Hart Crane tra Eros e Thanatos | Traduzioni a cura di Simone Maria Bonin

Harold Hart Crane nacque il 21 luglio 1899 a Gerrettsville, in Ohio e morì in mare nel 1932 gettandosi dalla nave S.S. Orizaba tra Vera Cruz e New York. Oggi è riconosciuto come uno dei poeti americani più influenti della sua generazione. Presentiamo, nelle traduzioni di Simone Maria Bonin, quattro testi del poeta con testo in lingua originale, dal volume Atlantide: Poesie, Prose e Corrispondenze di Hart Crane (Thauma Edizioni, 2014)

EPISODIO DI MANI

Un interesse inatteso lo fece arrossire.
D’improvviso parve dimenticare il dolore,
Fece un cenno e protese
Un dito dopo l’altro.

Sanguinava il taglio e un lampo di sole,
risplendente fra le ruote,
cadde dolce e tiepido nello squarcio.

E mentre le dita del figlio del padrone,
abituate ai libri e al tennis
così come al ferro e alla pelle,
e mentre le dita libere e tese avvolgevano le garze
attorno al rosso vivo della carne,
le sue stesse mani gli parvero
ali di farfalle in fremito
alla luce del sole fra i campi d’estate.

La mano solcata d’intarsi e venature,
Stretta nella sua, parve bella.
Erano come le impronte d’un gioco
                                                     tra piccoli cavalli selvaggi,
Chiazze di nuovo smeraldo a rompere
                                                     il manto duro dei prati:

La frenetica vita della fabbrica
Scomparve nel silenzio della mano
che teneva stretta nel palmo con il sole
                                                     a illuminarne il dorso.

E come le garze vennero ravvolte
I due si sorrisero.   

 

EPISODE OF HANDS

The unexpected interest made him flush.
Suddenly he seemed to forget the pain,–
Consented, — and held out
One finger from the others.

The gash was bleeding, and a shaft of sun
That glittered in and out among the wheels,
Fell lightly, warmly, down into the wound.

And as the fingers of the factory owner’s son,
That knew a grip for books and tennis
As well as one for iron and leather,–
As his taut, spare fingers wound the gauze
Around the thick bed of the wound,
His own hands seemed to him
Like wings of butterflies
Flickering in sunlight over summer fields.

The knots and notches,– many in the wide
Deep hand that lay in his,– seemed beautiful.
They were like the marks of wild ponies’ play, —
Bunches of new green breaking a hard turf.

And factory sounds and factory thoughts
Were banished from him by that larger, quiet hand
That lay in his with the sun upon it.
And as the bandage knot was tightened
The two men smiled into each other’s eyes.

*

INDIANA

“Mi spiace che questa sezione non sia ancora terminata. Sarà il monologo di un agricoltore dell’Indiana intorno al 1860. La corsa all’oro non gli è andata a buon fine ed è ritornato a dissodare il suolo. Il suo monologo è un addio al figlio che sta partendo per una vita in mare. È un riassunto lirico del periodo della conquista, e sua moglie, la madre che morì sulla via del ritorno dalla corsa all’oro, è presentata in un modo che la rende prossima al simbolismo-natura di Pocahontas. Ho questa sezione quasi pronta, ma non ha senso includerla nel presente manoscritto senza le parole definitive.”

La campanula, districandosi dolce al mattino
Col suo esile fusto, si schiude fra travi e colonne e riavvolge
Il canto, chiudendosi all’annuncio del crepuscolo
Così com’io ho fatto…

E un tuono bisonte a uccidermi i sogni, ragazzo,
come quando mi dilaniasti il grembo e mandasti
i tuoi primi vagiti nelle vaste pianure e tuo padre
sapeva, sapeva tutto

e sebbene ce lo lasciammo alle spalle, sepolto lontano
sul sentiero dell’oro, venne il tempo in cui le sue ossa parlarono…
ma tu che abbandoni la falce per prendere il remo
non sapevi ragazzo, né a te giungeva suono.

E come noi, Prodigo, partimmo ugualmente un tempo,
salutando Seminary Hill con voce allegra
Noi trovammo Dio sfarzoso in Colorado
Ma subdolo era.

