Francesco Brancati / Sparare a zero. Intervista e testi

Per la quarta puntata del format "Sparare a zero", la redazione intervista il poeta Francesco Brancati
  1. Tra i libri usciti negli anni Duemila puoi indicarne 5 fondamentali per il tuo percorso?

Più che di singoli libri, per molti autori mi sentirei di parlare dell’opera; con le dovute eccezioni, tendo infatti a considerare la produzione di un autore come se fosse un unico grande libro. Per il primo decennio indicherei senz’altro gli scritti di Roberto Bolaño (soprattutto I detective selvaggi e 2666): al di là della successiva mitizzazione che ha generato un terribile universo kitsch, la sua scrittura è stata fondamentale sia dal punto di vista stilistico che da quello etico (per quanto una forma di etica possa essere desumibile dalla letteratura). Qualcosa di simile è forse accaduto con la poesia di Mario Benedetti, da Umana gloria (che pure se pubblicato nel 2004 è un libro la cui storia viene da molto più lontano) a Questo inizio di noi. Per il secondo decennio citerei invece i libri di Antoine Volodine, in specie Terminus radioso, Angeli minori e Sogni di Mevlidò. Volodine è uno scrittore a cui invidio tutto: lingua, stile, ambientazione e visione. Altri due autori per me importanti sono stati Guido Mazzoni, per la poesia, e Vitaliano Trevisan, per la prosa. I mondi e ancora di più La pura superficie sono le opere in versi più esemplari degli anni Dieci; Works è il romanzo che meglio sintetizza gli ultimi decenni di storia italiana, sbaglia chi ritiene che il libro parli soltanto di lavoro e nord-est.

  1. Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana? Per chi scrivi poesia?

Sempre per rimanere in tema Trevisan, alla seconda parte di questa domanda risponderei con una sua frase, da Works: «Disperazione, è per questo che scrivo». Non vorrei, tuttavia, scivolare in un eccesso di pathos e pertanto provo a specificare. Scrivo per esorcizzare una serie di fantasmi. Avverto la loro presenza sia a livello biografico che collettivo, come una colonizzazione di immaginari e di futuri possibili. Penso che la scrittura a volte dia l’illusione di pareggiare i conti con l’esistenza, anche se, appunto, si tratta soltanto di un’illusione. Tutto questo si riflette ovviamente nella vita quotidiana, a volte in termini disastrosi, altre con esiti simpatici oppure improbabili. Naturalmente mi fa piacere quando quello che scrivo riesce a comunicare qualcosa anche agli altri, ma sostenere che si scrive per un indefinito lettore e non, in primo luogo, per sé stessi mi sembra una affermazione che nasconde un’insincerità e un narcisismo ancora più insidiosi di chi accorda alla letteratura un valore sociale come conseguenza indiretta, spesso neanche cercata, di un corpo a corpo con concezioni del mondo e ossessioni individuali. Ciò non vuol dire non riconoscere il significato ideologico che è proprio della letteratura come di qualsiasi altra forma di espressione artistica.

  1. Senti di fare parte di una comunità poetica a cui aderisci? Com’è il tuo rapporto con altri poeti viventi e con chi ti legge?

Faccio parte di una scena, come tutti quelli che scrivono poesia. Come sappiamo, questa bolla interagisce principalmente attraverso i social network e in alcuni luoghi fisici, in occasione di festival letterari o presentazioni di libri. Come accade in tutti i campi, anche nel piccolo mondo della letteratura e della poesia italiana si sviluppano simpatie, antipatie, ipocrisie e relazioni a volte sincere e che sfociano in bei rapporti e in amicizia, altre sostenute soltanto da un mutuo scambio di interessi davvero di poco conto. Devo dire che non ho mai provato interesse verso questo secondo genere di legami, non tanto e non solo per una questione etica, ma fondamentalmente a causa della mia pigrizia e del senso di ridicolo che sempre mi accompagna quando ho la sensazione di fare parte di qualcosa. Detto ciò, direi che complessivamente il rapporto è ottimo con alcuni, buono con altri, compresi i lettori che sono a loro volta autori e poeti, a parte qualche sparuto e malcapitato dottorando.

