazione che non ebbe il tempo di esprimersi appieno prima del 1917 e che, ammutolita dall’Ottobre e dall’emigrazione, non poté più farsi ascoltare. Considerato da Nabokov uno dei maggiori lirici russi del secolo scorso, è stato poi riscoperto dai giovani poeti degli anni settanta e definitivamente riabilitato solo con la perestrojka.
*
“NON MIA MADRE MI ALLATTÒ…”
Non mia madre mi allattò ma Eléna
Kùzina contadina di Tula. Lei
sulla stufa asciugava le fasce, col segno
di croce fugava a notte i brutti sogni.
Non sapeva fiabe né canzoni, ma
sempre aveva per me nel baule segreto,
foderato di bianca latta, un panforte
speziato o un cavalluccio di menta.
Non mi ha insegnato a dire preghiere,
pure senza riserve tutto mi ha donato:
il suo amaro sentimento materno
e ancora quanto più le era caro.
Solo quando caddi dalla finestra,
per fortuna illeso (come ricordo il giorno!),
alla chiesa di Iversk accese a pochi spicci
un cero per il miracolo insperato.
Ecco, Russia, “risonante impero”,
con le labbra mordendole i capezzoli,
ho succhiato il tormentoso diritto
di poteri amare e maledire.
Nell’onesta impresa, felice dei sacri suoni
di cui sono a ogni istante servo fedele,
mio maestro è il tuo genio taumaturgo,
nell’arena mi sfida la tua magica lingua.
E dinnanzi ai tuoi fiacchi eredi
posso a volte ancora inorgoglire
per la lingua avuta in retaggio,
che ho imparato gelosamente ad amare…
Fuggono gli anni. Al futuro non guardo,
nell’anima il passato è ormai cenere,
pure in segreto ancora vive il conforto
che anche a me sia riservato un asilo:
là dove, col cuore divorato dai vermi
che per me serba un incorrotto amore,
giace, accanto agli ospiti dello zar a Chodynka,
Eléna Kùzina, la mia nutrice.
15 febbraio 1917, 2 marzo 1922