Lettura di Matteo Cristiano a “Doveri di una costruzione” (Industria & Letteratura, 2022) di Davide Castiglione.

Proponiamo una lettura di Matteo Cristiano a "Doveri di una costruzione" (Industria & Letteratura, 2022) di Davide Castiglione.

Questo libro, anche nella sua forma fisica, ci parla in una veste che vuole essere geometrica, compatta. L’impressione che emerge dalla lettura, a mio avviso, è proprio quella di una formalità razionale, cartesiana. Angoli, forme, rette. Costruzioni. Non manca il lessico della geometria, includendo anche quello dell’architettura, dell’urbanistica, di una serie di strutture o di sistemi razionali. La prima sezione non a caso si intitola I progettisti, ed io subito penserei ai geometri e, appunto, agli architetti (ma anche a fotografi, pittori, etc.…). Ma il lettore, prima di inoltrarsi tra i testi di questa raccolta, si trova di fronte una composizione preliminare che disorienta e attrae. Che ha tutto al di fuori della costruzione, della razionalità. L’effetto di straniamento è notevole, tanto verbalmente quanto nella sequenza di immagini che si susseguono con effetti allucinatori. Lo spettatore, il lettore, è tanto più spaesato dall’ossimoro evidente che si instaura tra il titolo, razionale, e il testo di apertura, dove salta persino la bussola della fine del verso, confine estremo che distingue (o almeno, aiuta a distinguere) la poesia dalla prosa, come ricorderebbe Agamben. Il cancelletto mi pare sostituisca la classica demarcazione versale e si occupa di pausare, di far respirare lo svolgimento di un testo quasi schizofrenico. Questo primo testo si lega al poemetto interno Giro dei rave, che ne riprende la forma e i contenuti e prosegue l’immersione confusa e analogica in questa serie di concerti ai quali Davide Castiglione ha partecipato, cercando di trascrivere en plein air il linguaggio della realtà che lo circondava: 

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mi trascino come un’avanzata di rettili

vòlti verso un’estinzione cocente

una di quelle per cui mi persi

è in questo locale amnesia

insomnia opium omnia

chablis echostage avalon eden

papaya panama kalypso

chroma aquarium

lux envy octava la fascia

una mantella zingara e chic

me la sottrae una colonna le volute

del brodo si gelano su inseguimenti

(film d’azione con pretese d’autore)

