Ocean Vuong, “Il tempo è una madre”

Si propone una nota critica di Martino Malgesini a "Il tempo è una madre" (Guanda, 2023) di Ocean Vuong

Nascere in Vietnam nel 1988 significava convivere con gli orrori della guerra più lunga del Novecento (se si eccettua il conflitto arabo-israeliano tuttora in corso), ancora ben manifesti nelle città e nei villaggi pesantemente bombardati e nelle campagne minate, in un Paese profondamente rurale, dedito alla coltivazione di riso da millenni, o nelle foreste incendiate dal napalm. In questo disordine sarebbe stato possibile imbattersi nei boat-people, la “gente-barca” tradurremmo di getto con un’espressione che ben rende la miseria, la precarietà e la degradazione quasi a oggetto dei profughi di guerra, costretti a scappare da povertà, macerie e sanguinose rese dei conti verso il mondo libero, anche se propriamente libero non è, e, soprattutto, anche se ha martoriato la tua terra.
Di tutto ciò, Ocean Vuong, giovane poeta statunitense fuggito dal Vietnam a soli due anni (nel 1990), non può che serbare poche rapide istantanee nella memoria profonda. Per il resto, la sua esperienza discorsiva e analitica del Vietnam è del tutto indiretta: tradizione familiare, memoria orale, affidata alla madre, unico punto di riferimento con l’arduo compito di spiegare al figlio gli orrori e le conseguenze di una guerra quasi impossibile da comprendere. Ed è proprio sua madre la protagonista dell’ultima raccolta poetica di Ocean (Il tempo è una madre, Time is a Mother, Guanda, 2023). O meglio, co-protagonista assieme a quel Vietnam che è terra-madre dei primissimi anni di vita, l’altrove spazio-temporale traumatico e idilliaco al tempo stesso, da contrapporre agli Stati Uniti, luogo del presente, ma anche della crescita e formazione dell’autore. Il Vietnam raccontato e denso di simboli spesso criptici di Ocean, quindi, se da un lato si contrappone all’America concreta e tangibile, dall’altro si interseca con la sua narratrice: la madre Rosa (Hông), la cui morte diviene l’anello di congiunzione delle difficili esperienze (vissute in prima persona o assorbite) dell’autore e della sua saga familiare. Compito del volume è dunque quello di indagare tale raccordo, senza retorica alcuna e, talvolta, senza gli espliciti riferimenti autobiografici che aiuterebbero l’ignaro lettore a riavvolgere il filo della vita del poeta, i cui fatti salienti si presentano come in un’ovattata dimensione onirica o in flashback paragonabili ai ricordi che emergono come un flusso di coscienza durante un transfert psicanalitico. La morte della madre diviene allora il trauma dei traumi, quello che prova, con la sua stessa oscura luce, a illuminare tutti i precedenti.
Cara Rosa (Dear Rose), la penultima poesia della raccolta e la sola che tratta distesamente tale perdita, è in tal senso emblematica del tentativo di rielaborare il lutto:

Lasciami ricominciare adesso
che te ne sei andata
se mi leggi allora sei sopravvissuta
alla tua vita e sei in questa se
mi leggi
allora il proiettile non ci conosce
ma io so mamma che non puoi
leggere il napalm caduto sulla tua

scuola a sei anni […]

 

Let me begin again now
that you’re gone Ma
if you’re reading this then you survived
your life into this one if
you’re reading this
then the bullet doesn’t know us
yet but I know Ma you can’t
read napalm fallen on your

schoolhouse at six […]