Le pietre cantarono, una lince balzò improvvisa
E scintillando  fra un dolce rigagnolo d’acqua,
In sillabe d’oro liberate dal fango, giunse
splendente il suo nome.

Uno sogno chiamato Eldorado ne era dimora,
cresceva ansimando sul sentiero dell’oro
e senza licenza ma solo una corona promessa
di pretese future in dono.

E noi, presto o tardi che fosse, non ci cavammo
un soldo dal 59 – stupidi anni –
se non dorate promesse, che andarono infrante
e lacrime tante e secche…

E fu lungo il ritorno! Mi rannicchiai all’ombra
d’un carro, guardai fuori d’un tratto e vidi,
piegata a occidente, e senza più casa, su un cavallo
malconcio, una giovane indiana

può darsi meticcia. Sulla pancia sfibrata portava
il corpo di un bimbo, e senza redini andava.
I suoi occhi, strano per un indiano, non erano neri
ma pieni d’un dolore acceso

e come stelle gemelle stavano. Parevano sfuggire lo sguardo
dei nostri uomini cheti – la lunga linea del gruppo –
finché gli occhi a me volse – quando una nebbia violacea
piena d’amore vi esplose…

D’istinto ti alzai – io, d’improvviso la più prode, sapendo
che le sole parole non c’avrebbero potuto avvicinare.
Fece un breve cenno – e quel sorriso tra le sue spalle
lo ricorderò sempre

Almeno finché sarà viva la memoria di tuo padre, Jim.
E sì, Larry, ore te ne andrai in mare, ma ricorda
sei stato il primo – prima di Ned e di questa fattoria,
il nostro primo figlio, ricorda

E da allora – sei l’unica cosa che mi resta di Jim,
la cui famiglia, come la mia, saltò fuori da Arrowhead.
E l’unico con gli occhi come i suoi
Stirpe del Kentucky!

Ora me ne sto sola, vecchia ormai e quasi pietra!
O tienimi stretta nell’azzurro dei tuoi occhi;
Lì è dove gli anni ostinati scintillano e fanno ammenda
Dove l’oro è privo di menzogna!

E giù in strada, a luce fioca, fino alle rive del torrente –
Forse sentirò gli zoccoli della cavalla guadare il ponte…
Scrivimi da Rio … so che terrai fede
alla promessa  – ti conosco!

Torna a casa in Indiana! – Non è tardi, sai?
(O vuoi restare un vagabondo fino alla fine?)
Addio… Addio… ti aspetterò sempre
Larry, navigante –
                  straniero,
                                  figlio,
                                              – amico mio –

N.d.T. Nella versione definitive del Ponte i ruoli sono invertiti; il monologo è della madre e il padre è morto sulla via del ritorno.

INDIANA

The morning glory, climbing the morning long
Over the lintel on its wiry vine,
Closes before the dusk, furls in its song
As I close mine …

And bison thunder rends my dreams no more
As once my womb was torn, my boy, when you
Yielded your first cry at the prairie’s door …
Your father knew

Then, though we’d buried him behind us, far
Back on the gold trail — then his lost bones stirred …
But you who drop the scythe to grasp the oar
Knew not, nor heard

How we, too, Prodigal, once rode off, too —
Waved Seminary Hill a gay good-bye …
We found God lavish there in Colorado
But passing sly.

The pebbles sang, the firecat slunk away
And glistening through the sluggard freshets came
In golden syllables loosed from the clay
His gleaming name.

A dream called Eldorado was his town,
It rose up shambling in the nuggets’ wake,
It had no charter but a promised crown
Of claims to stake.

But we, — too late, too early, howsoever —
Won nothing out of fifty-nine — those years —
But gilded promise, yielded to us never,
And barren tears …

The long trail back! I huddled in the shade
Of wagon-tenting looked out once and saw
Bent westward, passing on a stumbling jade
A homeless squaw —

Perhaps a halfbreed. On her slender back
She cradled a babe’s body, riding without rein.
Her eyes, strange for an Indian’s, were not black
But sharp with pain

And like twin stars. They seemed to shun the gaze
Of all our silent men — the long team line —
Until she saw me — when their violet haze
Lit with love shine …

I held you up — I suddenly the bolder,
Knew that mere words could not have brought us nearer
She nodded — and that smile across her shoulder
Will still endear her

As long as Jim, your father’s memory, is warm.
Yes, Larry, now you’re going to sea, remember
You were the first — before Ned and this farm, —
First-born, remember —

And since then — all that’s left to me of Jim

Whose folks, like mine, came out of Arrowhead.
And you’re the only one with eyes like him —
Kentucky bred!