  1. Senti di inserirti all’interno di una tradizione poetica italiana? Avverti una particolare vicinanza con tradizioni poetiche in altra lingua?

No, assolutamente. In compenso sento di appartenere a quella generazione che ha visto morire Carlo Giuliani in televisione e ha conosciuto il progressivo smantellamento di ogni forma di organizzazione politica in senso collettivo. Chi aveva dodici, tredici o quindici anni durante la Pre-Millenium Tension ha inoltre spesso singolari nostalgie, come per la visione di una Dido sdraiata su un divano in uno scenario finto minimale oppure per l’attesa di un futuro ipertecnologico e azzera-tutto che non è mai davvero arrivato. Mi piacciono molto Mircea Cărtărescu e Philip Larkin e avverto soprattutto una particolare vicinanza con la musica indipendente inglese, europea e nord-americana, che ha fatto parte della mia formazione.

  1. Sapresti indicare una forma artistica e una disciplina scientifica, se ci sono, che influenzano più di altre il tuo processo di scrittura? In che modo entrano in poesia?

Come dicevo, la musica è stata assolutamente fondamentale per la mia educazione. Durante gli anni dell’adolescenza ho fatto attivamente parte della scena post-punk: un sottobosco e una bolla anche questa, con regole e valori simili a quelli della bolla poetica. Su Herz und Geist, una fanzine che trattava generi musicali underground come la dark-wave ho letto per la prima volta, intorno ai tredici anni, il nome di una certa Amelia Rosselli. Dalle infinite declinazioni sonore dello spazio musicale cosiddetto del ‘dopo-punk’ (una galassia che va dal noise, allo shoegaze all’industrial fino alla power-electronics e alla dubstep di Burial) ho mutuato soprattutto l’attitudine sperimentale e contestataria, nonché l’idea di lavorare con un materiale semantico che è al contempo suono e rumore. È forse a causa di questo trascorso che non sono mai riuscito a entrare del tutto in sintonia con l’accezione di sperimentale in uso in ambito poetico: se paragonate a quelle dei Coil, una piccola parte delle sperimentazioni cosiddette poetiche fanno quasi tenerezza. Negli ultimi cinque anni, infine, ho iniziato a studiare questioni di fisica delle particelle e di biologia molecolare, in vista di un romanzo che mi piacerebbe riuscire a concludere.

  1. Che rapporto hai con la metrica e la rima?

Un rapporto come quello che in genere si ha con la prima fidanzata: una sensazione agrodolce, dove al ricordo delle prime scoperte e dei primi esperimenti si unisce la sensazione di imbarazzo per le tante ingenuità e per alcuni passi falsi commessi. Nel mio primo libro è contenuto un poemetto, L’inesploso, dove gioco a rifare le strofe saffiche di Pascoli e propongo scherzosamente una mia versione della metrica rosselliana. Questo testo mi piace ancora. In ambito critico ho poi studiato a lungo la teoria metrica di Rosselli, i saggi di Fortini e, più in generale, la metrica dei poeti degli anni Sessanta in reazione al rinnovamento proposto dalla neo-avanguardia. Non saprei dire se tutto questo è entrato, in qualche misura, nei miei testi. Non credo, a ogni modo, di scrivere in metrica anche se in genere rincorro un’idea di ordine che equivale a un senso di protezione. Mi interessa il rapporto tra forma e immagine.

