Marco Giovenale / Sparare a zero. Intervista e testi

Per la diciassettesima puntata del format "Sparare a zero", la redazione intervista Marco Giovenale. Foto di Federica Bellantoni
  1. Tra i libri usciti negli anni Duemila puoi indicarne 5 fondamentali per il tuo percorso?

Sicuramente Sovrimpressioni, di Andrea Zanzotto, che esce nel 2001. Poi il volume di (quasi) tutte le poesie di Giuliano Mesa, pubblicato dalla Camera verde (2010). Però, ecco… gli ulteriori tre titoli che indicherei sono di carattere già altro, a mio avviso: voglio dire che li penso esterni sia al contesto della poesia migliore (Zanzotto, Mesa, Annino) sia a forme di versificazione che non amo e che trovo reprensibili (ometto l’elenco, troppo lungo). Voglio dire che il pensiero per me va a libri che sento importanti come materiali portatori di uno scarto laterale particolare, staccati, distanti da quella che un certo tipo di cultura italiana chiama ancora – tra l’enfatico e il teologico – “poesia”. (E, forse, ciò che quella cultura chiama così, è così: è poesia. O: è quello che la poesia è diventata dopo il 1980).

Quel distacco, quel luogo esterno alla poesia, e segno di un forte cambiamento di rotta, o cambio di paradigma, questa gigantesca area che è la post-poesia, insomma, per chiamarla col nome suggerito da Jean-Marie Gleize, per me è occupata senz’altro dai tre volumi che raccolgono le opere di Nanni Balestrini fra il 1954 e il 2017, pubblicati da DeriveApprodi nell’arco di tempo 2015-2018. Testimoniano in pieno la natura eslege e rivoluzionaria (non solo sul piano tematico, è ovvio) dell’autore. Altri due testi, sicuramente: Anacronismo, di Christophe Tarkos (Tic, 2020) e gli scritti teorici di Gleize stesso, èditi nel 2009 presso Questions Théoriques con il titolo di Sorties (in parte tradotti per Tic da Michele Zaffarano col titolo Qualche uscita, 2021).

  1. Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana? Per chi scrivi poesia?

Scrivere è di fatto già un pezzo di vita quotidiana, o almeno vorrebbe esserlo. Non individuo differenze tra il tipo di percezioni che orienta il mio modo di stare al mondo e quello che ha a che fare con la mano che scrive/digita (o raccoglie segnali e materie verbali, dalla rete o da altri contesti, che sono poi di fatto già una testualità). Non si scrive con la sinistra vivendo con la destra (o viceversa). Il guazzabuglio o gomitolo o gliommero è inestricabile. Meglio ancora: labirintico.

Scrivere poesia per chi? È una bella domanda che mi permette di annettere al discorso generale della letteratura (che include poesia et alia) quella che a mio giudizio è la centralità del “non scrivere con un Io” (il Moi lacaniano) ma lasciare che a srotolare il cartiglio sia semmai il soggetto (dell’inconscio, il je), meglio ancora se posto all’esterno della persona materialmente scrivente (dunque un inconscio reperito altrove: da discorsi captati al volo, da una ricerca su google, al limite anche dal proprio inconscio, ma in vari modi contaminato). Quando è su questo piano che si mette il discorso, la questione del “per chi” finisce per friggere un po’, farsi intermittente, o meglio, trovarsi sottoposta a una specie di flickering. Perché al posto di quell’entità che chiameremmo “origine” dello scritto, al posto dell’Autore maiuscolo, non sta qualcuno che prearreda l’ambiente del proprio lettore, che lo convoca in un posto definito, ma qualcuno che non solo non sa chi sia il proprio lettore, ma non sa nemmeno esattamente cos’è che lui medesimo sta scrivendo. O meglio, non lo sa in modo organizzante, predittivo, normante. Lo “sa” tra virgolette.

  1. Senti di fare parte di una comunità poetica a cui aderisci? Com’è il tuo rapporto con altri poeti viventi e con chi ti legge?

