Menti sommerse 9. La bellezza che ci rende soli: “Turbative siderali” di Giovanni Ibello

Si propone la lettura critica di Massimo Del Prete a "Turbative siderali" (Terra d'ulivi, 2017) di Giovanni Ibello, da una serie di articoli soppressi usciti originariamente su Menti Sommerse. [L'immagine è stata generata dal nostro AI di fiducia, Fractor Ignotus]

Turbative siderali di Giovanni Ibello esce per le edizioni Terra d’ulivi all’inizio del 2017. È l’opera di esordio di questo poeta e, forse per questo, è ancora più bello e importante parlarne. Come a segnarne il passo, a illuminare il terreno smosso dal nuovo solco lasciato: ancora di più se l’opera ha il valore che questo libro dimostra.

Nella sua postfazione Francesco Tomada apre dicendo che «viene davvero difficile, leggendo Turbative siderali di Giovanni Ibello, pensare che si tratti di una raccolta d’esordio». Ma cosa significa una frase del genere, che chi legge poesia e critica della poesia riconosce quasi come un noioso mantra?
Semplicemente, che chi scrive, nonostante la presumibile l’incertezza che accompagna ogni primo passo, è invece già al punto in cui si sviluppano un linguaggio e una visione, il punto in cui si comunica pienamente attraverso gli strumenti e la simbologia del mezzo: il punto, cioè, in cui si inizia a fare poesia.

Non dovremmo mai lasciarci ingannare dall’età di chi scrive e soprattutto di chi scrive pubblicamente: il poeta avanti con gli anni e con numerose raccolte all’attivo rischia forse più del giovane esordiente di cadere in una retorica sterile o melensa, quando non nell’autocompiacimento. Chi parla di poesia dovrebbe sempre esimersi dal pregiudizio e, come in ogni discorso sulla letteratura, lasciar parlare il testo.

L’ULTIMO RANTOLO DEL SOLE

«Perché dopo la morte
resta solo il nome
e un silenzio irrisolto
uno sfrigolio di corpo
che si decompone. […]»

Sebbene sia comunemente il mio metodo, quello di analizzare un libro di poesia attraversandolo in linea retta, qui questo tipo di percorso risulta ancora più necessario. L’opera di Ibello, infatti, non ha solamente tre sezioni ma è, piuttosto, tripartita secondo uno schema che analizzeremo più avanti: il tipo di messaggio e dunque la forma di comunicazione scelta sarebbero travisati se saltassimo qua e là di testo in testo.

L’avvio ci pone già in una dimensione ulteriore che, momentaneamente, ne esclude ogni altra: «di quello che sognavi veramente | non resta che un silenzio siderale». L’esistenza presente, quella ad occhi aperti che riteniamo conforme al concetto di realtà, si condensa nell’avverbio“veramente”, per essere negata in blocco. L’io sembra come materialmente risucchiato all’indietro, in una recessione spaziale indistinguibile da un avanzamento a velocità superluminali (per qualche motivo non riesco a non pensare a qualche scena di 2001: Odissea nello spazio).

Da qui, si accumulano in cascata correlativi dell’ambiente cosmico: «recessione delle stelle», «teatro spaziale». Difficile figurarsene i confini e dunque si resta gonfi di un terrore innominato: ma il senso della disperazione o della resa non stanno solo nello scontro con l’infinitamente grande, quanto nei dettagli celati dallo smog della città: «sirene accese», «muri crepati», quando «l’acqua scanala nelle fogne».

È incredibile la concentrazione di questo primo testo, in cui i macrotemi della raccolta si addensano per poi esplodere e declinarsi nelle pagine che vengono. L’io dorme e resta incatenato in una serie di visioni il cui simbolismo confina con l’assurdo ma che puntano in blocco verso il terrore di esistere.

L’idea della vita come minaccia è accentuata dai moltissimi animali perturbanti insinuati nel sogno: «gatti randagi», «cernia ermafrodita» (si aggiunge qui la sinistra minaccia dell’ambiguità sessuale), «antilopi erranti», «cormorano che brucia», «libellule in amore». Esseri che paiono osservare di sbieco un io catapultato in un Altro-Mondo, in cui la paura è un organismo cosciente.