La poesia ha un andamento solo apparentemente dialogico. Nonostante la fitta rete di apostrofi alla madre (Ma), il suo cardine è l’io poetico, un io turbato, angosciato, ma che sente la necessità di sgravarsi di un peso interiore, liberandolo nella scrittura. Di qui l’assenza di qualsiasi segno di interpunzione per l’intero testo e il ritmo sincopato dato dagli enjambement, presenti in quasi tutti i versi e spesso fortissimi perché separano un aggettivo possessivo o un articolo dal nome: scelte che riproducono il flusso di coscienza dell’autore che emerge, senza filtri, sulla carta in un pensiero che da soggettivo si fa oggettivo, in maniera immediata, ma ansimando, proprio per l’incandescenza della materia trattata e dei legami affettivi coinvolti. Nella poesia di Ocean, e in questa sua ultima raccolta in particolare, traspare sempre un velo di dolore tagliente e tangibile, espresso con una sensibilità delicata e mai retorica che riesce, con un sottile incastro, ad amalgamarsi con il timbro schietto, quasi prosastico, dei suoi versi. Quanto a Rosa, da semplice interlocutrice diviene parte stessa dell’io poetico, in un rapporto di simbiosi che ricorda quello tra feto e gestante; basti rileggere il verso allora il proiettile non ci conosce dove il pronome si fa carico di questa fusione: è il Vietnam raccontato, assorbito da Vuong in maniera profonda poiché le atrocità della guerra non sono solo state esperite per interposta persona, ma sono diventate parte integrante della sua personalità di uomo adulto. Il trauma infantile della madre, a causa della fusione simbiotica, è divenuto anche il trauma infantile del figlio che, nel proteggerla un’ultima estrema volta, rincuora anche sé stesso. Sopravvivere alla guerra è stato già di per sé una prova più forte della morte: se mi leggi allora sei sopravvissuta/ alla tua vita […] ma io so mamma che non puoi/ leggere il napalm caduto sulla tua/ scuola a sei anni.
La raccolta di Vuong è dunque sia analisi non filtrata della realtà interiore, in quanto rappresentata spontaneamente con versi sincopati che rimandano al ritmo del respiro, sia terapia in grado di risollevare il poeta dopo aver dato forma e consapevolezza a un pullulare di eventi esterni densi di riflessi psichici non sempre di facile decodifica, come testimoniato dai versi conclusivi di Lavorare il legno alla fine del mondo (Woodworking at the End of the World):

Tremante, mi sono volto verso di lui. Mi sono volto
& ho trovato, spiegazzata sull’erba, la camicia rossa scolorita.

Me la sono messa sulla faccia & sono rimasto immobile – come
mia madre alla fine.

Poi mi è risovvenuta la mia vita. Mi sono ricordato la mia vita
come un manico d’ascia, a metà fendente, ricorda l’albero.

& mi ritrovai libero.

 

Shaking, I turned to him. I turned
& found, crumpled on the grass, the faded red shirt.

I put it over my face & stayed very still – like
my mother at the end.

Then it came to me, my life. I remembered my life
the way an ax handle, mid-swing, remember the tree.

& I was free.

La poesia conclude la raccolta con una sorta di lieto fine, una liberazione interiore giunta inaspettata in un altrove lontano e indefinito, “alla fine del mondo”; data la presenza di foreste e villaggi potremmo pensare a un Vietnam interiore. Ed è proprio l’albero che rigenera e dà l’ossigeno indispensabile al connubio ciclico di inspirazione-espirazione su cui si regge la vita, sancito sul piano fonico dalle ripetizioni lessicali, a giocare un ruolo chiave nel testo: l’albero è sia solidità, ricerca delle radici, sia legame infranto, spezzato. Se le radici vietnamite, materne, da un lato inchiodano il poeta a una simbiosi ineluttabile con la madre e il suo vissuto di dolore, dall’altro danno sicurezza. Il poeta sceglie di reciderle, ma senza dimenticarle; si tratta di un superamento e non di un annientamento: Mi sono ricordato la mia vita/ come un manico d’ascia, a metà fendente, ricorda l’albero. La morte della madre ha potuto spezzare la simbiosi, la quasi identificazione di Ocean con lei, a patto tuttavia che essa rimanga come un dolce ricordo. La camicia rossa scolorita è il sudario non solo di Rosa, ma anche di suo figlio, che inscena rapidamente la sua morte, per morire con lei, in un ultimo atto del rapporto simbiotico, e rinascere come individuo autonomo: Me la sono messa sulla faccia & sono rimasto immobile – come/ mia madre alla fine./ Poi mi è risovvenuta la mia vita. Per Ocean, figlio di una ragazza madre, Rosa era tutto. Condannato a non conoscere i tormenti edipici in assenza di un padre con cui confrontarsi, può portare a compimento la sua iniziazione alla vita solo disidentificandosi dalla figura materna.
Questa possibile chiave di lettura non esaurisce la vastità del percorso autobiografico de Il tempo è una madre e tuttavia la orienta, informandola di sé. Un possibile parallelo può essere rinvenuto nel poemetto Kaddish di Ginsberg, autore che ha ispirato un considerevole numero di poeti statunitensi contemporanei. Anche in quel caso, a dominare la scena è la madre recentemente scomparsa della cui vita sono ripercorsi aneddoti, persino imbarazzanti, e tappe principali. I richiami alla tradizione beat evidenti nello stile e nei contenuti, ad esempio in Nemmeno (Not Even), componimento di parecchi versi epigrammatici sconnessi tra loro che ricorda da vicino i Cosmopolitan Greetings di Ginsberg, non escludono sperimentalismi formali e semantici originali, come in Cronologia Amazon di una ex manicurista (Amazon History of a Former Nail Salon Worker), toccante sintesi degli ultimi due anni di vita di una malata terminale mediante il riepilogo dei suoi acquisti online, in una climax che discende rapidamente fino a risolversi nel lutto:

