Massimo Del Prete | Le sette domande di MediumPoesia

Per la puntata numero tredici del format "Le sette domande di MediumPoesia" presentiamo alcuni testi di Massimo Del Prete, estratti dalla raccolta d'esordio ‘Soglie’ (Ladolfi, 2018) e dal progetto inedito "primi giorni ad est".

1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?

Se mi è permesso un piccolo strappo rispetto al periodo temporale richiesto, vorrei citare Notti di pace occidentale di Antonella Anedda, uscito nel 1999 ma segnante per me in merito a un certo modo di pensare la costruzione linguistica delle immagini. Faccio seguire Mandate a dire all’imperatore di Pierluigi Cappello, La polvere nell’acqua di Mario De Santis, Il grande innocente di Gabriel Del Sarto e infine un’opera omnia, le Poesie di Milo De Angelis, i cui risultati sul mio fare poetico non sono ancora riuscito a metabolizzare.

2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?

Se una maniera esiste passa senza dubbio dal modo di interpretare la vita quotidiana. Credo che la poesia, prima ancora che la traduzione linguistica della coscienza, sia una modalità dell’esistenza, attraverso cui si riesce a trattenere qualcosa che un istante prima ha forma definita e quello dopo è fumo. Ha quindi a che fare con l’attenzione, con la capacità di non lasciar andare, di non perdere e di non perdersi tra le cose reali che il tempo dissipa. Forse quindi si può essere poeti anche senza scrivere una riga: questo potrebbe essere troppo radicale ma anche un modo interessante di affrontare la questione. Quando mi racconto o mi introduco ad altri, il fatto di scrivere poesia è forse l’ultima cosa che viene fuori, proprio perché usare carta e penna è il passo finale di un processo tutto interiore (per alcuni, certo, molto breve). In tal senso, quando il processo si compie, pensare poeticamente e avere la fortuna e la capacità di sviluppare una tecnica poetica significativa diventano azioni connaturate al vivere, mutuamente implicanti e non estirpabili, anche quando si attraversano lunghi periodi di silenzio: il pensiero non si addormenta mai davvero. Infine quindi ti direi che sì, vita e letteratura a un certo punto si fondono e non si separano più: a chi volesse lanciarsi in una ricerca alla cieca consiglierei di guardare a certi indizi: la tendenza alla sottrazione e al silenzio, un’attenzione speciale al tempo, alla memoria, ai loro resti.

3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi?  Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?

Il rapporto coi miei lettori è improntato tutto a un unico sentimento: la gratitudine. A distanza di quasi tre anni ritengo ancora incredibile aver pubblicato un libro di poesia e non posso che sentirmi profondamente grato verso chi ha sostenuto un impegno materiale per possedere il mio libro e lo sforzo intellettuale che qualsiasi lettura richiede.

Con i colleghi il rapporto è vago e saltuario, ma questo riguarda me: la poesia come atto linguistico mi riguarda densamente, come dato caratterizzante, per periodi di tempo ristretti a cui seguono larghi vuoti in cui mi interesso e mi occupo di tutt’altro. Forse per questo resto ai margini di una comunità che pure è ristretta e non complessa da attraversare, da toccare. Talvolta mi sembra di non averne nemmeno davvero il titolo, di non tenere abbastanza in conto il valore della poesia. Credo in realtà che sia solo il mio carattere schivo, la mia tendenza a rifuggire la sfera pubblica anche in questo risicato settore – spesso fatta di inutili polemiche, premature santificazioni, in un gioco di bande contro bande che oscura totalmente il testo – e rifugiarmi in quella privata. Ho pochi interlocutori in questo senso ma tutti preziosi, veri punti di riferimento senza i quali, forse, la poesia mi sfuggirebbe dalle mani inspiegabilmente, proprio come è arrivata.

4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?

Nonostante i miei studi di linguistica non ho un rapporto profondo o costante con le lingue diverse dall’italiano, se non per una questione puramente funzionale, o di studio strutturale: linguaggio e non lingua. Anche per questo le mie letture poetiche sono quasi esclusivamente in italiano. Se escludiamo le lingue del passato che ho potuto toccare in ambito accademico (provenzale o latino) ho avuto qualche contatto con la poesia spagnola e sudamericana e ho subito moltissimo il fascino di autori come William Carlos Williams, T. S. Eliot e Philip Larkin.

5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?

Sì e sono convinto di aver realizzato forse i miei testi migliori proprio nel momento in cui ho provocato una collisione semantica tra sfere diverse della conoscenza. Sono molto affascinato dalla fotografia: ho la fortuna di conoscere vari professionisti, alcuni tra i membri della mia famiglia, ed è stato sempre normale per me confrontare attraverso loro due linguaggi diversi e complementari come la parola e l’immagine. Per questo mi piace partire dall’osservazione della fotografia per poi attuarne una traduzione linguistica: un processo che assorbe l’immagine, la nega ma la fa riaffiorare in un modo nuovo e imprevedibile dalla carta. Solo così i due linguaggi perdono la propria identità e ne assumono una che prima non esisteva: il tutto è più della somma delle parti, no?

In secondo luogo, hanno un certo peso i miei studi di ingegneria e la mia familiarità con la matematica e con la fisica: trovo che, oggi più che mai, le implicazioni prima epistemologiche e poi filosofiche tout court di un campo come la fisica quantistica costituiscano un pendant molto significante rispetto alla realtà umana e quotidiana, esulando naturalmente da banali romanticizzazioni della materia o da travisamenti in ottica para-religiosa. D’altro canto, la meccanica quantistica ha valore nell’infinitamente piccolo e per arrivare a quella scala bisogna scavare, scendere, cogliere i dettagli sotto la superficie. Detto in questi termini, le somiglianze immediate con l’atto poetico sono evidenti e tuttavia, anche al netto della poesia, prima di dischiudere un bagaglio di conoscenza umana oltre che scientifica, una tale disciplina dovrà diventare nei suoi concetti base appannaggio della cultura media. E questo, purtroppo, è ancora di là da venire.

