Werther Gasperini e Tommaso Di Dio | Se l’animo guida il gesto

Tommaso Di Dio intervista l'artista Werther Gasperini (Milano, 1987) frutto di una corrispondenza avvenuta tra Febbraio e Marzo 2020. «Lo studio è vitale e la poesia imprescindibile. Hai detto bene: nutrimento. La poesia non si può sradicare dal suo spazio puramente mentale. Risiede nell’animo ed è la forma orale dell’animo stesso. Non credo si possa farne qualcosa con la materia. Il discorso è all’inverso: l’animo guida il gesto e in quel gesto il poetico si trasforma in altro».

Una cosa che colpisce che si avvicini al tuo lavoro è sicuramente la maturità espressiva. Sembra che tu non abbia tentennamenti su cosa debba essere l’arte. È una falsa impressione? Ci puoi raccontare come sei arrivato a prendere consapevolezza di cosa poteva essere per te il cammino dell’artista?

Ti fermo subito. Tutto per me è tentennamento. Non nell’esitare, ma nella ricerca costante di un risultato, misterioso e sconosciuto. La consapevolezza è la somma dei pensieri, si è guidati verso montagne di nuove domande. Forse essere da sempre in questa domanda violenta e incessante è la consapevolezza di cui parli.

Mi interessa il termine che hai usato: «domanda». Come se fosse sempre un’interrogazione quello da cui parte l’impulso che si scontra poi con la materia, la materia del linguaggio. Lo scultore – mi sembra – è fra gli artisti quello che ci appare più legato allo scontro con la dimensione fisica. O meglio: quello per cui la materia del proprio agire è più indecidibile. Se il pittore lavora con il colore e la luce e se il poeta con il linguaggio, tu, Werther, con cosa lavori? Qual è la tua materia? Hai da sempre un materiale di elezione o per ogni progetto decidi di volta in volta?

Non ho materiali di predilezione. Ho un grande amore per la ferraglia, la terra e la pittura materica. Una devozione per il marmo e la cera e una familiarità col colore. Mi viene da ridere a dirti: “La mia materia è la materia”, ma è un po’ così. I più sacri sono i pittori: vorrei avere quella pazienza e quella costanza. La bidimensionalità mi frustra enormemente. È l’idea ad esigere una sua forma sempre nuova e appropriata. Mi piace ragionare come un architetto: nelle installazioni cerco di creare scene chiuse con un’entrata, un’uscita e un coinvolgimento di tutti e cinque i sensi. La scultura è una conseguenza del mio amore per il mondo fisico e la pittura. Nel Seicento, nei cantieri del barocco romano, Bernini si voleva severo e solenne nelle architetture, per poi poter sconvolgere con la vitalità impressionante delle sculture e degli altri elementi che ne completavano l’idea. Questa “idea”, questa “maniera” italiana mi è rimasta nella testa.

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Le tue parole sull’architettura e la tridimensionalità mi hanno fatto venire in mente un poeta milanese che amo molto, morto troppo presto, non troppi anni fa: Dario Villa. Intitolò una sua prima plaquette del 1980 Architettura, pittura fotografia: insomma, tutto fuorché poesia. Come a dire che i generi artistici non esistono e tutto si compenetra nel gesto espressivo. Come ti confronti con gli altri linguaggi dell’arte? Dialogano nella concretezza del tuo lavoro o ti servono come nutrimento e materiali preparatori?

Se intendi nell’oggetto della rappresentazione, no. Lo studio è vitale e la poesia imprescindibile. Hai detto bene: nutrimento. La poesia non si può sradicare dal suo spazio puramente mentale. Risiede nell’animo ed è la  forma orale dell’animo stesso. Non credo si possa farne qualcosa con la materia. Il discorso è all’inverso: l’animo guida il gesto e in quel gesto il poetico si trasforma in altro.

Ecco, l’hai detto. Ovunque nel tuo lavoro è evidente che hai una particolare attenzione per il linguaggio della poesia. La poesia lavora con l’intangibile: cosa cerchi nella poesia?

