Giovanna Frene | “Datità”. La poesia come stanza della tortura

Una nota di lettura di Elisa Vignali, che traccia una panoramica sul libro di Giovanna Frene, "Datità" (Manni, 2001) ristampato a dicembre del 2018 sotto la rinnovata cura di Arcipelago Itaca Edizioni. Copertina: Farbod Morshedzadeh (IRAN) "Her Voice Carried Her Away", olio su tela.

Datità, libro uscito per la prima volta nel 2001 per Manni e recentemente ristampato con alcune piccole varianti grazie alle cure di Arcipelago Itaca, si colloca quasi all’inizio del percorso poetico di Giovanna Frene, ma ne contiene già le principali costanti tematiche formali, e pertanto conserva intatta la sua carica innovativa originaria. Insieme al libro è ripubblicata anche la preziosa e lungimirante postfazione di Andrea Zanzotto, maestro (e amico) di Frene, sia dal punto di vista del lavoro sulla lingua che dal punto di vista della riflessione storico-filosofica. Tuttavia la ricerca dell’autrice, se qui ancora in parte debitrice della lezione del poeta di Pieve di Soligo, ha saputo poi conquistarsi una sua voce riconoscibile nel panorama poetico contemporaneo.

Il dialogo pure fittissimo con la tradizione, italiana ed europea (vi rientrano i poeti provenzali, Petrarca, Dante ma anche autori coevi) guarda, infatti, in una direzione diversa, ovvero allo smontaggio dei materiali e alla costruzione di un progetto ben più articolato, basato sull’ibridazione dei codici espressivi e sul superamento dei consueti schemi lirici. Per esempio, il motivo del tempo divoratore e della caducità dell’esistenza, per quanto di ascendenza antica, viene calato nella temporalità avvinghiata di ricordi e pensieri che assediano la psiche nella vita quotidiana, producendo cortocircuiti efficaci di immagini e parole. È poi fin da subito evidente la profonda matrice conoscitiva di questa ricerca: la riflessione sul problema ontologico del male e del bene, che nei libri più recenti (a partire dal libro Sara Laughs) si arricchisce di ulteriori sondaggi, emerge con forza dai versi della raccolta, animati dal tentativo di nominare gli elementi della realtà con la maggiore precisione possibile, per coglierne più chiaramente l’essenza. Anche se talvolta lo scandaglio analitico può condurre al rischio di commutare gli addendi, convertendo l’uno nell’altro: “Intangibile il passato e invivibile il presente/uscito dalla contemporaneità anche il bene/diventa un male” (ne Il rimpianto). 

Un’altra delle linee più vitali della poesia di Frene è senza dubbio la riflessione sul nesso tra scrittura, potere e storia, che in Datità non ha ancora assunto forma compiuta, ma si innesta sui frammenti scomposti di un discorso in parte anche amoroso, portato avanti soprattutto nella prima sezione. La ricerca linguistica sui significanti si accompagna a una meditazione incessante sul presente; scava tra le pieghe della storia e di una psiche lacerata, facendo propri interrogativi radicali sull’esistenza e in particolare sul problema della memoria che dà “il metro e la misura” del mondo e, come recita uno dei proverbi posti nell’Appendice che chiude il libro, “tesse la tela a cui l’uomo si impiglia”. Un testo esemplificativo della raccolta in questo senso è Requiem per Sarajevo, in cui la parola poetica appare la risultante di un trauma inteso innanzitutto come interruzione di memoria (privata e collettiva) e di continuità storica.

Giovanna Frene, Datità, postfazione di Andrea Zanzotto, Arcipelago Itaca, dicembre 2018.

Altrettanto ricca è la varietà di soluzioni metriche e formali: la lingua è sottoposta a torsioni continue – tra giochi di parole, neoformazioni linguistiche e iterazioni verbali – piegata a dire ciò che si impone per forza di pensiero, quasi che la pagina si prestasse a essere trafitta dall’ago acuminato della parola. Così, a livello grafico proliferano spazi bianchi, segni tipografici diversi, varianti, in una contaminazione continua tra l’astrazione del pensiero e la materialità della scrittura. 