6. Che rapporto hai con la rima?

Complesso o piuttosto molto ambiguo. All’inizio del mio apprendistato poetico ne ho subito il fascino, come molti prima di me immagino e, come dicevo prima, lo studio della poesia provenzale mi ha portato quasi a riverirla. In realtà ho smesso quasi subito di costruire il verso in funzione della rima e oggi preferisco ricercare figure di ritmo o artifici di versificazione diversi. Resta il fatto che, sia detto molto grossolanamente, la rima può considerarsi uno strumento poco caratteristico della nostra epoca nel senso che non costituisce più l’equazione che indentifica il testo poetico come tale. Nonostante questo, nonostante la sua “superfluità”, non condanno il suo uso come quello di tutti gli altri modi di chiusura formale a patto che costituiscano un surplus di significato, un’aggiunta al contenuto semantico del testo. Diversamente, oggi, la rima è affettazione.

7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Valentina Colonna, Beatrice Cristalli, Michele Bordoni.

Infine ti chiediamo di selezionare dai 2 ai 5 testi, esemplificativi della direzione più recente assunta dalla tua poesia, provenienti dal tuo ultimo libro e/o inediti (e se possibile fornirci delle audio-letture dei testi).

Da ‘Soglie’ (Ladolfi, 2018)

Anticipazione

a A.

Anche tu non hai mai rotto il cerchio
dove tutto assume un nome
dove tutto si conosce, si somiglia.
Resterai con me, come chi s’è cercato in un
tutt’altro, custodirai questo sgabello
io e te di fronte, ancora per vent’anni
“mi lasceranno sola” già sapevi, col
ricordo che riflette alcune ciocche bianche,
troppi, troppi scatti oltre noi stessi.

Tardi. Ti do un appuntamento vago
stanco “una birra, sì, uno di questi giorni”
– ma tu che non sei salva, tu sai ridere

“puoi ancora opporre il bello alla miseria
confina fuori il tempo, il giorno è adesso”.

Abracadabra

‘Non puoi pensare il tempo prima
del Big Bang’ dissero in tv. Ebbero torto.
Sta lì l’ultima, l’estrema ritorsione
del gomitolo, del tempo che visse sé stesso,
prima, della parola che sapeva dire veramente
la parola che nel canto fece il mondo
lo esplose in un acuto e glissò le nostre

vite – continuammo noi ma poi
dimenticammo e i nomi si dispersero.

Oggi esistiamo nel dopo, nell’inverso del processo

in una vita che si è fatta letteratura
disfatta in virgole, grafemi, stanghette

senza autorità che fingono d’immaginarla
questa vita non più vissuta non ricordata
– come me e te, i nostri sogni che
non osammo dire né creare

e il loro canto breve in balìa
dei pronomi di un condizionale.

Dalla raccolta inedita ‘Primi giorni ad est’

Su una foto di Irving Penn

‘Girl drinking’ diceva la targhetta
come se bastasse per esporti in una sala
per estrarti dal tuo tempo e reiterarti
ancora e ancora in scatti che divergono
per un angolo di luce o per un buio
che si addensa tra le piume e nei capelli
indovinando i tuoi confini.

Si trattava di variare l’osservatorio sul reale
prendere di te il gesto, pretendere
dalla fissità degli occhi
un’altra conoscenza.

Era appena una speranza indagare
nel tuo volto tutto il bello
tutto il possibile che anche i numeri non sanno
ma il sogno mi ha travolto, troppe volte
ha disgregato il tuo contorno, troppe volte

l’ha ridato, messo in fila come tanti
negativi che di te tutto diranno
nascondendolo.

La tua lingua non ha suono né segno
nessuna tecnica può indurre la tua voce
ma non importa – perché ora so
che parlerai con me
se userò del verso il lume
ma specialmente l’ombra.

Ricordo di Caterina

I.

La zia del nonno sapeva fare i conti
a malapena, e nessuno voleva ricordarle
che la guerra era finita da decenni
nemmeno tu papà in un giorno
di vecchia primavera, portando
la tua sposa nel suo antro
di statue di santi e di madonne –
ma tutti si sbagliavano
la zia sgranava gli anni esattamente,
con la coscienza che ancona le restava
lei sapeva –
l’avreste visto dalla mano
che tremava irrefrenabile toccando
il ritratto giovane per sempre
di un marito come tanti, come tanti
disperso catturato e morto
soltanto in presunzione
“io l’aspetto” soffiava tra le labbra

e il nonsenso del sorriso impose
la pietà, la pelle d’oca.

II.

La memoria degli ultimi è la prima
a scomparire: ultimi come noi
uomini stanchi che cedono
alla disgrazia del tempo.
Scrivere e tramandare non si equivalgono
più: pensiamo di potere ma non possiamo
fissare la catena del ricordo
che si inanella a ritroso gettandosi
in un vuoto in una nebbia.

Anche noi cadremo in questa sorte
basterà un nipote e suo figlio bambino
a cui nessuno dirà il nostro nome –
questo
questo sarà sbiadire
aver vissuto per un altro mondo.

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Marziale, Miro Gabriele, MediumPoesia, poeti latini, Roma antica, antico e contemporaneo, traduzioni, poesia dell'altrove

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