Cerco degli uomini. Come te, credo. La poesia per me, come per tantissimi altri artisti, è  l’”A  priori” di ogni realizzazione plastica. Nello specifico, è attraverso l’attrazione per la poesia che ho scoperto l’arte. Ero un bambino che preferiva leggere che disegnare, poi smontavo i giocattoli e costruivo meccanismi; così scoprii la scultura.  La poesia è sempre stata una passione centrale. Un artista non può non essere un poeta. Riguardo agli autori che hanno marcato di più la mia vita, è pressoché cliché, ma Les Maudits sono amori imprescindibili. La scoperta anche di Dino Campana e De Angelis a vent’anni fu sconvolgente. Vorrei aggiungere e poter dire: “tra i grandi viventi” , Mario Benedetti. Tuo grande amico che ci ha lasciato proprio in questi terribili giorni di peste. Fosti proprio tu a presentarmelo una decina di anni fa. Gli costruii un soppalco in casa dove voleva rintanarsi a scrivere, una specie di improbabile tugurio che montammo in modo tragicomico bevendo vino friulano. Parlammo moltissimo di donne e varianti dialettali, di poesia mai. La sua figura mi diede una grande speranza. Sapere che si poteva vivere solo nella propria poesia, anche se con una coscienza e un peso devastanti della condizione umana. Che si poteva fregarsene di tutto e essere davvero degli artisti, senza dover dimostrare nulla a nessuno e al di fuori di ogni vanità. La sua modestia era finissima, così come la sua gentilezza e la sua voce erano.

C’è qualcosa che invidi alla poesia?

L’invida non è un sentimento che mi appartenga. Non credo che tra poeti e scultori ci possa essere alcuna invidia. Neanche quello che potrebbe sembrare a prima vista un supporto più immediato, quello della poesia, di fatto lo è. Il tempo che si passa su di un verso, può essere lo stesso per un pezzo di marmo.

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Hai perfettamente ragione. Lavorare su questa dimensione dello sguardo, di uno sguardo che non si conceda all’immediato, che anche lo rifiuti, mi sembra urgente. Per quanto fino ad adesso si è sviluppato il tuo lavoro, mi sembra che tu abbia dedicato un’attenzione molto forte al tema del tempo e del movimento. Le tue sculture si muovono, sono manifestazione di processi temporali, sono – potremmo quasi dire – degli “strani orologi”: segnano del tempo ciò che non ritorna più. Come intrecci questa dimensione temporale con quella dello spazio nel tuo lavoro? Mi ricordo di una frase di Arturo Martini: «Invano lo scultore ha sognato in tutti i tempi di fermare l’ombra. Ogni tentativo è naufragato in sensibilità epidermica e l’aspirazione si è dissolta in nulla».

È proprio così. Il tempo mi ossessiona. Sono ossessionato dalla relatività. Gli antichi strumenti di calcolo, per navigare e dare un tempo. Vorrei costruire meridiane dalle molteplici ore fisse, scavate nel marmo dall’usura del tempo. Ore precise, momenti certi di vite umane che forse esistono in spazi lontani. Martini non aveva le ore contate. Noi sì. Per me non c’è tempo per occuparsi d’altro.

Tempo che è anche presenza di un altro tempo. Nei tuoi lavori c’è una fortissima presenza dell’antico. In alcuni si fa molto evidente: penso a Pieta (2019) che è proprio un calco rielaborato della Pietà di Michelangelo. Come entra il sentimento e la pratica dell’arte antica e della storia dell’arte nel tuo lavoro?

Della storia antica, attraverso l’archeologia. Al mare ripescavo pezzi di anfore in apnea e in giardino scavavo nella speranza di trovare qualche ossicino. Mi infiltravo nelle torri saracene in rovina e sognavo di Ulisse saltellando per Paestum. Viene da lì. La storia dell’arte per noi italiani è il quotidiano, un discorso assimilato che diviene un linguaggio comune per chiunque voglia parlarsi d’arte. Nel lavoro che tu ricordi del 2019, Pietà, il corpo del Cristo era senza Madonna: non c’era più alcuna madre a sostenerlo in extremis. Sprofondava in un mare notturno. Era di cera, non di marmo: la colata di tutti i voti delle chiese di Bruxelles raccolti alla fine della giornata.