Tre, infine, sono le immagini che sembrano incastonare emblematicamente il senso complessivo della raccolta e quindi i nuclei tematici originari della poesia di Giovanna Frene: la mano di Canova, il cui corpo smembrato assurge a metafora di una frattura insanabile che forse solo lo spazio della poesia può sanare; prima fra tutte quella che rimanda alla dialettica, centrale nella raccolta, di corpo/mente, entrambi strumenti di conoscenza per attingere a una percezione profonda della realtà. E poi l’immagine della morte in vita (“Sono più viva su questa carta/ che non nella vita”; “sepolta nel tuo corpo vivo di materia”; “nemmeno ai più vivi la vita resta”), in uno stato di sonno o semi-incoscienza permanente, proprio di uno sguardo postumo rispetto al presente e sopravvissuto agli urti dell’esistenza. Da ultima, la figura che apre il libro e in fondo le contiene tutte, quella del “tritacarne” dentro il quale è finito il poeta e con lui la sua lingua. Se nell’insolito Autoritratto iniziale l’io non si riconosce più nell’immagine che di sé lo specchio proietta all’esterno, la poesia viene così a configurarsi come una sorta di “stanza della tortura”, luogo arduo ma al tempo stesso irrinunciabile, spazio riflessivo da cui ancora si può interrogare il reale. 

Elisa Vignali

Giovanna Frene

Giovanna Frene

Giovanna Frene, poeta e studiosa, scoperta da Andrea Zanzotto, è nata  ad Asolo e vive a Crespano del Grappa (Tv). Laureata in Lettere all’Università di Padova, si è addottorata in Storia della Lingua, con Pier Vincenzo Mengaldo. Ha pubblicato vari libri di poesia; si ricordano: Datità, con postfazione di A. Zanzotto, Manni 2001; Sara Laughs, D’If 2007; Il noto, il nuovo, Transeuropa 2011; Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, Arcipelago Itaca editore 2015. Ha pubblicato poesie in riviste italiane e straniere, e nei maggiori blog letterari. È inclusa in varie antologie poetiche, tra cui: Nuovi Poeti italiani 6, Einaudi 2012; Poeti degli Anni Zero, Ponte Sisto 2011; New Italian Writing, “Chicago Review”, 56:1, Spring 2011; Parola Plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, Sossella Editore 2005. È tradotta in antologie di poesia italiana statunitensi, inglesi e spagnole. È inserita nel sito ufficiale dei poeti italiani (www.italianpoetry.org). Affianca alla poesia la pratica della critica; storica della lingua per formazione, attualmente svolge un PhD a Losanna, sotto la guida del prof. Lorenzo Tomasin. Il suo prossimo libro, Eredità ed estinzione, è in uscita per Arcipelago Itaca.  (Foto di Dino Ignani)

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Ultima Eldorado, nella trasparenza, Maria Borio, Ilaria Mai, Tommaso Di Dio, Poesia, poesia contemporanea

da Ultima*Eldorado | “Nella trasparenza” di Maria Borio

Ultima*Eldorado custodisce una raccolta di quattro interventi di poetica. Maria Borio, Lorenzo Carlucci, Carmen Gallo e Francesco Terzago hanno perlustrato la terra della scrittura, i propri limiti, i propri desideri, portando alla luce ciò che hanno trovato nel percorso.

Eldorado è il sogno degli uomini che vivono fra le poche cose del mondo; e che scavano per cercare. E così trovano non come restare, ma i resti di tutte le cose del mondo.
​Una teoria di reperti, senza indicazioni, senza spazio né tempo; colti ciascuno in una prossimità che diventa imitazione reciproca. Esposti, i reperti si sottraggono sia alla curiosità catalogatrice dell’osservatore sia alla pretesa di una narrazione che imponga loro un inizio e una fine. A chi sappia rinunciare a queste pretese, si dischiude un’ulteriore possibilità: l’abbandono al dialogo delle analogie, alla capacità evocatrice dei segni, al loro ritmico ripresentarsi, verso un travalicamento che è ogni volta un discorso da ricostruire nello sguardo di chi sta guardando. Bisogna cedere a questa trappola liberatoria, all’immobile gioco fra le figure che, sebbene schiacciate sulla pagina e mute, continuano a tessere segnali, rimandi, richiami. Bisogna avere pazienza, rimanere avvinti da queste tracce di intensità, fino a quando non osserveremo più reperti – i tasselli di una morta storia – ma il ritmo vivo che li scioglie e li lega: l’oro del tempo, la poesia.
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www.ultimaspazio.com

Qui pubblichiamo un estratto dal saggio di Maria Borio “Nella Trasparenza”.

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