  1. Tra le nuove generazioni ci sono 3 poeti che ritieni particolarmente preminenti o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Credo sia questo un bel momento per la poesia italiana e sono tante le voci che ritengo interessanti. Mi dispiace quindi dover scegliere soltanto tre nomi ed escluderne altri. Dovendo tuttavia fare una selezione direi allora che sono particolarmente attratto dalle scritture e dalle idee di Riccardo Socci, Francesca Santucci e Francesco Maria Terzago. Dopo Lo stato della materia Socci ha scritto un libro, ancora inedito, che penso rientri tra i più interessanti degli ultimi dieci anni, assolutamente sopra la media di ciò che solitamente viene pubblicato. Il fatto che sono legato a Riccardo da una lunga amicizia non toglie nulla alla validità di questo giudizio, semmai il contrario. Con Francesca avverto una particolare consonanza forse in parte anche pre-testuale, ossia relativa al bisogno di ordine e al rapporto tra dimensione privata e sfera pubblica: può essere una costante generazionale ma pochi sono riusciti a definire il dissidio in maniera nitida così come emerge da Una casa e fuori. Di Francesco Maria apprezzo in particolare la componente politica e morale dei suoi testi, il bisogno di ricondurre la descrizione nel perimetro della morale. Si tratta di un esercizio pericoloso da mettere in pratica, dopo Fortini, eppure in un libro come Ciberneti questa doppia dimensione è quasi sempre riuscita.

     0. Acer in fundo, se non vuoi dirci 3 poeti contemporanei che proprio non ti piacciono, puoi indicare uno o più testi del tutto distanti dal tuo modo di ‘sentire’ e ‘pensare’ la poesia?

Al di là dei nomi che solitamente si citano in occasioni come queste (Davide Rondoni, Franco Arminio, eccetera) e che eviterei di considerare sia per una questione anagrafica, sia perché sarebbe un po’ come sparare sulla croce rossa, per mantenere il parallelismo generazionale con i poeti indicati nella risposta precedente dirò allora che non ho particolare simpatia per le scritture di Francesco Vasarri, Riccardo Canaletti e Giovanna Cristina Vivinetto. Ciascuno di questi autori mi sembra espressione di poetiche assai lontane dal mio modo di intendere la poesia: ermetismo fiorentino fuori tempo massimo nel caso di Vasarri e semplicità stilistica e rifiuto della complessità per quanto riguarda Vivinetto (nella speranza di non essere tacciato, come già Simone Burratti, di transfobia…); avverto infine una marcata lontananza estetico-politica da quanto sostiene e scrive un po’ dappertutto Canaletti.

***

La distrazione

Non cerca di disporre le travi del pericolo
accanto ai sassi nella strada, il crollo mentre
gli altri dormivano, se preme le tempie contro
gli angoli, se muore non prega, afferra la porzione
di spavento che è possibile contendere ai singhiozzi,
ai respiri quando ridiventano muco, rallentare le frequenze.

Come ha sorpreso la fine della storia,
quale distrazione ha inventato al suo futuro,
quanto il domani, una sorella fin troppo
pasciuta, davvero educata, attraverso le promesse
dei suoi doni dalle bocche consentiva.

Infanzia e paesaggio boccheggiavano,
l’osso ioide dileguava qualsiasi conato,
giungevano a frotte gli eventuali paradisi.

Il fondo, un buio ancora più buio
ripieno delle altre teste, mozzati
i cadaveri, le tute da sub fuori
dallo spasimo, dentro la nevrosi
ininterrotto il passeggio sopra il tu.

(da L’assedio della gioia, Le Lettere, 2022)

––––

A volte sono le gambe, l’incubo
è pensarle che non reggano,
lo schianto improvviso e preciso
come il movimento del ferro irresistibile nella gola.

Eppure fa il suo meglio per sorprendere
l’illusione della vista, dire le braccia
prima che rovinino lungo i corridoi
con la pece dentro gli occhi.

Allora sono soltanto un’iride di pena,
acqua verde, mi guidano le piastrelle
del pavimento, dicono gli spazi fino
alla finestra, il respiro enorme della pineta
davanti alla camera da letto, la casa
esplosa di macerie sul finire della frase,
il gesto del bicchiere sul vassoio
poco prima della cena.

Avere un tetto, costruire un riparo,
proteggere le ossa, ripetere lo vedi
adesso le mani hanno smesso di tremare

inventare gli sguardi senza le parole.