Ho fatto parte di una comunità poetica abbastanza larga, sia coesa sia litigiosa, sia selettiva che aperta, per esempio negli anni in cui con gli amici dell’ensemble EscArgot abbiamo organizzato incontri e fatto letture qui a Roma presso il centro sociale Esc. Adesso tutti gli insiemi che si sovrapponevano e mescolavano negli scorsi due-tre-quattro decenni sono mutati, ovviamente. Se penso alle varie realtà che attraversavo e si intersecavano, registro un’ormai definitiva dissipazione; oltretutto non mi interesso praticamente più di poesia, se non come docente di quella frangia estrema della scrittura in versi di secondo Novecento che arriva fino a noi e di cui faccio rassegna e storia nelle lezioni per il CentroScritture. (La storiografia letteraria mi piace molto, perché è un ascensore verso le catacombe, dove tutto è fermo eppure parla, e dice cose interessantissime).

La comunità a cui oggi penso di avere qualche diritto e anche dovere di appartenenza, esistente e attiva anzi attivissima da decenni prima che nascessi, è quella della sperimentazione, delle linee non pacificate del contesto letterario e artistico in generale.

Il mio rapporto con poeti italiani viventi è ondivago, diciamo… un po’ come può essere il rapporto di un punk di (avanzata) mezza età che ogni tanto si trova a fare uno spaesatissimo ma pacifico salto alla festa di ex compagni di classe. Chi è diventato ingegnere, chi è entrato in polizia o in banca, chi sta per prendere i voti o li ha appena rotti, chi aspira alla porpora cardinalizia, chi ha messo su un allevamento di cani, chi ha perso il lavoro, chi s’è affiliato alla Ndrangheta, chi fa l’allenatore dei pulcini del Consonno Calcio, chi fa tv. Eccetera. Si beve e si fa chiasso, e va bene così.

I rapporti con le persone che mi leggono di solito sono buoni anzi buonissimi. Forse perché non scrivo poesia. Probabile.

  1. Senti di inserirti all’interno di una tradizione poetica italiana? Avverti una particolare vicinanza con tradizioni poetiche in altra lingua?

Sicuramente mi inserisco nella tradizione dei rompiscatole, di quelli che alla tradizione torcono per quanto possibile il collo. E possibilmente si dedicano alla critica sistemica (e sistematica), non a obiettivi troppo circoscritti. Quindi mi trovo molto molto a mio agio con figure iperattive & satiresche come Emilio Villa, per dire, o Corrado Costa.

Grazie a molte mediazioni=traduzioni che devo a Michele Zaffarano, così come a suggerimenti nati da Gherardo Bortolotti, mi sento (o mi sono sentito) assai in linea, anzi proprio in dialogo e scambio, con le sperimentazioni che tra gli anni Novanta e oggi si sono susseguite sia in Francia sia in area anglofona (Canada, UK e USA, soprattutto), anche se ultimamente sto tastando più il polso della situazione italiana che quello di altre culture.

  1. Sapresti indicare una forma artistica e una disciplina scientifica, se ci sono, che influenzano più di altre il tuo processo di scrittura? In che modo entrano in poesia?

Assolutamente sì. La fotografia, il disegno, il glitch; in molti modi bizzarri e contorti la musica. La scienza, meno: ma ci devo pensare. Per la fotografia, ne La casa esposta (2007) alcune immagini fotografiche entravano di fatto come materiale testuale in quel libro che lavorava (ancora) sul crinale largo tra poesia da una parte e prosa in prosa dall’altra. Il disegno e il glitch (o una qualche traduzione testuale del glitch) invadono e disturbano il tessuto già di suo rovinato di una sequenza di testi a cui lavoro da parecchi anni, le Ossidiane, che forse usciranno a stampa tra un anno o giù di lì.

Per la musica, sono stato e sono patologicamente ossessionato da Bach, che ha – in modi che non ho competenze tecniche per descrivere – a sua volta ossessionato alcune pagine mie in versi, soprattutto prima del 2001.

