Antonio Scialpi | Carne incognita. A dialogo con Berenice Valerio, con una nota di Francesco Ottonello

Vi presentiamo un dialogo-intervista, condotto da Berenice Valerio, a Antonio Scialpi, poeta del 1998 al suo esordio con "Carne incognita" (Ensemble, 20019), con una nota introduttiva di Francesco Ottonello.

Ho trovato questo primo libro di Antonio Scialpi fresco e autentico a livello stilistico-tematico, in un panorama poetico che sa essere spesso una brodaglia calda riscaldata, con sapori (voci) poco distinti, con esiti che tendono sul nascere all’usura, ricalcando piatti cliché, offrendo una visione del mondo da punti di sguardo simili e – peggio che mai – noiosi. Si possono perdonare facilmente alcune ingenuità, incertezze in un libro di esordio, e forse è importante che punti acerbi ci siano, ma non quel tedio, dato da una ripetizione dell’ovvio.
L’originalità qui sta proprio nella prospettiva, nell’itinerario tracciato con audacia e percorso con consapevolezza, dentro e nonostante la carne, a partire dalle bolle parentali e sociali, attraverso le proprie incognite, il proprio corpo, che sfuma e non si ritrova nella tribù dei maschi. Una poesia che prova a estirpare i suoi fantasmi, che si generano anche dal conflitto tra ethos sociale e inclinazione individuale, vivendone le maledizioni. Bisogna accettare l’incubo, elaborare il rifiuto, per accogliere lo spacco dell’eros, farsi attraversare dalla vita e dalla propria poesia.

Francesco Ottonello

Berenice Valerio: L’andamento talvolta incespicante, curiosamente musicale, tende a inghiottire il lettore, il quale si ritrova come immerso nella visione di un film; si potrebbe distogliere lo sguardo dallo schermo/pagina, ma non accade. La ricerca di una regolarità sembra avvenire solo al fine di sorpassarla: l’effetto raggiunto è una voce poetica difficile da confondere. Come è stata, e come avviene tutt’ora, la tua ricerca stilistica? Inoltre, mi domandavo se il tuo stile poetico è legato al rapporto che secondo te intercorre fra poesia e realtà.

Antonio Scialpi: Anzitutto ti ringrazio dell’attenta lettura. Vorrei poter rispondere in maniera semplice alla domanda riguardante la mia ricerca stilistica, ma la verità è che non ho uno schema, o una scaletta. Procedo per salti, tentativi, “lampi”. Riesco a legare facilmente le due domande proprio perché la mia scrittura e i suoi cambiamenti sono strettamente legati a una parte di realtà. Molti dicono di scrivere diversamente da come pensano, per quanto mi riguarda invece per me è il contrario: nello scrivere sono in balia della mia mente, che elabora e restituisce quasi intatto il pensiero che ho delle cose, proprio mentre le vedo, le provo, le penso. Una sorta di mente poetante in continua costruzione, che codifica ciò che elabora, costruendolo. C’è sì una parte di cesello, rifinitura che avviene dopo, ma cerco sempre di tener fede al pensiero originario sulle cose. Quindi in realtà la mia ricerca stilistica avviene così, leggendo, guardando, vivendo, facendo le cose o non facendole.

Berenice Valerio: In che misura è rilevante, nella tua poetica, la ripresa di alcune figure dell’antichità greca? Mi riferisco, in particolare, a Prometeo e al mito di Persefone. Sapendo che fra i tuoi molti interessi c’è anche l’esoterismo, sorge una curiosità: tali divinità sono state “invocate” di proposito?

Antonio Scialpi: Quando si cita un episodio o una figura della mitologia si fa riferimento a qualcosa che tutti facilmente raggiugono o conoscono: un immaginario, un motivo. Di base credo esista per tutti una fascinazione verso queste storie che esistono come cose non realmente create ma piuttosto ritrovate, come da sempre presenti. Credo di aver fatto quello che fanno in molti: ho preso alcuni di questi motivi e li ho personalizzati, declinati al racconto che andavo a fare. La poesia mi piace anche per questo, perché come il mito permette la creazione di un racconto che non obbedisce per forza a convenzioni narratologiche per risultare “credibile”. Anzi, se non lo fa per quanto mi riguarda è meglio. Ho preso ciò che mi affascina, la cultura pop, le dimensioni perturbanti e inferine, le figure arcaiche e ho cercato di renderle in qualche modo coerenti tra di loro, facendole dialogare. In questo senso queste figure sono servite – a me – per mettere in gioco qualcosa di nuovo quando vengono invocate in situazioni o momenti non legati al loro immaginario di appartenenza. Significa prendere in considerazione una possibilità nuova. Le invocazioni, per quanto mi riguarda, sono sempre causali. Bisogna essere umili, accogliere ciò che hanno da dire, con rispetto ma senza abbassare la guardia.