Apr.
Foulard di cotone Chemo-Glem, stampato a fiori
T-shirt “Mamma Guerriera” per la prevenzione del tumore
al seno, rosa e bianca

Mag.
Busto rigido per supporto lombare Mueller 255

Giu.
Cartolina di buon compleanno “Figlio mio, saremo sempre
insieme”, con immagine di Snoopy

Lug.
Urna Eternity in alluminio, con incisione di Rosa e Colomba,
piccola […]

 

Apr.
Chemo-Glam cotton scarf, flower garden print
‘Warrior Mom’ Breast Cancer awareness T-shirt,
pink and white

May.
Mueller 255 Lombar Support Back Brace

Jun.
Birthday Card –‘Son, We Will Always Be Togerher’, Snoopy
design

Jul.
Eternity Aluminium Urn, Dove and Rose engraved, small […]

La tendenza alla paratassi e alla frase nominale che domina l’intera raccolta viene qui estremizzata nell’elenco, così come radicali sono gli scavi semantici: la parola che, già di per sé in Vuong è incisiva e prosastica, in questo componimento è addirittura impoetica, nome proprio di merce. Ritroviamo anche un altro tratto dello stile di Ocean, ossia il ricorso all’enjambement, che ben si armonizza con il verso breve e lapidario che pure predilige. Nel millennio di Internet, della globalizzazione, della società liquida, della spersonalizzazione alienante delle relazioni quotidiane ad opera degli strumenti tecnologici e dei nuovi stili di consumo, Vuong ci propone una poesia che sia scavo nella complessità del presente al fine di ritrovare ciò che è atavico e intrinsecamente umano, ovvero il legame affettivo, a partire da quello alla base di tutti gli altri, quello tra una mamma e il suo bambino; a tal proposito: in poesie come questa è la voce di un uomo senza figli a parlarci della maternità, aprendoci così spiragli di indagine sulla decostruzione delle tradizionali dicotomie di genere.
Il tempo è una madre è la testimonianza di una parola che scandaglia i labirinti interiori dell’uomo Ocean, a partire dalla forza del ricordo, che si esplica in immagini semplici, lapidarie, prosastiche, senza mai perdere la cifra del sublime e della delicatezza, ma è anche un’ulteriore prova della vitalità della poesia in tempi confusi come questi, nonché del suo ruolo soteriologico, che ben si esplica nella sua capacità di scavare nel vissuto di ognuno per raccontare i tormenti dell’uomo, le sue paure e il suo coraggio, sentimenti eterni, oggi nascosti, quasi eclissati dalle mille sirene postmoderne. Alla parola umile ma sincera, dunque, spetta il compito di inabissarsi nelle filigrane più rudimentali e al contempo più affascinanti dello spirito.

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