  1. Che rapporto hai con la metrica e la rima?

Scettico e scarsissimo rapporto, ormai. Ho frequentato parecchio le anziane signore in passato, finché non m’è sembrato che il loro già vetusto mutismo si facesse di tomba.

  1. Tra le nuove generazioni ci sono 3 poeti che ritieni particolarmente preminenti o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Poeti giovani che mi entusiasmino non saprei. Post-poeti o comunque autrici e autori in gamba sono sicuramente June Scialpi, Antonio Francesco Perozzi, Marilina Ciaco, Giulia Felderer. Ops, quattro nomi, pazienza. E comunque ce ne sarebbero molti altri: si possono individuare seguendo i siti che curo o a cui collaboro.

0. Acer in fundo, se non vuoi dirci 3 poeti contemporanei che proprio non ti piacciono, puoi indicare uno o più testi del tutto distanti dal tuo modo di ‘sentire’ e ‘pensare’ la poesia?

Potrei indicarne trecento, tremila. In vetta ci sono i politici, tipo Rondoni, ma la schiera dei giovani semi giovani pubblicati da Mondadori o Einaudi è non meno deludente.

Per non parlare del sottobosco, romano, milanese, toscano, veneto, marchigiano, campano. Ci sono manciate di problemi ed equivoci un po’ in tutta Italia. E comincio davvero a pensare che non si tratti di autori di poesia che però non fanno (o non fanno ancora) buona poesia, e che poi però le cose miglioreranno; inizio a pensare, o forse penso da tempo, che semmai il disastro è proprio la poesia. Questo feticcio voodoo che non smette di inseguire e assillare, soprattutto con i suoi pugnali postromantici o con quelli romanici o con quelli romaneschi, la libertà spirituale delle giovani leve e delle mediane, e delle agées. Che Zeus la strafulmini. Ha rovinato più generazioni lei che l’eroina della CIA.

Comunque certo che elenco tre poeti contemporanei che proprio non mi piacciono: Maurizio Cucchi, Giorgio Manacorda, Umberto Piersanti, Mariangela Gualtieri. Ops, sono quattro. Lasciamo, dài. Testi abissalmente lontani dal mio modo di sentire e pensare la poesia, infine, sono tutti o quasi tutti quelli della scuola romana che viene da “Prato pagano” e “Braci”. Non sono i soli, ma quelli in particolare svettano.

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Tre prose da Oggettistica (Tic, 2024)

Tutta vita

Dopo il semaforo è tutta campagna. Dopo il semaforo è tutta enciclopedia. Da qui in poi è tutta campagna, da qui in poi è tutta enciclopedia. Da qui in avanti è tutto cambiato, è tutto cambiato negli ultimi trent’anni. Da qui in avanti è tutta enciclopedia, da trent’anni è tutta enciclopedia. Passata l’enciclopedia è tutta campagna. Dopo l’enciclopedia c’è soltanto la campagna, la campagna con il suo sapere enciclopedico diretto, eterodiretto, le erbe, gli uccelli, gli insetti. È tutta campagna. Poi dopo trent’anni non c’è più campagna. Da qui in avanti è solo enciclopedia. I nomi, da qui in avanti cominciano i nomi, gli insetti, le erbe, cominciano le ruberie, cominciano i ti faccio vedere, gli assessori, da qui in avanti è tutto assessori, trent’anni, tutto assessori, trent’anni fa non c’era neanche qui. Prima qui era tutta campagna. Città con macchie di campagna. Nella preistoria, prima, lo dice la parola. Prima neanche a parlarne. Prima della parola, neanche a dirlo, o a parlarne. Adesso nel cortile ci sono le galline, razzolano in sei sette. Sono grasse e marroni. Solo adesso. Da qui in avanti è tutto cenozoico, animali ibridi, pezzi di vegetali, staccati mischiati, una spora lì un ramo qui, un corallo nel becco, una scansione inattuabile irrealizzabile, dei pezzi, pezzi che restano sconcertati sul tavolo, il tavolo anatomico, sull’inameno tavolo anatomico. Tra i pezzi respirano, c’è il respiro grosso, nel cenozoico, si respira male, ballano le galline, bollono, nella campagna, passano il vitto, passa uno, due, è tutta enciclopedia, c’è poco cibo, si stanca, tre. Si vede come intorno. Come fosse intorno, saranno sei sette, saranno quattro. Si vede come intorno a un disco tutto è diventato enciclopedia. Forse anche in meno di trent’anni. Il disco si vede come intorno al disco.