I’m standing still, I’m old, I’m half of stone!
Oh, hold me in those eyes’ engaging blue;
There’s where the stubborn years gleam and atone, —
Where gold is true!

Down the dim turnpike to the river’s edge —
Perhaps I’ll hear the mare’s hoofs to the ford …
Write me from Rio … and you’ll keep your pledge;
I know your word!

Come back to Indiana — not too late!
(Or will you be a ranger to the end?)
Good-bye … Good-bye … oh, I shall always wait

You, Larry, traveller —
                                 stranger,
                                              son,
                                                   — my friend —

*

CUTTY SARK

“La sezione che segue, “Cutty Sark”, è una fantasia sul periodo dei balenieri e dei clipper. Comincia nel presente e “procede all’indietro”. La forma della poesia potrebbe sembrare erratica, ma vuole presentare le allucinazioni che seguono le bevute di rum in una bettola di South Street, così come lo sbandare di una nave sull’oceano in tempesta, etc. Mi sono permesso perciò qualche grado della stessa libertà che E. E. Cummings usa spesso.”

O le antiche navi di quercia
E non più, Temerario, basta!

Herman Melville

Conobbi un uomo in South Street ed era alto –
Un dente nervoso di squalo gli pendeva
Dal collo. Aveva gli occhi fissi sul prato
E verdi gli occhiali o le luci del bar li rendevano
Tali –
                 Brillanti-
                                        VERDI-
                                                             Occhi-
Corse fuori, si dimenticò di guardarti
O ti lasciò un paio di isolati oltre

Mise Le notti di Istanbul
Sulla pianola a gettoni, fregando il nichelino a qualcuno, 
E cantava:
                 O rosa Bisanzio – i sogni ti intessono!

Sussurrò di cetacei infernali e l’alcol
Era come Platone sul collo

“È il piroscafo Ala-Anversa, ricorda ragazzo
Di mettermi fuori alle tre, quella non salpa in ritardo manco una volta.
Non sono più bravo col tempo e sai faccio
Turni di notte a occhi aperti e a volte crollo dal sonno!” – le sue mani
Tutte pelle ed ossa cominciarono a battere il ritmo –  “Baleniere son stato
Devo tenere il tempo e vincerlo, sono un
Democratico, so che ore sono sì, no
Non voglio saperlo, quel cacchio
Di Artico bianco mi ha assassinato il ritmo…”

                 O Rosa di Istanbul – ordito di cembalo –

“Manovravo argani a vapore nel sud, sul Canale
Di Panama, non ne potevo più,
e poi nello Yucatan a vendere arnesi da cucina, perline,
hai visto mica il Popocatepetl, cima senza vita
con ceneri che cadono disperse?
E ancora la costa poi…”

                 O Rosa di Istanbul Regina corallo
                 Rovine sfottute di metropoli d’ossa,
                 e gallerie coperte di magma imploso nell’acqua
                 sputando la pietra, verde, grancassa, annegano
Canta!
“Spiraglio maledetto!” e di colpo sparò un dito fuori dalla porta…
“La vita è un vulcano, stupenda, i miei polmoni,
no, non posso vivere sulla terraferma!”
Ho visto frontiere di luce nella sua mente;
oppure vi sono confini, sabbie che corrono a volte
sabbie fluenti, da qualche parte, sabbie che corrono forte…

O che diano l’avvio al canto di macchine bianche
Così che tu possa ridere e danzare sull’asse motore
e metallo, argento puro, e scalcia ogni traccia, apprendi

                 O ROSA D’ATLANTIDE i cembali s’intessono al fiore,
                 la stella fluttua in fiamme in un golfo di lacrime
                 e ancora un migliaio sepolte a riposo

                                                                 interminabilmente
da tempo l’ultimo nichelino – ha smesso –
di suonare –

Un vento scuoteva i risvolti di vimini, migrazioni
D’estate a più gelidi inferni…
E fuori un carretto quasi lo tirò sotto, ancheggiando
si spostò verso Bowery Street mentre l’alba
Si fotteva la Statua della Libertà – quella
Sua torcia sapete –

Presi la via del Ponte per tornamene a casa

***

Dolci vanità degli Yankee, spiritelli turriti, e svolazzi Britannici
                                                                                                 In aria, selvagge
Ed abili ragazze-sirene
Sbocciate a primavera – intrecciate e rialzate
Le vele brillanti portate dagli Elisei

                 O dolce è l’oppio e il tè, Yo-ho!
                 Un penni alle focene che inclinano in virata!
                 Le pinne che frustano le brezze del Giappone!