Berenice Valerio: Riguardo a Prometeo, mi è parso di scorgere a più riprese il tema del dono. I “doni d’ombra” sono sempre strani pasti, tutt’altro che appetibili. Anche la poesia dedicata al titano filantropo lascia intuire che l’io lirico è concentrato soprattutto sul risvolto illusorio del dono: la grande colpa di Prometeo è stata quella di distogliere lo sguardo dell’umanità dal proprio destino, la morte. Non a caso la quinta sezione del libro, Le ultime cose del mondo, si apre con questo componimento e si chiude con alcuni versi dedicati a Persefone, regina dell’Oltretomba. È una circolarità che sembra rivendicare una presa di coscienza e la volontà di ribellarsi dalla speranza/illusione, ma non solo. La scrittura dell’intera raccolta ha avuto, in qualche modo, una simile valenza? Ogni regalo è allo stesso tempo un terribile incubo: si tratta della carne incognita che torna a sé stessa sotto forma di pasto?

Antionio Scialpi: Questa domanda/riflessione è così bella che mi piacerebbe non scrivere nulla. Vorrei lasciarla così, come un’eco. Mi sforzo perciò di dire qualcosa, sperando di non abbassarne necessariamente il tono o di sviarla. Il dono di cui parlo nell’opera è un dono che non crea propriamente legami, ma piuttosto serve a confermare un dominio, ad aumentare una certa disparità, a stabilire un controllo come fosse un ricatto. Questo non viene veramente percepito come tale; “un dono è un dono”, i regali si accettano e basta. Cosa si sceglierà di farci è un altro paio di maniche. La scrittura della raccolta ha avuto una valenza simile, certo. Credo anche che ogni regalo possa essere una sorta di monito, un bivio. Il nodo di Prusic è stato questo per me, più ci si divincola e più stringe, e contiene al suo interno l’insegnamento che mi ha dato il mondo del queer. “Provo a rifarmi dallo scarto”, da quella stessa carne incognita trascendere le convinzioni, altrui e proprie. Provare a essere altro, modificando se stessi per cambiare il mondo contiguo.

Berenice Valerio: La pena inestinguibile di Prometeo è misura della sua colpa, l’aver voluto sottrarre gli uomini alla morte, che più di ogni altra cosa li distingue dagli dèi. E a proposito di punizioni, non ho potuto non notare il riferimento a Sorvegliare e punire di Foucault; in esso è presente una tesi secondo la quale il potere politico ha sempre esercitato, in maniera più o meno plateale, una sorta di violenza sul corpo del condannato. La dimensione corporea nelle tue poesie è decisamente rilevante, tanto da raggiungere il titolo dell’opera. Il corpo diviene un campo di battaglia. Quali sono le forze in gioco? È attraverso la moltitudine di ferite presenti in questo corpo dilaniato, insufficienti per annientarlo, che l’io lirico è in grado di raggiungere e di “vedere” i morti presentati nella raccolta?

Antonio Scialpi: Non credo esistano fazioni. Quando penso al corpo nell’opera penso a un corpo che ha accettato tutto ciò che ha subìto, sia la violenza vera e propria, che quella delle carezze, della delicatezza, non meno inquietante agli occhi di chi non conosce altri modi. È un luogo contraddittorio il corpo, è la vittima dei rituali di cacciata pubblica dei mali: è criminale ucciderla, perché essa è sacra; ma non sarebbe sacra se non la si uccidesse. Non credo che sia attraverso questo corpo che l’io lirico raggiunge, vede, evoca i morti; per quello non so cosa serva. Magari le visite dei morti sono conseguenza di queste lacerazioni, o magari no. So però che il corpo ferito serve per essere ricomposto, serve a ricrearsi. Così come lo sparagmos è collegato alla resurrezione, ciò che subisce il corpo in Carne incognita è la rappresentazione dell’imposizione di un ordine culturale alla natura.

Berenice Valerio: La figura paterna assume sempre connotati negativi, se non mostruosi. Tenendo conto di alcuni riferimenti ad uno stato di prigionia, nonché del cenno foucaultiano di cui si è parlato in precedenza, è lecito intravedere una critica al sistema patriarcale?

