Giorgio Ghiotti / Sparare a zero. Intervista e testi

Per la sesta puntata del format "Sparare a zero", la redazione intervista il poeta Giorgio Ghiotti.
  1. Tra i libri usciti negli anni Duemila, puoi indicarne 5 fondamentali per il tuo percorso?

Da mani mortali di Biancamaria Frabotta; Tatuaggio profondo di Antonio Veneziani; Felicità senza soggetto di Mario Santagostini; Barlumi di storia di Giovanni Raboni; Solstizio di Roberto Deidier.

  1. Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana? Per chi scrivi poesia?

Si riflette nella misura in cui si frequentano persone (amici) che, come voi, leggono o scrivono poesia. Se è di un’influenza invece che si parla, non credo. Se mai è la vita a riflettersi sulla poesia, e a influenzarla – e un esempio immediato è dato dai luoghi che abitiamo: io credo che se fossi vissuto altrove, e non a Roma e, per breve tempo, a Milano, la mia poesia sarebbe stata parecchio diversa. È che siamo tutti “impaesati”, e credo questo per un poeta valga anche di più.
Per chi scrivo poesia, mi si chiede. E io penso alla risposta di Antonio Veneziani quando gli chiesero “perché scrive poesia?”: “per farmi degli amici”. Il che è molto meno banale di quel che può sembrare. Io scrivo poesia per alimentare e continuare il dialogo con gli amici scomparsi, magari mai conosciuti, che sono per esempio i poeti amati di ieri (ed è un dialogo che mette in campo la lingua, che è il corpo della poesia, e dalla poesia degli amati si lascia informare), ma sono anche quelli che verranno – e qui potrei dire che si scrive, come diceva un poeta da me molto amato come Fortini, per la “gioia avvenire”, per (e qui rubo invece a Spaziani) la “mano che volevo con i miei versi / stringere fra due secoli a un ragazzo”. Non credo sia un caso che il mio ultimo libro, Ipotesi del vero, siano in realtà due: uno dedicato ai cari scomparsi, e uno a un bambino di un anno. Quindi sì, abbozzata la complessità della risposta di Veneziani, direi anche io che scrivo per farmi degli amici. Per chi vorrà dialogare, rispondere, diffidando del silenzio.

  1. Senti di fare parte di una comunità poetica a cui aderisci? Com’è il tuo rapporto con altri poeti viventi e con chi ti legge?

No, non sento di far parte di una comunità poetica. Un dato anagrafico: i poeti della mia generazione hanno ormai trent’anni, e io credo che il fare gruppo, il sentirsi parte di una comunità poetica, sia qualcosa che appartenga alla prima giovinezza, quel momento in cui è fisiologico e sano il cercare insieme un denominatore comune della propria poesia, anche come ricerca di una propria identità di poeta. Poi, arrivati a trent’anni, si capisce che la propria voce è unica, che diventa una forzatura stare dentro gruppi o comunità poetiche, perché la poesia è qualcosa che si fa, fondamentalmente, da soli. Questo non vuol dire che non sia importante avere forti e radicate amicizie con altri poeti, con i quali confrontarsi e dialogare; ma divenuti adulti anche la poesia deve prendersi la responsabilità di camminare sola, non fosse che per capire se ha gambe abbastanza forti. Non fosse che per tornare in un coro con voce più limpida, inconfondibile. Per questo, anche, credo che le riviste di poesia appartengano alla giovinezza, almeno quelle di “indirizzo” (con Bezoar, che ho fondato e diretto per i primi numeri, e che poi ha chiuso nella sua prima veste per problemi editoriali, ho cercato di fare una rivista non di indirizzo, cioè non guidata da un singolo gusto o filone, ma una rivista che fosse accogliente e aperta verso le molte e multiformi tipologie di poesia che si praticano oggi in Italia, pubblicando talvolta la poesia di poeti che sento da me lontanissimi, e che per gusto non regalerei mai, ma dei quali colgo comunque il valore). Dopo i trent’anni, il rischio del gruppo e della comunità poetica è quello della trasformazione in enclave, in clan. C’è il rischio di arroccarsi, di incattivirsi. E non si scrive buona poesia quando ci si incattivisce.
Dico per chiudere che nessuno dei miei coetanei mi ha mai desiderato all’interno della propria comunità poetica (parlo di quelli che sono andati, negli anni, fondando riviste o scrivendo su blog e siti). E questo atteggiamento, che non è un selezionare ma un rimuovere, ha colpito anche altre voci non assimilabili della poesia giovane. Allora, con quelle voci, abbiamo creato un legame più prezioso ancora di quello della poesia: quello della vita. Di contro, i miei interlocutori sono stati da subito i poeti delle generazioni più avanzate, quelli che non hanno bisogno di dimostrare più nulla e non temono di togliersi qualcosa nel riconoscerti. Nella prosa non è così; i miei amici/colleghi romanzieri coetanei si leggono tra di loro, si frequentano, con onestà si dicono ciò che pensano. Non si rintanano in gruppi o “chiese”, cosa che, nella prosa, appartiene più a una generazione mediana, specialmente quando di mezzo ci si mette il potere editoriale, o peggio ancora quello dei social. 