Qui il paesaggio è dotato di un corpo biologico («Il diaframma | è sotto l’arco del giorno»), è tangibile e tangente ai pensieri dell’io, intento a resistere alla sua stessa catabasi. Delle vite vissute fuori un quadro desolante, asettico: la vita come riproduzione è mero meccanismo (in questo senso bellissima la metafora delle unghie che continuano a crescere dopo la morte: «ma le unghie sono spade lucenti | ancora troppo legate alla vita») mentre, da questo lato, tutto ciò che si può fare è «venire meno», scrivere «di vuoto», quel vuoto che sostanzia e sorregge l’esistenza e ne fa un treno che deraglia verso la morte.

Le voci che risuonano da questi testi sono quasi sempre incorporee, vengono da un altrove che non si identifica: «“Cosa ti rimane di quella notte?”», si legge come pescando nel nulla, mentre sono rarissime le interlocuzioni più specifiche, reali. Come in questo testo, splendido che ritengo opportuno riportare per intero:

«Aspettiamo
il rovescio delle faglie
nel perimetro
slabbrato di un orgasmo.

È solo un quotidiano
addestramento sulla fine,
la sola frontiera dei vivi.

E avremo tante trame d’oro
intrecciate sulla schiena
fino a stringere i fianchi
in una morsa, per rendere
l’aria, le mani, le vene
la bocca, le ossa
tutto il resto.»

L’io perduto, forse beato nel deliquio di un orgasmo, forma estrema di dis-trazione, di incoscienza, di disperata resistenza nel piacere contro una vita che fagocita nella bolla del suo buio, nei graffi dell’amore che si fanno «trame d’oro», il segno di chi ha tentato di sottrarsi al flusso.

È il linguaggio stesso a farsi divinatorio e a rendersi, pur nella difficoltà dell’interpretazione, visione in sé, quasi puro suono«il tuorlo magnetico dell’alba | si sgretola nei cardi’, ‘il carro degli arcani | scende il crinale dei monti»sono solo alcuni esempi ma si presentano come il codice necessario per decifrare la profezia di questo testi.

Che la vita va verso la morte e poi quest’ultima si accartoccia nuovamente su sé stessa, portando a poco prima dell’inizio, alla pre-esistenza. «Mai nessuno | ci ha chiesto di essere vivi»: la vita ci è imposta come marchio o maledizione e il destino dei corpi è il decomporsi oppure «un silenzio irrisolto».
Nascita come terrore di lasciare l’abbraccio suadente del buio per una follia di luci accecanti, dentro cui siamo strappati e gettati e a cui, quasi non sapendo, vogliamo sempre ritornare («Perché dopo la morte […] | le mani strette al petto | sono quelle del feto | che per istinto | si difende»).

Prima della fine, la visione del futuro – la sua divinazione – è anticipata da«una retrospettiva lenta dell’infanzia», primo vero luogo di felicità e amore. Un movimento a molla «poi il respiro si risolve | in un orgasmo neuronale», come se l’anima si apparentasse chimicamente al corpo prima di annullarsi.
La preveggenza è quasi conclusa e la visione inizia a uscire da sé stessa, i simboli riassorbono le proprie stratificazioni, le “turbative siderali” vibrano di energie residue, mentre il «corpo che ritorna seme» si rifà uno con la terra.

TURBATIVE SIDERALI

«Anche tu la chiami morte
questa armata silenziosa senza lume? […]»

La sezione centrale, ed eponima, assume da subito i contorni di un lento trapasso, una trasmigrazione che si concluderà soltanto nell’ultimo blocco di testi. Il processo sembra quello di una progressiva “realizzazione”, un farsi cosa che in questi versi centrali è però ancora lontano da oggettualità e materialità.
L’io è infatti fermo su una soglia, tra interno ed esterno della coscienza («se non vuoi arrivare alla lacerazione»), immobile su un ciglio («ma quanto è fragile | il diadema dell’alba»): ciò che nella sezione precedente era pura visione qui, pur all’interno di un ambiente sempre cerebrale, inizia a trasformarsi in idea. Non più allucinazione ma interpretazione delle immagini in una chiave più logica e razionale.