(da L’assedio della gioia, Le Lettere, 2022)

––––

Altri occhi violeranno nuvole altre
e non i cieli offesi da questo turchese
singhiozzare. Per due anni intorno al chiostro
era la strage dolce dei rami sfarinati tra le dita.
Quelli in cima più distanti con le foglie già screziate
ti sei illuso sanguinassero qualche tisica bestemmia
per il sole trattenuto con l’inganno nella valle.
Ma insieme ai decenni dirupò la biblioteca dei monaci,
ogni inverno le strade allagavano nei notiziari
quando i codici divelti erano il vanto
per le loro (noi, invece, la vendemmia)
rughe quasi sante svolazzanti.
E l’invito fu di carta.

Però insisti sulla carta, più forte
indica il massacro, costruisci lastre
per il panico, oltre l’idillio nascosto
nella tua cronologia, vedi.

Uomini, laghi e bestie, piattaforme,
conifere, ossidi e silicati, container,
gommoni, confini, garze sporche,
plusvalenze, provette, indici di mercato,
circuiti ostinati a bisbigliare il vento,
un affanno grande nella bocca,
vetri e schegge contro le epidermidi,
acari protesi alla nostra ingratitudine,
la sua piana cecità.

La terra si ingrossa accogliendo i morti,
i cadaveri, se non li bruci, sono montagne giornaliere.

(da L’assedio della gioia, Le Lettere, 2022)

––––

Il terzo motivo

Ripiegare verso il terzo motivo. Il primo motivo è la sera, il quadrante illuminato tra le insegne mentre sono i capannoni, il suono modulato sulle sequenze del basso. Il terzo motivo è la pelle. Il primo motivo sono i futuri, tutti i fuochi della siepe. Il secondo motivo sono le case, la pietra, le carte altre nella tasca del giaccone. Il terzo motivo sono le ossa, che cosa aveva detto lo straniero sfiorato sotto il passaggio della Gare Cornavin, la rabbia insecchita per le parole che il freddo gli ha smarrito. Il primo motivo è l’albero dei vicini, il carrello della Coop. Il secondo motivo sono i figli, le piccole feritoie della passione, la prospettiva aerea di una città che non è quella in cui è nato ma è il luogo dove ha scoperto le frasi delle molecole, riconoscendo nelle strade il passato di E., i quark individuali nelle insegne dei negozi. Il terzo motivo sono le rotaie, Itaca frantumata. Il primo motivo sono la madre e il padre, il sonno, l’idea ingenua di occupare uno spazio, uno spostamento cadenzato all’interno di porzioni di tempo, frammenti sequenziabili di sé. Il secondo motivo sono le scappatoie, i vermi, le prospettive etiche della poesia, il bastinado. Il terzo motivo è la sete. Il secondo motivo è l’idea che lo sfiora, il brulicare ossuto e quotidiano, lo sbalzo fuori dall’auto a un incrocio di una strada di provincia. Il primo motivo è una ferita. Non ha scelto il momento migliore per andarsene via, ha semplicemente sentito di essere arrivata al limite. Il terzo motivo sono le nuvole, la terra fradicia e infetta, gialla, cadaverina come gli odori, ogni ammassamento. Il primo motivo è il CIM. Il secondo motivo è il PVC. Il terzo motivo è il DIY. Il secondo motivo è il pissing, l’odore degli ospedali, la scuola e l’istruzione. Il terzo motivo è un senhal, terso e striato, che protegge la morte, le misure di avvicinamento a. Il primo motivo è una convinzione, politica, sociale, umanitaria, sentimentale, esistenziale. Oppure l’attitudine. Il secondo motivo sono i cani, una discussione sull’ultimo film di Lanthimos durante una cena a casa di amici, la coscienza ecologica, i vinili e la new wave. Il terzo motivo è la merda, le nuvole sopra i covoni e il cielo sotto la Calabria assassinata, la demenza ottusa della carne gelida, civetta, settica sul ramo secco del tempo. Un ritornello facile in testa se la preghiera non muta e sempre resta forma squassata della possibilità di dire.

