«Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?»
(T.S. Eliot, The Rock, 1934)
Ho letto Il robot giardiniere (Pordenonelegge 2021) in un momento della vita in cui faticavo a essere commosso da qualcosa, perfino toccato. Leonardo De Santis con questo suo lavoro ha però scalfito quella che sembrava essere un’inamovibile apatia. Piuttosto che una vera e propria recensione, vorrei quindi proporre alcune suggestioni sparse generate dai versi di questo poeta esordiente.
Sembra che l’io poetico sia quello di un bambino. Come si dice, ce n’è sempre uno dentro ognuno di noi. È quel bambino che, a partire dal primo testo della raccolta, si rivolge all’adulto – il lettore – prendendolo per mano, chiedendogli, con quel gesto che condensa cortesia e insistenza, di partecipare al gioco. L’io-bambino vuole dire qualcosa al lettore. E lo ringrazia: non sa perché, forse, ma sa che sta chiedendo qualcosa che va oltre le sue possibilità e sensibilità.
L’adulto-lettore si trova dunque coinvolto nel gioco del bambino, un gioco tutto fuorché lineare, balbettante, fatto di distrazioni e interruzioni dalle distrazioni, di ricordi e pensieri passati. Ma di quale gioco si tratta? Pare che il bambino voglia prendere i panni di un robot giardiniere. Un po’ come quando da piccoli imitavamo il meccanico moto di una ruspa con il braccio e la mano, così nel testo viene chiesto al lettore di mettersi in gioco. Prima di tutto con il corpo, che è forse la cosa, perlomeno per gli adulti occidentali, più difficile: “e, terreste le cose nel palmo? / Così.”.
Accompagniamo allora il bambino-robot lungo le sue sconnesse peregrinazioni. Si nota che con costanza le sue distrazioni e le sue immersioni nel gioco mettono in discussione le certezze del lettore, fungendo da specchio di una sua sensibilità meccanica.
La scrittura, nella raccolta Il robot giardiniere, pare un gesto simile a quello dello scultore. Il testo è già lì, dentro il magma del linguaggio, e il bambino-poeta scava, scalpella, toglie i residui, cura, proprio come l’androide protagonista del gioco. La forma che emerge è un verso essenziale, in cui l’io autoriale si contrae per lasciare spazio al significato, come farebbe un bambino di fronte a uno spettacolo di cui si stupisce. Il poeta contrae il proprio ego, il proprio voler dire, il proprio agire, per ascoltare la significanza che si effonde dall’entità che contempla.
Il verso di De Santis risulta intriso di una domanda che significa di per sé stupore e meraviglia, ma anche mistero e inquietudine. Detto altrimenti, il robot giardiniere non vuole dire, spiegare, ma descrivere, e con la sensibilità propria del bambino resta insicuro (ma sereno) nel suo procedere, chiedendosi sempre qualcosa di cui non sa formulare del tutto la domanda: “Come può dire di esserci che non lo sa / che non ha da dire”.
L’adulto resta tra l’attonito e lo stupito, come lo stesso bambino registra. Non a caso la madre così gli dice: “Ti concentri sulle cose che non vogliono dire”. Di quale incertezza si sta parlando? È forse la stessa che ci coinvolge quando un bimbo chiede qualcosa come: “e dove va il vento quando non soffia?”. Per De Santis la razionalizzazione non pare la soluzione più sensata, come emerge in vari momenti in cui il gesto si contrae. Quando il vento non soffia, non c’è, ma non significa che esso sia riducibile a mera “aria mossa” divenuta immobile, o che non sia dotato di un proprio significato che lo distingue (non separa) da tutti gli altri venti. Questo il bambino-poeta lo sa bene. Non capisce però come mai l’adulto risponda con una meccanica razionalità, con il tentativo di spiegare quanto è invece, in modo così bello, inspiegabile.