Da subito, affacciarsi alla vita significa accostarsi al discorso sulla morte, due concetti che nella raccolta si scambiano continuamente di posto. Bellissima in questo senso «Studi sulla fine’: ‘così penso che è facile morire | c’è solo da capire bene | che significa “lasciarsi andare” | seguire la parabola del volo», che può stare sì per la morte ma anche per il tentativo della vita, se vivere è come planare, non volare ma di certo esserci.
Vita come «resistenza delle unghie nere», meccanismo più forte della volontà, il cui unico desiderio è la trasmissione dei geni. E tuttavia debole, impotente, marchiata da un peccato originale o quantomeno già siglata dalla morte:«il pensiero è troppo vile per restare | mentre il corpo, ancora vivo, | si abbandona».

Accanto a questo, penetrante non più come divinazione ma come conseguenza del reale, c’è il distacco tra gli esseri, in molte situazioni indistinguibile dalla morte o dal passato per il suo carattere di irrevocabilità. «“Lasciami andare. | Come si lasciano andare i morti”», dice un tu ricorrente nella sezione, ambiguo e indefinito come l’amore che incarna.

Amore che sembra essere lo strumento per trascinarsi fuori dalla palude della visione e introdursi alla realtà, ma che è quasi sempre ritratto nel dopo, oltre la sua conclusione. A fronte di momenti di comunione («Misuriamo le distanze coi respiri»), di innalzamento sulla trappola della vita («un’equazione che si risolve | in questi pochi respiri profondi | che ti concedi quando tremano le mani»), di strapotere nel sesso («il fiato che disarma la parola, | la bocca ad asciugare la tua fica»): il resto è separazione, distanza, morte per assenza di contatto.

«Quello che manca, | […] è tutto ciò che ci appartiene veramente’ oppure ‘è immorale | la bellezza che ci rende soli», la forza residua di un legame spezzato. Di fronte a questo retrocedere anche la lingua perde compattezza: altri codici cercano di sopperire alle mancanze dell’italiano («Band de macaques, je ne parle pas votre langue», con il ritorno di animali perturbanti, in compagnia, nello stesso testo, di iene e antilopi), fino a giungere alla completa intraducibilità. Nasce così una «poesia che non riesco a dire», espediente metatestuale che chiude la sezione con versi di straordinaria portata immaginifica in cui l’estremo – o disperato – tentativo di comunicazione si risolve in «due occhi sgranati che si scrutano | dal mezzo di una feritoia».

Nonostante questo, è il terzultimo testo a fare da chiusa effettiva della sezione, non fosse solo per la grande mescolanza di registri. I temi si rifondono insieme per poi, come accadeva nella sezione precedente, scoppiare e disperdersi come frammenti di granata nella città, tra le vie, nei luoghi di una realtà autentica e screpolata. Basta un uso consapevole della lingua per riuscirci, poche parole al posto di altre, basta passare dalla «placenta degli astri» a una partita di calcio guardata in tv, quando le mistificazioni scompaiono e la nudità dell’esterno ci invade: «Adesso, | mentre tutto questo accade | non ci sei più. || Sei andata via dopo avermi detto | che l’unico silenzio che comprendo | è l’attesa di un calcio di rigore.»

SCENA MADRE

«[…] E mi piace pensare
al respiro dei cardini,
ai palpiti dei basamenti
ai rituali d’amore inascoltati
nell’endometrio delle case.»

A questo punto possiamo davvero compiutamente ripensare alla tripartizione della raccolta e al tema dell’intero libro: così facendo non riesco a non fare un paragone con ilTriperunodi Edoardo Sanguineti. Si tratta di un’opera composita che riunisce tre raccolte uscite progressivamente: Laborintus, Purgatorio dell’Inferno i Erotopaegnia.