Antonio Scialpi: Certo. Le figure “maschili” della raccolta sono figure connotate, diciamo, non positivamente. Sono uomini che portano doni e segregazione, che incitano al raggiungimento di un modello standard. Sono figure abusive, che esercitano il potere che hanno nelle proprie mani, dalla posizione di privilegio e forza, per sottomettere o schiacciare. Consiste in questo la fuga, nello scappare da questi esseri cresciuti nella convinzione che la propria mano sia l’arma principale del raggiungimento delle cose: tenderla per afferrarle, chiuderla a pugno per allontanarle. Credo di aver sviluppato nel tempo una sorta di timore negli uomini, non identificandomi in loro ho sempre trovato conforto nei mondi confinanti con il binarismo di genere. Per questo quando penso al libro lo penso come ad una creatura di confine, queer.

intervista a cura di Berenice Valerio

Quando bussa alla mia porta ma non dice chi è
porta con sé doni d’ombra
a farne pane raffermo.
Mi porta il lattice e la prigione
e ogni cosa a piccoli bocconi
perché mi nutra e sia in salute.
E di queste mura cose ne ha fatto padre?
Di queste mura ne ha fatto scatola.
E di questa scatola cosa ne ha fatto
padre?
Cos’ha fatto per la prole?
Ha fatto retorica:
due buchi
per respirare.
Ma non darò stirpe.

*

La storia terminava
quando scoccava l’ora d’arrivo:

Quando bussa alla mia porta ma non dice chi è
[io corro nella stanza, quella in fondo
al corridoio]
trova le chiavi sotto il tappeto;
aspetta minuti prima di entrare
perché sa che prima mi nascondo.
È l’abitudine di una vita:
ci teniamo segregate, io e mia madre
e l’ombra ci viene a trovare.
Varcata la soglia
[lo sento con l’orecchio
poggiato a origliare]
fluttua fino al tavolo
e lascia lì la carne incognita.
Conto fino a quattro
ed esco: lui è sparito
come mai arrivato;
poggiato il suo regalo:
una poltiglia che rantola sul tavolo.
Una palla di pelle, unghie e capelli:
il ricordo di chi da un incubo
si porta nella veglia
i segni di mostro
che lo morde in testa.

È questo il pasto.

*

I

(Al tempo eravamo larve di terra
vuoti gusci di cicala
consapevoli di avere fine
consapevoli della morte)

E scese in fiamma prometeo
scese sulla terra
e la terra era un dolore
un dolore che l’ascesa
parve catabasi
e in mano aveva il nero
aveva il buio in mano e lo chiamò
speranza: l’oblio il suo regalo:
spense all’uomo la vista della morte
– ognuno si credette infinito
cieco di speranza che non vede.

*

Qui ci passava la mano. La sua, lunga e
ossuta faceva seminario, unità di misura.
(di quando sei stato) tutto quel tempo
lontano da casa
ed io non sapevo quale lingua
a parlare fosse giusta

Sognare è un’arte brutale
l’incubo mi contatta:
guardo in un buio e mi guardo dentro;

mi passa il melograno da mangiare
mi dice: un chicco alla volta, un chicco per
ogni volta che vuoi tornare.

Mamma – lei lo sa: è destinato a
rimanere chi mangia frutta all’inferno.

*

II

Lei
Chiama da un vuoto siderale
da una cabina al margine
del mondo
che è un neon in autostrada
che piove sul vetro dal riflesso spaventoso; piove e lei dice:
«non sono tua moglie», non lo sono mai stata:
lo pensa e basta.

Lui
Rientra nel guscio di un uovo rotto
A strisciarci intorno ci rientra
nel riposo e si chiude
e dentro c’è il nucleo
di una cellula; c’è tutta lei in un filamento
l’accarezza e ci pensa. Non dorme
se sa che non torna
l’aspetta con un occhio
atrofizzato di veglia.

[Margherita, me la offri?
hai da accendere?]

È come se fossero morti tutti;

Lei
Allora una malattia
un male dentro e nascosto
qualche pillola che dice come sta
oggi beneomale
oggi quasiquasi
e le ginocchia tremolanti
(tutto ha sapore di cenere)

Lui
Allora le da una lama:
la speranza di una mensola
che regge al centro;
le dice trafiggimi di getto
aprimi di netto
spacca il legno su cui poggia
il ricordo di chi è vivo.
Ma quando dorme
non sogna nessuno, non sogna
lo stesso

Basterà un pomeriggio;
si preferiscono svegli
fuori dal pregiudizio
dall’uxorio, dal pater nostro,
dalla messa ricorrenza
dal margine d’errore che si scolla:
sorvegliare è punire
in questa casa senza scampo
(e corrono al suono
all’unisono)

Lui al citofono, lei alla cornetta
si spengono le luci del corridoio
si accendono quelle del sottoscala;
si crede sia meglio l’ascensore
(lasciarsi lievitare)
In quel lasso di tempo in due piani
pensano alle ultime cose del mondo:

Margherita apri
sono sotto

Antonio Scialpi

Antonio Scialpi

(Gallipoli, 1998) vive a Pisa, dove studia Scienze della Comunicazione. Nel 2019 è stato selezionato tra i finalisti del premio Bologna in Lettere, nella sezione dedicata agli inediti. Carne incognita è la sua prima raccolta poetica.

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