Lucenti vele leggere a miriadi sull’Equatore, sgranano le palpebre
Attorno a Capo Horn,
fino a Frisco, Melbourne…
                                                 Parabole, fulgidi pennacchi,
sogni di clipper indelebili e moti perenni,
bianchi baronali su splendidi celesti!

                 Perenne – Cutty – Trionfante – Sark!

Thermopylæ, Black Prince, Flying Cloud attraerso la Sonda,
Avvolti da schiume, i loro ventri virano verdi pianure,
racchiuse negli umori dei venti, correvano a scontrarsi nel Sole;

                 E rinfrescante bebida sull’Isola di
                 Giava (E dolce l’oppio e il tè!)
                 Virarono lasciandoci sottovento…

E le corde in tempesta (91 giorni, 20 ore e l’ancora a mare!)
                                                                 Leandro, Rainbow,
(tragedia fu l’ultimo viaggio) – dove puoi essere
Nimbus? E i tuoi due rivali –

Presi in un lungo bordeggio –
                                                    Teaping?
                                                    Ariel?

CUTTY SARK

I met a man in South Street, tall—
a nervous shark tooth swung on his chain.  
His eyes pressed through green glass  
—green glasses, or bar lights made them  
so—
      shine—
                GREEN—
                           eyes—
stepped out—forgot to look at you
or left you several blocks away—

in the nickel-in-the-slot piano jogged
“Stamboul Nights”—weaving somebody’s nickel—sang—

      O Stamboul Rose—dreams weave the rose!

            Murmurs of Leviathan he spoke,  
            and rum was Plato in our heads . . .

“It’s S.S. Ala—Antwerp—now remember kid  
to put me out at three she sails on time.  
I’m not much good at time any more keep
weakeyed watches sometimes snooze—” his bony hands  
got to beating time . . . “A whaler once—
I ought to keep time and get over it—I’m a  
Democrat—I know what time it is—No  
I don’t want to know what time it is—that  
damned white Arctic killed my time . . . ”

      O Stamboul Rose—drums weave—

“I ran a donkey engine down there on the Canal  
in Panama—got tired of that—
then Yucatan selling kitchenware—beads—
have you seen Popocatepetl—birdless mouth  
with ashes sifting down—?
                                          and then the coast again . . . ”

      Rose of Stamboul O coral Queen—
      teased remnants of the skeletons of cities—
      and galleries, galleries of watergutted lava  
      snarling stone—green—drums—drown—
Sing
!
“—that spiracle!” he shot a finger out the door . . .  
“O life’s a geyser—beautiful—my lungs—
No—I can’t live on land—!”

I saw the frontiers gleaming of his mind;
or are there frontiers—running sands sometimes  
running sands—somewhere—sands running . . .
Or they may start some white machine that sings.  
Then you may laugh and dance the axletree—
steel—silver—kick the traces—and know—

      ATLANTIS ROSE drums wreathe the rose,  
      the star floats burning in a gulf of tears  
      and sleep another thousand—

                                              interminably
long since somebody’s nickel—stopped—
playing—

A wind worried those wicker-neat lapels, the  
swinging summer entrances to cooler hells . . .  
Outside a wharf truck nearly ran him down  
—he lunged up Bowery way while the dawn
was putting the Statue of Liberty out—that  
torch of hers you know—

I started walking home across the Bridge . . .

*** 

Blithe Yankee vanities, turreted sprites, winged
                                           British repartees, skil-        
ful savage sea-girls           
that bloomed in the spring—Heave, weave
those bright designs the trade winds drive . . .

      Sweet opium and tea, Yo-ho!
      Pennies for porpoises that bank the keel!  
      Fins whip the breeze around Japan!