  1. Senti di inserirti all’interno di una tradizione poetica italiana? Avverti una particolare vicinanza con tradizioni poetiche in altra lingua?

Non avverto una particolare vicinanza con tradizioni poetiche in altra lingua, pur leggendo e amando molti poeti stranieri, su tutti (mi attengo al secondo Novecento) Wilcock, Walcott, Bonnefoy. Per quanto riguarda la tradizione poetica italiana, sento di inserirmi all’interno di quella che viene chiamata la “scuola romana di poesia”, che è in verità fatta quasi esclusivamente da non romani, che ha un respiro ampio, e un passato ricco, ed è sempre stata caratterizzata non da una poetica, ma da una naturale comunione d’anime. Se davvero posso inscrivermi in questa tradizione, ne sono felice.

  1. Sapresti indicare una forma artistica e una disciplina scientifica, se ci sono, che influenzano più di altre il tuo processo di scrittura? In che modo entrano in poesia?

La musica, senza dubbio. Ho studiato per dodici anni pianoforte, e l’orecchio musicale è lo stesso di quello poetico. Bisogna sempre tenere conto che la musica di un testo poetico, come quella pianistica, non ha un solo ritmo e una sola cadenza. Spesso diciamo “è musicale” di una poesia, per esempio, di soli endecasillabi; ma è musica tanto Mozart quando Rachmaninoff, tanto il regolare sviluppo di una sonatina classica quanto i grandi rubati di una elegia tardoromantica. Tanto Sandro Penna quanto Amelia Rosselli. Si tratta semplicemente di due musiche diverse. In poesia, poi, l’insieme complesso e affascinante di elementi che chiamiamo “musica”, vanno sotto il nome di “prosodia”. Si commette un errore nel tenere conto, leggendo un testo in versi, unicamente del ritmo, o unicamente della sillabazione. C’è il respiro, il passo (cadenzato o claudicante), l’accento, proprio come nell’esecuzione di un brano pianistico… le poesie sono organismi complessi, ma il vero poeta è chi non avverte, mentre crea, la complessità di ciò che sta scrivendo. Il poeta è l’ignaro.

  1. Che rapporto hai con la metrica e la rima?

Non le cerco a ogni costo sulla pagina, ma a volte mi trovano loro. Ed è sempre bello sentir cantare una poesia. Del resto l’endecasillabo, verso principe della poesia italiana, canta come nessun altro. Alcuni critici hanno notato come nella mia poesia l’endecasillabo percepito dall’orecchio sia poi sulla pagina “spezzato” (esempio: in rapida / contesa col tuo passo). È vero, e credo sia una peculiarità metrica – naturale, non cercata – della mia scrittura in versi. La rima, se è voluta a ogni costo, è la cosa peggiore di una poesia, e se ne riconosce immediatamente la natura truffaldina. Quando è invece giusta, cioè quando serve a dire proprio una cosa che non potrebbe essere detta altrimenti, è la massima gioia per chi legge. Io non utilizzo molto le rime, ma mi accorgo a posteriori di fare un uso considerevole delle assonanze. Poi certo, l’uso della rima, di una certa metrica, o di modi espressivi e materiale retorico dipende anche molto dalla propria formazione di lettore.

  1. Tra le nuove generazioni ci sono 3 poeti che ritieni particolarmente preminenti o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Non tre ma quattro nomi: Ivonne Mussoni, Giorgiomaria Cornelio, Sacha Piersanti e, spostandomi appena di una generazione più avanti, Marco Corsi.