(da L’assedio della gioia, Le Lettere, 2022)

––––

I Wanna Be Adored

Sull’autobus che dall’aeroporto si dirigeva in centro ebbero per la prima volta il presentimento che qualcosa di grande o di importante stava per accadere. Manchester, i palazzi e le strade, le storie che avevano immaginato dal fondo di una qualsiasi periferia si aprivano davanti ai loro occhi mentre, muovendosi verso Rusholme, il vetro dei grattacieli lasciava il passo ai negozi dei pakistani, alle insegne luminose. Sui marciapiedi gli uomini indossavano vesti lunghe, giubbotti bombati, le donne avevano i tacchi e le gambe lunghissime. Nulla sarebbe stato come avevano immaginato mentre tutto appariva come avevano immaginato. Adesso riscopre la tensione, un movimento nervoso delle dita sullo schermo, la torsione dei nervi del collo e pensa alla vita come a una sequenza di oggetti e di azioni dimostrabili, si raffigura le altre persone impegnate a scalare una piramide sulla cui sommità hanno collocato il raggiungimento di una qualunque idea di felicità, di benessere. Ad alcuni la gioia appare sotto forma di un post, per altri è una promozione lavorativa, il riconoscimento sociale oppure i primi successi di un figlio, l’idea di una continuità, ripiegare verso il nucleo originario degli affetti, i parenti, i pochi amici e il fidanzato. Altri devono preoccuparsi per il loro sostentamento, altri ancora no. Tutti muoiono e lui è terrorizzato dai versi dove il poeta dice che i morti parleranno. Li sogna la notte ma si vergogna a dirlo a lei, si vergogna a parlare della morte e a dirle che quello che lo terrorizza è il sospetto che anche i suoi morti, un giorno, potrebbero parlare. Pensa che, come tutti, è sovrastato da un’idea banale e che per questo deve sforzarsi di trattenere, pensa pure che è stupido sognare dei versi e per di più restarne impauriti. Ma sognare dei versi che spaventano è pur sempre meglio di sognare delle persone che spaventano, come, per esempio, i teschi che fanno capolino, sporgendosi dalla terra bagnata di Srebrenica. Il profilo dei suoi fianchi nella penombra della stanza, la consistenza della sua figura appena sbalzata rispetto al muro, la luce che attraverso le persiane glorifica la polvere ritagliando piccole isole di giallo sulle lenzuola. Questo momento rappresenta nel ricordo o nel sogno il suo prototipo di felicità, una questione minuscola e inconfessabile, non trattenibile e che proprio per questo ora lo terrorizza, poiché ne riconosce l’inconsistenza, la sostituibilità con un altro frammento e con un’altra immagine, sua o di qualsiasi altro individuo, in qualunque spa- zio o momento, sempre. Pensa, quindi, che il terrore non è il vuoto bensì la sua innocente riproducibilità, immaginare di pedalare su una bicicletta al massimo delle forze per frantumare la corteccia contro la scogliera, cancellando in questo modo ogni ipotesi di ricostruzione o la discografia degli Smiths, riparare, con ciò, a uno sbaglio qualsiasi.

(da L’assedio della gioia, Le Lettere, 2022)

***

Francesco Brancati ha pubblicato L’inesploso (in Hula apocalisse, Prufrock SPA, 2018) e L’assedio della gioia (Le Lettere, 2022).
Attualmente è assegnista di ricerca in letteratura italiana presso l’università di Udine. È stato assegnista di ricerca all’università di Pisa, dove ha conseguito il dottorato in Studi italianistici. Ha pubblicato, tra gli altri, saggi su Ariosto, Berni, Boiardo, Rosselli, Benedetti, Bolaño, Fortini e su questioni di metodologia critica (la funzione dell’etica nella poesia contemporanea).
È redattore del sito Le parole e le cose per il quale cura la rubrica Esercizi di lettura.
Per Marsilio è in uscita Riscrivere Boiardo. Francesco Berni, Il Rifacimento dell’Inamoramento de’ Orlando e il proemio del romanzo cavalleresco.

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Valentina Calista

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