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Il mediterraneo e il Nord Europa sembrano governare la tua ispirazione. La dimensione dello spazio, anzi, la scrittura dello spazio è centrale nel tuo lavoro: costruisci spesso mappe, carte geografiche in frantumi e il tuo lavoro è ricco di riferimento al viaggio. Mi ha molto colpito che una mia poesia abbia accompagnato una tua mostra: ci siamo ritrovati nel viaggio impossibile di Cristoforo Colombo verso quella che sarebbe stata l’America. Se quel viaggio è al centro del mio ultimo libro, anche il tuo lavoro già da Itineraria hominis è incentrato sul tema del viaggio, del passaggio. Perché questa attenzione?

Quest’inverno ho costruito due grandi vele latine. Una bianca di cinque metri e una porpora di otto: le antiche vele del mediterraneo in cui l’occidente si è formato. Guidati dalla curiosità e la voglia di nuove terre. Scambi e culture attraverso oli, vini e opere d’arte. Le mie sono vele senza scafi, gonfiate da un vento silenzioso, statue leggerissime che restano immobili imprigionate dai muri degli ambienti in cui sono costrette. A voler indicare che per l’uomo non ci sono altre nuove terre da scoprire, che ciò che ci resta da scoprire è nell’inconoscibile freddo: aldilà siderale di un’universo osservabile solo da lontano. La sola possibilità di vita è la nostra terra. Ne abbiamo esplorato ogni angolo e a differenza degli uomini del rinascimento, non ci attendono sorprese né popoli sconosciuti. La sorpresa è sgradevole. Non possiamo enfin sfuggirci. Questo cambiamento a mio avviso scuote profondamente la base su cui si posa tutto il fare artistico umano. Cambia profondamente l’urgenza di dire. Non c’è più spazio per il superfluo o la scervellizzazione concettuale di una parte dell’arte contemporanea. Tutto ridiviene sacro e indispensabile pathos di una compassione comune. La cosa più meravigliosa e drammatica è che neanche l’ultimo uomo della terra, pur sapendo di esserlo, potrà impedirsi di inventare, immaginare e voler andare alla scoperta di qualcosa. Perché è un uomo e questo è ciò che lo contraddistingue. 1492, titolo di una parte del tuo ultimo libro e anche di una mia mostra, parlava a quei marinai disperati, in un silenzio scultoreo, tra loro, primi di un mondo nuovo e noi ultimi del vecchio. In delirio da scorbuto, sognavano di trovare arance riempite d’oro. Itineraria Hominis, nostra comune avventura genovese, nacque poi come il secondo capitolo di un viaggio composto da tre installazioni sugli esodi attuali,  immaginate come un piano sequenza narrativo.

Mi sembra che hai detto qui qualcosa di importante: “non possiamo sfuggirci”. Davvero se si guarda quello che è oggi chiamato arte da questo punto di vista molto ci appare davvero superfluo. Oggi il vero viaggio che rimane all’Occidente è il viaggio infinito dentro se stessi. Questo non vuol dire assolutamente svalutare i luoghi reali; anzi, questi hanno un peso molto forte nella tua vita: Milano, il mediterraneo, Genova, Parigi. Da diversi anni vivi a Bruxelles. Cosa hai trovato lì che non hai trovato in Italia? Quanto il contesto internazionale ti ha aiutato a trovare il tuo linguaggio?

Mi sono sempre sentito fuori luogo in Italia e sono profondamente italiano all’estero. Qui ho trovato una libertà e una facilità di discorso che in Italia non mi sembravano possibili. Sono troppo snob in Italia, non si può mai fare niente in modo semplice. Io sono andato via presto, non so come sarebbe stato se fossi rimasto. Un discorso antico quello degli italiani nelle Fiandre. Forse fra qualche anno andrò a dare le spalle alla Francia: andrò a Marsiglia.

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Quali sono gli altri artisti (anche che non frequenti direttamente) con cui senti di avere un dialogo? Da chi invece ti senti distante?