     0. Acer in fundo, se non vuoi dirci 3 poeti contemporanei che proprio non ti piacciono, puoi indicare uno o più testi del tutto distanti dal tuo modo di ‘sentire’ e ‘pensare’ la poesia?

Tre nomi di autori della generazione di mezzo distanti dal mio modo di sentire e pensare la poesia (non faccio tre nomi di miei coetanei, perché mi sembra ingiusto indicare dei percorsi agli inizi, ancora in formazione): Alberto Pellegatta, Tommaso Di Dio, Domenico Brancale.

***

Ti chiediamo ora di proporci alcuni tuoi testi poetici.

da Ipotesi del vero (LiberAria, 2023)

bagna i fiori e aspettami
prima che passino i volti,
prima che sciolti gli indugi
scoloriscano i giorni –
i notturni incontri – i cortei
al mattino – i fumosi ideali che sei
stato un tempo – quando l’alito avevi
di santa rabbiosa gioventù – di vino
dolce – ingombre le ore
di slogan da tirarci su mondi – 
bruciare momenti – calpestare
tra fiori azzurrini tutti
e cinque i continenti

*

Ma dove vai col tuo gilet blu mare
col vino in mano e il passo ciondolante
come se fossi preda di una festa
di quelle feste da non badare a spese
di dove vieni via fin troppo presto
non proprio delusa, piuttosto insoddisfatta
ma pure allegra e grata di una grazia
che ha scelto te, due baci sulla soglia.

*

La cucina è il regno degli insonni,
il dolce basso continuo del frigo
è un respiro notturno, familiare,
fiato amico e discreto, ricordo
del mare in risacca nel buio,
primo amore. Entro in cucina
come in un sacro tempio da bambino;
quasi le cinque del mattino e di là
dormono da quasi cinque ore, si fa
carica di sogni l’aria, si fa segreta
e nota, pota i ricordi e inscena anni:
mia madre piegata sui fornelli
dà l’acqua a una pianta che credevo morta.
Cura di notte l’incurabile. È mestiere antico.
Tra lavello e frigo una magia si compie.
Dentro qualcosa balla.

*

Inediti

Fontana dei Quattro Fiumi

I monumenti sono fatti per accogliere
la solitudine più che lo stupore.
(Lo si capisce dalla dolcezza della luce,
da come in certe ore si è propensi
a sperperare, davanti ai Quattro Fiumi,
interi i battiti del cuore.)
C’è da chiedersi cosa fotografiamo
– l’effigie di un volto, un profilo di moneta –
quando in un flash stendiamo
con la pietà di un velo
sulla vicenda segreta di una pietra
questo facsimile di eterno. 

*

Scuola di Piazza del Popolo (Renato Guttuso)

Quand’era nata in me quella visione
che mi portava a preferire il nulla
della notte al popoloso nulla dei sogni.
Come un cane l’osso scavavo dritto al fondo
per ritrovar me stesso, per essere a me stesso
forma e colore, per non esistere soltanto entro i quattro
legni chiodati di una tela. Altro era il bisogno,
il gesto che rivela della mano sul foglio
la magia di un cavallo, una cesta di verdura,
o la scorza di limone che in un sogno
dirada col suo verde ogni paura.

***

Giorgio Ghiotti (1994) è nato e vive a Roma. Ha esordito nella narrativa con i racconti di Dio giocava a pallone (nottetempo, 2013) cui sono seguiti, in prosa, Rondini per formiche (nottetempo, 2016), Gli occhi vuoti dei santi (Hacca, 2019, finalista Premio Flaiano e Premio Mastercard), Atti di un mancato addio (Hacca, 2021) e Le cattività domestiche (Fve, 2022). In poesia ha pubblicato: Estinzione dell’uomo bambino (Perrone, 2015), La città che ti abita (Empirìa, 2017), Alfabeto primitivo (Perrone, 2020), La via semplice (Ensemble, 2020, Premio Paolo Prestigiacomo), Biglietti prima di andare (Ensemble, 2022) e Ipotesi del vero (LiberAria, 2023). Ha pubblicato inoltre i saggi Mesdemoiselles. Le nuove signore della scrittura (Perrone, 2015), Via degli Angeli (Bompiani, 2016) e A Roma. Da Pasolini a Rosselli (Perrone, 2022). Ha insegnato Poesia contemporanea alla Scuola Holden di Torino, lavora come editor e scrive sulle pagine culturali de “il manifesto”.

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