Leggendo l’opera ordinatamente diventa chiaro, alla fine, come il discorso prenda avvio, in un complicato castello allegorico, in una simbolica palude (la «palus putredinis» che a qualcuno potrebbe suonare già familiare), un luogo lunare e fangoso in cui l’io si muove con fatica e con dolore. Due sensazioni che si specchiano in un linguaggio ora disarticolato, ora stratificato e composito a tutto vantaggio di un discorso visionario e divinatorio.

Passando, quasi letteralmente, attraverso le raccolte l’io di Sanguineti scopre una maggiore coerenza linguistica e affacciandosi nella realtà si apre a una comunicazione più piana, immerso in una vita fatta finalmente dei suoi dati oggettivi.

Ibello fa qualcosa di molto simile, in modo quasi ovvio ormai in questa sezione finale in cui emergono tutte le conseguenze della vita per come è, nella miseria delle sue fondamenta.

Sin dall’avvio, quando parlando presumibilmente di un nuovo nato si dice che «il suo destino era la cenere | la diossina», prefigurando dal primo respiro ciò che saranno «i nostri corpi | quando saremo morti».I primi testi, infatti, martellano sul dolore o sull’insensatezza dell’esistenza anche, o soprattutto, quando è privata di sovrasensi metaforici o simbolici. Anche il valore della tregua – la pace “aneddiana” – è negata poiché «la guerra non finisce | solo perché non la vediamo».

Vita di nuovo mutata, come guerra o lotta impari a cui siamo condannati dall’amore di altri prima di noi – ironico e paradossale metterla in questi termini, ma non meno vero –. Guerra che si fa nella «corsia di un ospedale» o anche solo svegliandosi e tenendo testa «al giorno che si schianta sopra ai vetri».Gli esseri umani di questa sezione, innominati ma infine reali, condividono tutti la stessa miseria e sopravvivono come possono in una Napoli tratteggiata con «diossina», «eternit», «marijuana», «copertoni bruciati», come a evidenziarne il corrispettivo fisico più squallido: «[…] due uomini rollano erba | sul sedile sbrindellato di una Panda, | con la fiancata rigata da una chiave».

Gli stessi uomini, forse «fratelli minori» che tentano una resistenza quasi rituale quando «fanno per riempire di sabbia | le tasche dei jeans: | cercano di sottrarre al mare la sua terra», cercano di riprendersi ciò che gli è stato tolto solo nascendo.
C’è un senso dell’ineluttabile in questo, in «un sole nero che brucia, | impenitente, senza perdono», come se fosse impossibile tornare indietro e ogni tentativo non avesse conseguenze sulla nostra condizione. Non c’è rimedio alla «solitudine degli uomini», nulla più di qualche gesto di pietà o di gentilezza come la donna che nel testo Dieci decide di estirpare l’erbaccia da un murales di Maradona, pur sapendo che«“l’amore perduto non ritorna”».

Anche la lingua di Ibello tenta un compromesso, mescolandosi ancora su vari registri, accostando «eternit» e «folgore», «vapori petroliferi» e «cigni arenati», ma niente può redimerci e come in un rigurgito tornano dalla prima sezione animali perturbanti che là erano moniti, qui ultimi traghettatori. Uno stormo di gabbiani, colombi, cigni, rapaci che ci risucchiano nel loro frullio d’ali e in circolo ci riportano al sonno, «solo un trespolo | un’altalena per gli uccelli che migrano».

Dopo allora, «quando saremo morti», di noi resterà forse un vago segno, «come un’idea | il graffito di dio». In un tale affresco solo la morte si presta alla nostra liberazione o, in qualche senso, al nostro tornare indietro. Non c’è altro dopo il salto ma se ci fosse tutto sarebbe indistinto, un mormorio che non ci riguarda più: «E sarà bellissimo» quando «il mondo fuori, la terra dei fuochi | l’aria cinerina | non sarà che un parlare ozioso». 

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