La fortuna di essere presenti insieme, in una stessa città in uno stesso momento, è precisa e immensa. Rincuorante e stimolante. Io sono della generazione dei primi artisti italiani a Parigi negli anni dieci e venti. Cento anni dopo. Generazione Modigliani, quella fuga in tempo di peste. Non ancora capaci di vivere. Di amici e artisti che stimo ce ne sono tanti, cercando di farne tutti i nomi mi rendo conto di quanto tutto sommato siamo fortunatissimi. Anche se il dialogo è spesso pieno di guasti troppo umani. Tra gli italiani, gli amici i più cari sono sicuramente Linda Carrara e Marco De Sanctis. Mi sento distante, anni luce, da quelli che ripropongono discorsi di cinquant’anni fa, approfittando dell’ignoranza nel mondo dell’arte contemporanea. Dai fanatici del white cube e dai minimalisti da quattro soldi: quelli degli oggettini sparsi sul pavimento o negli angoli, che fortunatamente ai vernissage vengono urtati dal pubblico alcolizzato.

Credo si debba essere presenti a noi stessi e al nostro tempo. Un Tempo che implica una grande presa di coscienza alla quale l’arte non può esimersi. Gli anni sessanta sono passati e lasciamoli in pace. Mi stupisce come la mancanza di audacia e coraggio nell’arte siano spesso assunti e/o presentati quali improbabili e tenui leitmotif di appartenenza a una certa eleganza artisticointellettuale. Tragicomico, disonesto e pericoloso quando accade.

Ci racconti come è nata quella che tu ritieni la tua prima opera? E l’ultima? A cosa stai lavorando in questi mesi?

L’ultima la devo ancora fare, di prime ce ne sono state tante. Ora sto costruendo un concerto di vele latine. Tra astrolabi, clessidre, meridiane, abiti e libri di cera senza corpi, mappe celesti ad olio e Vanitas. Nella direzione di A une heure certe (vedi foto 1), dove una grande mola di granito è una meridiana che segna sempre la stessa ora. Le ore umane di un’idea, di un amore, il momento preciso in cui un verso è stato scritto, qualcuno è nato, qualcun’altra è morto. Quei Quelqu’un (vedi foto 2) di cui delle tavole/fogli di marmo portano l’impronta, ritornando a Lascaux. Una sorta di polifonia italiana in uno spazio prospettico e geometrico definito. Con pathos. Ti aspetto in atelier qui a Bruxelles nei prossimi mesi.

A presto Werther!

intervista a cura di Tommaso Di Dio

Bio

Werther Gasperini è nato a Milano nel 1987.

EDUCATION
2018    Master in sculpture at l’Académie Royale des Beaux-Arts of Bruxelles
2015    History of Art at University of Milan

EXHIBITIONS

UNCOMING
2020 ArtBrussels 38th with Dauwens & Beernaert Gallery – Bruxelles (BE)
2020 Impressions #1 – Galerie Exit11 Contemporary Art, Chateau du Petit Leez – Namur (BE)
2020 No Pain No Gain – Dauwens & Beernaert Gallery – Bruxelles (BE)

2019 De(la)mesure humaine – Centre Tour à Plomb – curator Stéphane Roy – Bruxelles (BE)
2019 De Markten – Brussels (BE)
2019 Damme city festival –  IJsberg – Damme, Flanders (BE)
2019 Une Saison à Bruxelles (piece of theater) – Centre Culturel Tour à Plomb – Bruxelles (BE)
2019 Art makes nothing happen – curator Philippe Hunt – Brussels (BE)

2018 Room#12 – curator Stéphane Roy – Bruxelles (BE)
2018 Convergences – Galerie Exit11 Contemporary Art, Château du Petit Leez – Namur (BE)
2018 Les nuits de la Crypte – Cathédrale de Notre-Dame-de-la-Treille – Lille (FR)
2018 Faire Corps : Ecrire, Lire, Dire – Abattoirs de Bomel, Centre Culturel de Namur (BE)
2018 Berlin Alexanderplatz – Galerie été78 – Bruxelles (BE)

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In dialogo con Fabrizio dall'Aglio | Fino a quando esisterà la poesia

La Passigli Editori nasce a Firenze nel 1981 per iniziativa di Stefano Passigli, discendente di David Passigli che era stato, già nell’Ottocento, tipografo ed editore. In oltre trent’anni di attività ha pubblicato circa un migliaio di titoli, caratterizzandosi in primo luogo per le proposte nel campo della narrativa e della poesia.

Con Fabrizio Dall’Aglio, curatore delle collane di poesia, abbiamo deciso di approfondire l’offerta poetica di Passigli, tra i capisaldi del Novecento che ospita e le prospettive coltivate sull’evoluzione di un «linguaggio artistico» da tutelare

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