*

Avanguardia

In sala d’attesa l’anziano avvocato minaccia l’anziana consorte con una cannuccia,

le ripete a bassa voce e educatamente, anodinamente, infinite volte, la parola “avanguardia”. Le dice impercettibilmente “avanguardia, avanguardia”, e la tocca con una punta di cannuccia, le tenta il braccio, delicatamente: “avanguardia, avanguardia”. È calmo, è disinteressato.

*

Precisazioni

c’è uno spazio apposito, intorno c’è come uno spazio uno spazio che ti permette di appenderlo

c’è anche un buco in maniera che così puoi appenderlo e quando lo acquisti è tutto sagomato i profili sono ben delineati

è funzionale ci sono le rigature ci sono delle strisce poi ha anche un aspetto elegante perché ha le strisce e tutto quello che ha le strisce di solito è elegante anche se sono strisce sgargianti il fatto che siano strisce dà sull’eleganza

poi c’è anche una maniglia che permette di afferrare saldamente la presa e di non perdere la presa perché è importante non sfugga in questi casi e che la maniglia lo permetta

attraverso la maniglia è possibile operare un’apertura si apre da una parte e ci sta anche una versione per mancini si apre dall’altra parte

comunque se non si vuole aprire si può prendere e appendere e infatti come detto viene fornito con un buco dove si fa passare il chiodo è molto funzionale e quando si indossa può fare fuoco da entrambi i lati

quindi viene fornito insieme a una garanzia personale e ci sono tutte delle simmetrie come dei quadrati quindi infatti è così e se ci sono dei quadrati c’è anche molta eleganza perché come per le strisce anche i quadrati sono un grande segno di eleganza e di ordine i romani avevano infatti l’opus quadratum

* * *

nota biobibliografica breve

Marco Giovenale è tra i fondatori e redattori di gammm.org (2006), sito di materiali sperimentali. Insegna storia delle scritture italiane di secondo Novecento e contemporanee, in particolare presso il sito centroscritture.it.

          In versi: La casa esposta (Le Lettere, 2007), Shelter (Donzelli, 2010), Maniera nera (Aragno, 2015), Strettoie (Arcipelago Itaca, 2017), Delle osservazioni (Blonk, 2021), Cose chiuse fuori (Aragno, 2023).

          In prosa: Lie lie (La camera verde, 2010), Quasi tutti (2010; ediz. definitiva: Miraggi, 2018), Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens, 2016), Le carte della casa (Edizioni volatili, 2020), La gente non sa cosa si perde (Tic, 2021), Il cotone (Zacinto, 2021), Statue linee (pièdimosca, 2022), Oggettistica (Tic, 2024).

          Suoi testi sono in Parola plurale (Sossella, 2005), e in varie altre antologie. Con i redattori di gammm è nel libro collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009; Tic 2020). Per La camera verde ha tradotto Jack Spicer. Il suo sito è slowforward.net.

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travi, godard

Poverina, poverina…
la voce, la scrittura: nascita d’una poetica
(Vivre sa vie di Jean-Luc Godard, 1966)

Nel buio – Un film, un poeta. Nel buio uterino e amniotico del cinema, la luce del film e lo sguardo di un poeta. Abbiamo chiesto a poete e poeti di parlare di cinema, ma a partire da un film, una sequenza, un fotogramma. La rubrica, a cura di Luigi Fasciana, prosegue con la terza uscita, firmata da Ida Travi e dedicata al film “Vivre sa vie” di Jean Luc Godard.

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