Bright skysails ticketing the Line, wink round the Horn  
to Frisco, Melbourne . . .
                                       Pennants, parabolas—
clipper dreams indelible and ranging,  
baronial white on lucky blue!

      Perennial-Cutty-trophied-Sark!

Thermopylae, Black Prince, Flying Cloud through Sunda  
—scarfed of foam, their bellies veered green esplanades,  
locked in wind-humors, ran their eastings down;

      at Java Head freshened the nip  
      (sweet opium and tea!)
      and turned and left us on the lee . . .

Buntlines tusseling (91 days, 20 hours and anchored!)  
                                                    Rainbow, Leander
(last trip a tragedy)—where can you be
Nimbus? and you rivals two—

            a long tack keeping—
                                           Taeping?  
                                          Ariel?

*

ETERNITÀ

September – Remember!
October – all over.

Proverbio delle Barbados

Placata la tempesta, pure se il vento soffiava minaccioso,
La vecchia donna ed io rovistammo in giro alla ricerca di qualche vestito che non fosse fradicio
E lasciammo la casa o ciò che n’era rimasto;
Intere parti del tetto, suppongo, devono aver raggiunto lo Yucatan.
E anche allora lei venne quasi trascinata tra i mucchi di macerie
ai piedi della montagna. Ma la città, quale massacro!

Fili e cavi in ogni strada e cinesi tutto attorno
con braccia fasciate a tracolla e gesso addensato di piastrelle,
e dottori dell’isola di Cuba, soldati e camion e polli che impazzavano…
l’unico edificio che non se ne stava in ginocchio era
il Fernandez Hotel e venne requisito e trasformato in un dormitorio
per i negri del cotone, che, ravvolti e pronti per essere trasportati a l’Havana con
la prima barca del mattino, piangevano.

E c’era forse una barca pronta al porto? Vicino al pontile
si scorgevano solo due moli pressati l’uno contro l’altro,
separati per una ventina di metri, e un fumaiolo alto
e secco vicino al prato dove un pavone irrequieto rovistava
fra cumuli di latte. Nessuno sembrava riuscite ad acchiappare
una scintilla dal mondo lì fuori ma c’erano voci che l’Havana,
per non menzionare Batabanò, fosse quasi ricoperta d’acqua,
con incendi divampati da qualche ora – anche lì
nessuna linea del telefono che stesse in piedi.

                                          Tornati alla dimora d’un tempo,
ci mettemmo a scavare e a sudare; guardammo l’orco sole
gonfiare le montagne, spogliate ora, prive
di palme e d’ogni cosa  – e leccare l’erba, nera come pelle verniciata,
che il vento bianco di brina aveva velato.
Tutto perduto – o disseminato d’una grazia confusa –
immense radici tropicali  svettavano in aria , come fiocchi.
Il mulo di qualcuno respirava denso, e s’accasciava vicino alla pompa.
Buon Dio! Come se la sua carcassa che affogava fosse Morte
annunciata da tempo! Dovevamo tapparci il naso per strada
implorare l’avvento delle poiane e degli avvoltoi…
e il mulo vacillò e cadde. Non riuscivo a muovere un passo e sollevare un bastone
per pietà del suo stupore.

                                          E ancora
ricordo la strana gratuità dei cavalli
– uno era il nostro, e uno d’uno straniero, che procedevano in compagnia del mattino,
emergendo da coltri di bambù attraverso luci riflesse che gridavano
quando spirava la tempesta. E Sarah li vide entrambi –
e pianse. Sì, ora, è quasi la fine. Sanno bene questi, non gli sfugge niente;
il tempo è nei loro musi. C’è Don – e poi quell’altro, bianco –
non riesco nemmeno a renderne conto! E vero, corporeo, stette
come un vasto fantasma con una criniera di notte di memoria
di pioggia e rumore – Eternità!

                                                        E acqua ancora, altra acqua!
Spinsi il mulo stordito verso la strada. Non giunse molto lontano
e cadde morto, ma non importava molto.
L’alba del mattino era densa con nubi di carogne
che scorrevano ovunque. I corpi vennero gettati dentro le tombe
senza sacramento, mentre arnesi e martelli battevano da ogni parte.
La strade erano già tutte sgombre, i feriti
ricoverati e fasciati a dovere, almeno così ci venne detto. In poco tempo
il Presidente da l’Havana inviò un barcone da guerra che sfornò
venendo verso l’isola qualcosa come duemila pagnotte.
E dottori s’involarono dal ponte della nave in aeroplani.
A tutti fu misurata la febbre. E io me ne stetti moltissimo
al Mack a parlare di New York coi marinai, e di Guantanamo, Norfolk,
a bere Bacardi e parlare degli U.S.A.