la voce dell‘help desk suona

come un ‘ipotesi nella testa del detective

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Razionale? Architettonico? Non esattamente. È l’epigrafe di Kafka a rendere il senso di quest’opera: Nell’equilibrio tremiamo. Vi è un passaggio continuo tra razionalità e disordine. E la seconda epigrafe che incontriamo nel volume amplia la prima e ne definisce meglio ancora le coordinate: l’architettura e l’urbanistica, la geometria, fanno da contraltare all’entropia che domina la vita umana in tutte le sue sfumature. Ecco, allora, che le costruzioni cercano di essere degli appigli di stabilità – stabilità tendenzialmente disattesa, poiché anche la costruzione, con l’insediamento dell’uomo, rende instabile la sua fruizione, la realtà che vi si instaura: «e tu cosa rispondi / alla vita segmentata – all’agenda di strade».
In questo libro mi pare che il suo interno si svolga in funzione di una dialettica incessante, di un entropia persistente che mina le fondamenta di tutte le costruzioni, anche le più rigorose, e nelle forme e nelle immagini più raffinate e folgoranti, come questi versi della terza poesia che compone il poemetto iniziale della sezione terza, A lume di candela, intitolato D.: «la torre / a furia di carezze crolla, sulla / scaltrezza dei ricami lascia dello / sporco irredimibile»; o questi altri, ancor più significativi da Il primo rossetto: «Fa invasione di campo, ti sfuma di fucsia / un dente, il rossetto» con il prolungamento dell’attesa del lettore dato dall’iperbato del soggetto che si nasconde in coda alla frase. E questo incessante movimento, questo tremolio si evidenzia chiaramente anche attraverso le costruzioni sintattiche e il suo contenuto: in questo senso mi pare esemplare la poesia Posto per tutti, posta ad avvio della quarta sezione Il possibile di essere voi, che nel giro di trentadue versi  nei quali si svolgono nove periodi, di estensione e complessità differente, sono ben sei i ma avversativi in forma di correctio, dove la situazione, l’immagine viene quasi immediatamente disattesa creando un effetto di troncamento, di spaesamento: «Adoriamo / la cabriolet nel vicolo / che a un certo punto scatta in volo / ma senza magia».
Castiglione ci presenta i suoi luoghi, quelli della sua esperienza, li chiama per nome e cerca di definirne le caratteristiche, il genius loci, si direbbe, ma anche questo è sfuggente, come nel caso del testo Užupis, il nome di un particolarissimo quartiere di Vilnius (di cui Castiglione ci dà conto nelle note ai testi), poesia fatta otto terzine in versi lunghi (dall’endecasillabo in su) efficacemente bipartita in due parti, ognuna di quattro quartine, le prime delle quali descrivono, sondano le particolarità del quartiere, le sue stranezze. Ma alla fine non è di Užupis di cui ci parla Castiglione, che sposta l’attenzione dal quartiere ad un personaggio femminile di nome Eglė e poi su di sé, sfruttando l’etimologia del nome (significa abete) per inscenare un’improvvisa metamorfosi, nella quale l’io lirico si presenta come albero, abete addobbato, che dev’essere spogliato dei suoi addobbi, concludendo «che sono gli aghi, / sono le foglie qui, a scintillare sul serio». Questo continuo spostamento da luoghi a persone si svolge lungo tutto il percorso del libro, ci riporta all’interazione che intercorre tra spazialità e usufrutto di essa, alla mutua influenza che nella realtà esercitano su di sé le forze antropiche e la semantica implicita nella materia. Ma nel sottofondo di questo libro resta sempre un che di distruttivo, di oscuro, di caotico. Le costruzioni, le forme, l’ipotetica compattezza della realtà materiale si decostruisce vivendone le sfumature e lucidando gli occhi, spogliandoli da atteggiamenti illusori e fallaci. Poiché nella costruzione è implicita la sua possibile scomposizione: la costruzione è un ente, reale o figurato, definito dall’insieme di più elementi che collaborano al raggiungimento di una forma finita, di un centro specifico. Ciò vuol dire che la solidità della costruzione può essere scomposta, appunto, può essere disfatta così come è stata creata. Ai massimi livelli, questo si vede nella materialità dell’urbanistica geometrica delle new town o delle copycat city, che più costruite di così non si potrebbe. Ma questa costruzione della realtà, e dunque della sua possibile scomposizione, aleggia anche nei comportamenti e negli atteggiamenti dei personaggi che costellano questi testi, reali o fittizi che siano, che rappresentano alcune delle convenzioni, delle “scene tipo” che costituiscono la realtà quotidiana di tanti, di molti. Prendo come esempio, secondo me estremamente carico, la poesia che dà il nome alla sezione terza, A lume di candela: proprio la candela, il rito di accendere la candela prima di coricarsi con la propria possibile compagna, il quale presagisce l’imminente consumo di un rapporto sessuale diventato «spasimo di costanza», rappresenta il focus su cui si svolge questo tristissimo plot twist per cui il rito, vuoto, convenzionale della candela, viene disatteso, per ritrovarsi in solitudine in una situazione di eccitazione a piazzare like ben studiati sui social. È anche così, in questo modo corrosivo e senza scrupoli, che Castiglione decostruisce anche le costruzioni sociali, i miti, la convenzionalità di molti comportamenti umani. Il maschio alpha, l’amore per i bambini, l’amore coniugale: in tutto ciò ci sono delle sbavature, delle crepe, del rossetto sui denti bianchi, e ne emerge un continuo crepitio, da questa realtà, un continuo sprofondare nella caoticità incomprensibile. Anche la socialità, il mondo antropico, non è immune dagli angoli, dal polimorfismo dell’esistenza, e anche in questo tipo di realtà il movimento oscillatorio tra stabilità e caos manifesta la sua pervasività, per cui alla fine niente tiene, niente è immune dalla disgregazione:

Sistema il nodo alla cravatta, la

tortura con accorta compostezza

(riflettono gli occhiali qualcosa che

si spezza). […]

 vv. 5-8 da Francisco

All’accorta compostezza del nodo della cravatta, qualcosa di nebuloso e poco chiaro si riflette negli occhiali, con la rima iperconnotata compostezza – spezza. Ma quello che colpisce, ancora una volta, è la posatezza della forma, la sua compattezza: questo testo, Francisco, non solo è composto da sei terzine, il che già comunque riporta ad un ordine, una struttura, ma addirittura la prosodia, la metrica riprende l’alta nobiltà endecasillabica, certo variata, contemporanea diremmo, ma pur sempre endecasillabica, con tutto il significato implicito che si porta dietro.
Potremmo dire che è un libro in movimento, Doveri di una costruzione, un libro di poesie che inscenano il magma umano, un libro che non permette a chi lo legge di fermarsi ad una considerazione stabile e univoca. Si attraversano strade, fiumi, persone, situazioni per riemergere dall’altra parte, con degli smottamenti che si rifrangono non solo sulla realtà, ma anche sull’io. E anche qui, dove tutto sembra altro, di fuori, riteniamo che non manchi l’introflessione di Davide Castiglione, l’interrogazione implicita a qualsiasi critica che si rivolge verso di sé, verso il proprio ruolo, verso la propria costruzione. Ma sembra che ciò si superi nell’ultimo componimento del libro, ancora collegato al poemetto Giro dei rave e quindi ancora dominato dall’entropia, dallo spasimo, dove pare si attraversi la propria introspezione per arrivare all’interrogazione del lettore, al rilancio etico: «tuoni e morsi di lupo e sono sono / scosso, voi?». Il punto interrogativo chiude questa vacillante raccolta di poesie, che riconferma la voce di Davide Castiglione con una certa riconoscibilità e ne assicura la riuscita: e forse, non c’era modo migliore di terminare un libro del quale il titolo si vuole razionale, ma che all’interno trema, come la fiamma di una candela.


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