Allo stesso modo, il gesto contratto di De Santis è consapevole dell’inutilità di negare e spiegare la pervasività di un significato. Il bambino-poeta non spiega, ma coglie in termini essenziali quella che è una vera e propria atmosfera, da intendersi come concetto della Neue Phänomenologie schmitziana, ovvero di “atmosfera” come significatività effusa, percepibile da un corpo-proprio (Leib, distinto dal corpo fisico, Körper) sensibile a queste entità, tali in quanto dotate di una capacità di coinvolgimento che l’oggetto materiale si può solo immaginare. Tuttavia, le atmosfere si condensano anche in oggetti fisici: “la benda bianca”, “Gli occhiali sopra il lato sano”, “Le unghie della madre cinque oggetti / rosa, il polso vulnerabile. / Nervature della mano, buona, nuova”.
La maestria sta nell’accostare elementi capaci di evocare un’atmosfera, senza però sopraffarla, ovvero spiegarla, dire come il lettore debba percepirla. In altre parole, la capacità del verso di De Santis sta nell’evocare un’atmosfera con il minimo necessario, sottacendo il normale e adulto impulso alla razionalità, tanto asettica quanto spesso povera di autenticità. Le atmosfere e i significati che appaiono al bambino fanno parte dell’ecosistema Autore-Io-Gesto, e pertanto i personaggi ne rimangono imbrigliati, in un modo tale da privarli di una loro autonomia, di una loro capacità di dare significato: “Qualcosa per fortuna smette di importare. // La macchina non compete sui significati / e questo va molto bene”.
In questo senso, il robot impersonato dal bambino vive il flusso della vita abbandonandosi ad essa, e sforzandosi di essere significato, ovvero di interpretare e stare in sintonia con il senso che lo circonda, senza imporsi col suo dire: “È tanto automatico nella sua distrazione / che finisce sempre per curare / come uno che non pensa e rifà un letto perfetto”. Nell’oasi atmosferica del bambino/autore, che può permettersi di non anteporre la razionalità del pensiero logico-lineare, ci accorgiamo di quanto “l’importanza è una cosa autocertificata”, ovvero ciò che riteniamo rilevante – un valore, una caratteristica, un significato – sia per di più una finzione antropomorfa e antropocentrica – voluta da una certa illusione di assoluta autonomia, del tutto maschile, dalla quale fatichiamo a liberarci.
Il bambino-autore è quindi preda di una serie di atmosfere che lo coinvolgono come “organismo atmosferico”. Ecco che innumerevoli distrazioni si fanno strada e si inoltrano tra le imitazioni del robot, tanto quanto lo stesso bambino-autore è in parte consapevole del proprio status mimico: “a vederlo, se si potesse, l’androide sembra sempre assorto /in un ricordo, ma non è così: il silenzio lo parla.” Le atmosfere che coinvolgono il personaggio sono come detto innumerevoli, ed è interessante notare come vengono evocate da elementi, anche oggetti, molto specifici, ad esempio degli orecchini a cerchio dorati, che evocano immediatamente il disagio di un giudizio denigratorio verso chi porta “i cerchi da troia”. Ci si immagina, leggendo quei versi, un bambino assorto nel suo essere robot, e improvvisamente intento a contemplare dei cerchi dorati comparsi per caso nel suo raggio visivo interiore o esteriore.
Allo stesso modo, si percepiscono la telefonata con il padre e con la madre come violente interruzioni dal flusso giocoso del testo, interruzioni non a caso dotate di una intensa carica razionale: “Dei ciao rituali e decrescenti, tu / con un lavoro sei un uomo.” Genitori che sembrano guardare il bambino-autore dal balcone e che “ammirano in lui la mancanza / di qualsiasi importanza”. Quasi invidiandola.
Il sintesi, Il robot giardiniere di De Santis è un esordio rilevante perché la sua lingua è in grado parlare non tanto alla nostra mente, ma alla nostra percezione. Non spiega significati che ci fanno emozionare, ma tratteggia con delicatezza e spessore una storia raccontandone soltanto alcuni elementi significativi. La poesia di De Santis – e questo mi pare un grande pregio – è leggibile sia da una persona colta, in grado di scovare le innumerevoli e acute citazioni interstestuali, ma anche e soprattutto da un lettore che voglia fruire della una poesia come di un manufatto che smuove in senso emozionale.
Gli innumerevoli gesti disseminati nei versi di De Santis sono carichi atmosfericamente, strumenti umani e non umani al contempo dello stesso robot giardiniere, il quale “non guarda, funziona”.