ETERNITY

September – Remember!
October – all over.

Barbadian Adage

After it was over, though still gusting balefully,
The old woman and I foraged some drier clothes
And left the house, or what was left of it;
Parts of the roof reached Yucatan, I suppose.
She almost – even then – got blown across lots
At the base of the mountain. But the town, the town!

Wires in the streets and Chinamen up and down
With arms in slings, plaster strewn dense with tiles,
And Cuban doctors, troopers, trucks, loose hens…
The only building not sagging on its knees,
Fernandez’ Hotel, was requisitioned into pens
For cotted Negroes, bandaged to be taken
To Havana on the first boat through. They groaned.

But was there a boat? By the wharf’s old site you saw
Two decks unsandwiched, split sixty feet apart
And a funnel high and dry up near the park
Where a frantic peacock rummaged amid heaped cans.
No one seemed to be able to get a spark
From the world outside, but some rumor blew
That Havana, not to mention poor Batabano,
Was halfway under water with fires
For some hours since – all wireless down
Of course, there too.

                                 Back at the erstwhile house
We shoveled and sweated; watched the ogre sun
Blister the mountain, stripped now, bare of palm,
Everything – and like the grass as black as patent
Leather, which the rimed white wind had glazed.
Everything gone – or strewn in riddled grace –
Long tropic roots high in the air, like lace.
And somebody’s mule steamed, swaying right by the pump,
Good God! as though his sinking carcass there
Were death predestined! You held your nose already
along the roads, begging for buzzards, vultures…
The mule stumbled, staggered. I somehow couldn’t budge
To lift a stick for pity of his stupor.

                                                                 For I
Remember still that strange gratuity of horses
– One ours, and one a stranger, creeping up with dawn
Out of the bamboo brake through howling sheeted light
When the storm was dying. And Sarah saw them, too –
Sobbed. Yes, now – it’s almost over. For they know;
The weather’s in their noses. There’s Don – but that one, white
– I can’t account for him! And true, he stood
Like a vast phantom maned by all that memoried night
Of screaming rain – Eternity!

                                                      Yet water, water!
I beat the dazed mule toward the road. He got that far
And fell dead or dying, but it didn’t so much matter.
The morrow’s dawn was dense with carrion hazes
Sliding everywhere. Bodies were rushed into graves
Without ceremony, while hammers pattered in town.
The roads were being cleared, injured brought in
And treated, it seemed. In due time
The President sent down a battleship that baked
Something like two thousand loaves on the way.
Doctors shot ahead from the deck of planes.
The fever was checked. I stood a long time in Mack’s talking
New York with the gobs, Guantanamo, Norfolk, –
Drinking Bacardi and talking U.S.A.

testi di: H. Hart Crane

traduzione: Simone Maria Bonin

NOTE

Episodio di Mani:
Poesia giovanile edita postuma.
Il padre di Crane era proprietario di una fabbrica di dolciumi.

Indiana:
Nel periodo che intercorre tra la lettera del 1927 ad Otto Kahn, mecenate che lo finanzia  durante gli anni di composizione di The Bridge, e la pubblicazione del volume nel 1930,  Crane tronca bruscamente i rapporti con la madre, fino ad allora suo punto di riferimento all’interno della famiglia. Nello stesso periodo, i ruoli di madre e padre nella poesia ”Indiana” vengono rovesciati.

Cutty Sark:
Il Cutty Sark è un clipper britannico costruito in Scozia nel 1869. Indica altresì una nota marca di whisky fondata nel 1923.

In Cutty Sark il tema dell’Eternità atlantidea è trasmutato nella voce di una pianola a gettoni che introduce la canzone Stamboul Nights. La canzone è intervallata dai discorsi errativi di un marinaio ubriaco. 

Oltre ai richiami simbolici, Crane fa riferimento a un musical di Brodway prodotto dagli Schuberts nel 1922, intitolato Rose of Stamboul, di importazione viennese (Die Rose von Stamboul)

I nomi propri in corsivo (Leandro,  Rainbow, Nimbus, etc…) indicano imbarcazioni a vela.

Eternità:

La poesia ripercorre gli eventi che seguono il disastroso impatto di un uragano sulla cittadina di Nueva Gerona, nell’Isla de la Juventud (Isle of Pines) a Cuba. L’isola era sotto controllo americano dagli anni della guerra ispano-americana. La famiglia di Crane, così come quella di molti americani, possedeva lì una casa – fatiscente, senza tetto e ricoperta di alberi morti.

Vi dimorava la “Zia Sally”, che non aveva più avuto contatti con la famiglia per anni. Nella poesia, la zia Sally, è chiamata Sarah.

Harold Hart Crane

Hart Crane nacque il 21 luglio 1899 a Gerrettsville, in Ohio. L’unico figlio di Arthur e Grace Hart Crane. Nell’aprile del 1917 i genitori divorziarono. Crane decise di adottare il cognome materno “Hart” come suo primo nome e lasciò Cleveland per trasferirsi a New York, da solo. In breve tempo entrò nel giro di scrittori, artisti ed editori. Rimase a New York fino al tardo autunno del 1919. In quel periodo decise di ritornare a Cleveland per lavorare col padre e vivere con sua madre e sua nonna materna, entrambe parte del Cristianesimo Scientista, nuovo movimento religioso metafisico fondato nel 1879 negli Stati Uniti da Mary Baker Eddy. Scontri continui coi genitori e la mancata soddisfazione nel suo lavoro lo portarono ad abbandonare la fabbrica nel 1921 e a trasferirsi permanentemente a New York, nel 1923. In quegli anni si arrangia con ripetizioni in scuole serali; per qualche mese viene assunto come autore di testi pubblicitari ma si licenzia subito. Si trasferisce a Woodstock, ma i suoi periodi d’impiego si fanno sempre più brevi e lo portano a non avere uno stipendio fisso. Si sposta spesso e non ha una stabile dimora. L’ispirazione per la sua raccolta più importante, “Il Ponte”, gli viene nel Febbraio del ‘23, quando Emil Oppfer, suo compagno, lo invitò a vivere in un appartamento che dava sul ponte di Brooklyn, senza riuscire comunque a lavorarci come desiderava. “Edifici Bianchi” difatti comparve nel 1926 senza alcun accenno al poema. Fortunatamente Otto H. Kahn, nel 1926, gli garantì il pagamento di una piccola somma di denaro per lavorare alla raccolta, di cui gran parte venne scritta a Patterson e sull’Isola della Gioventù, a Cuba. Grazie all’aiuto del padre riuscì a scrivere anche nel 1927. Completò l’opera nel 1929, nell’impeto improvviso che provò quando Caresse e Harry Crosby gli offrirono una pubblicazione. “Il Ponte” comparve nel 1930 e venne acclamato come uno dei migliori risultati poetici del tempo. Tra il 1927 e il 1928 Crane fu il compagno di un ricco invalido californiano. Nel 1928, alla morte della nonna materna, con i soldi ricevuti in eredità viaggiò in Inghilterra e Francia. Problemi di alcolismo lo perseguitarono tutta la vita. Nel 1930 a Parigi oppose resistenza ai pubblici ufficiali e venne arrestato e messo in carcere. Annota Harry Crosby in quegli anni “Crane torna da Marsiglia. Si porta a letto una trentina di marinai e ricomincia a bere il Cutty Sark”. Nel 1931, grazie ai soldi della Guggenheim fellowship, si trasferì in Messico, sperando d’iniziare una raccolta su Cortez e sul culto della morte. Tornò negli Stati Uniti solo per il funerale del padre spendendo gli anni seguenti a Città del Messico. Peggy Cowley, ex moglie dell’amico Malcolm Cowley lo raggiunge. Sarà l’unica donna ad avere una relazione con Crane, ne nasce il testo de “La Torre Infranta”. Il 24 aprile 1932 si imbarcò da Vera Cruz per New York sulla S.S. Orizaba. Tre giorni dopo, il 27 aprile, si gettò in mare e il suo corpo non fu mai più ritrovato.

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