Storiografia e critica letteraria: biopsie possibili

Proponiamo un intervento di Pietro Polverini sulla natura della critica e della storiografia, nonché un prosieguo della mappatura degli esordi in poesia (2016-2021)

Corre l’anno 1868. Datazione, sembrerebbe, neutra e avulsa da qualsiasi belligeranza refertata dai manuali di storia. Corre l’anno 1868. Datazione, sembrerebbe, neutra e avulsa da qualsiasi riferimento letterario consolidato dalla trattatistica accademica. In fondo i volumi delle Opere del conte Giacomo Leopardi erano stati già licenziati dall’editore Le Monnier nel 1845 e le Odi barbare del professore Carducci avrebbero visto una prima luce nel 1877, pubblicate da Zanichelli e godendo poi di una fortuna tale da garantire una ponderosa serie di ristampe. Certo, ci furono prima degli eventi-polverone: il 1841 è l’anno in cui Giovanni Prati, col suo poemetto in sciolti dedicato alla storia di un adulterio nella città di Venezia, dal titolo Edmenegarda, suscitò sconquasso generale e, in cauda venenum, l’irruente vituperio dei critici, Carlo Tenca fra tutti. Ma, tornando alla nostra data incipitaria, si può ricordare una pubblicazione interessante ai fini del nostro discorso: escono Le lezioni di letteratura italiana dettate nell’Università di Napoli del professore Luigi Settembrini, presso lo stabilimento tipografico Ghio. Nello stesso anno, un rampante allievo del maestro Francesco De Sanctis, tale Bonaventura Zumbini, stampa un saggio per l’editore Murano, in cui, irruento e saturnino, denuncia le deficienze e le lacune del lavoro settembriniano. Nelle pagine finali, conclude salacemente sottolineando che “come lavoro di critica, il libro è molto mediocre”. L’episodio poi è ricordato dal celebre volume di Giovanni Getto, Storia delle storie letterarie. Da questo caso possiamo evincere che le denunce di insufficienza e precarietà, laddove si tenti un lavoro di natura critico-storiografica, non sono fenomeni alieni dalla possibilità di essere ricondotti a precedenti. Su questa linea si possono ricordare esempi di espunzioni notorie dal processo di storicizzazione. Caso esemplare è l’omissione deliberata del già citato Giovanni Prati, dalla monumentale Storia della letteratura italiana, stampata in due volumi tra 1870 e 1871 per l’editore napoletano Murano. Quest’ultima, nel capitolo «La nuova letteratura», si conclude lapidariamente asserendo che «Giacomo Leopardi segna il termine di questo periodo». Questo poeta escluso, per la buona parte dei lettori, risulterà un nudum nomen, a meno che non sia un frequentatore della poesia di Patrizia Valduga, l’unica nel milieu contemporaneo capace di rileggerlo e risemantizzarlo nell’alveo della sua ricca produzione. Eppure, questo ignoto poeta trentino, all’altezza della pubblicazione desanctisiana aveva già cinquantasei anni – non esattamente un enfant – e, con essi, una storia personale trapuntata da copiose e celebri pubblicazioni, alcune con i più importanti editori dell’Ottocento: il suo Armando uscì per Barbera nel 1868, editore fiorentino che, negli anni era diventato una meta empirea per i poeti italiani. Si ricordano, fra i suoi lavori, la preziosa pubblicazione dell’epistolario di Caterina da Siena, per le cure del buon Tommaseo. Nonostante questa discutibile estromissione, Prati, con eleganza, non schernisce l’operazione desanctisiana. Nel suo epistolario, curiosamente, non emerge nessuna querula lamentela. Solo otto anni dopo, momento in cui esce il suo ultimo libro di poesia, Iside, per la Tipografia del Senato, ne spedisce una copia al critico “perché lo gustiate, se merita” (p. 240, 2013). Potrà sembrare un imbonitore, forse ecumenico, ma comunque si pone con nitore quale exemplum di umiltà. A maggior ragione in un secolo come l’Ottocento in cui era inconfutabile l’idea secondo cui storicizzare non era un’operazione da banco, un lavoro di neutrale schedatura. Tutti, o quasi, – giustamente – nel momento in cui forgiano i ferri della critica, sanno che “una storia”, in questo caso letteraria, è “una storia dello Spirito”, quindi momento in cui “la scienza della coscienza dell’esperienza” giunge alla massima visione di sé: una storia dove si espunti è, contestualmente, una storia dove i soggetti in questione non hanno avuto alcun ruolo nei lapilli dinamici di negazione e superamento del progresso estetico.

Questo discorso proemiale serve a comprendere come i lavori – si parva licet – storiografici portino sempre con sé una serie di strali rivolti alla vetusta diade presente-assente piuttosto che al concetto di storia e lingua che sono sottesi all’operazione del critico in questione. Qualcuno può essere assediato, come Settembrini, o graziato – forse anche alla luce del suo ruolo pubblico come ministro del Regno d’Italia – come De Sanctis, la cui omissione di Prati grava ancora oggi sulla nostra storia della letteratura. Nel nostro caso possiamo ricordare sommariamente, in un piccolo e caustico florilegio di locuzioni, espressioni fugaci et similia le obiezioni poste al precedente lavoro “Per una precaria storiografia degli esordi”. La prima fra queste lamentava – guarda caso – un’assenza: anzi le assenze di una serie di nomi, marcati poi dal sintagma “tra i più grandi” (o importanti, non ricordo): a tal proposito, a mia conoscenza non c’era una bibliografia critica mengaldiana, mazzoniana o afribiana che mi desse modo di prendere per buona questa asserzione. Posto che il criterio dirimente, per il nostro concetto di critica, è la dimensione testuale e non l’ubiquità nell’etere dei canali di coeva comunicazione, non credo di aver commesso nessun errore da un punto di vista di critica letteraria. Una seconda denuncia si condensa in una parola precisa che recitava “precarissima”: pur nella dichiarazione di transitorietà del proprio lavoro, condotto con seria acribia euristica, la sentenza che punta tutto sulla variazione morfematica del superlativo –issima, in termini di farraginosità, è pronunciata, a nostro avviso, esclusivamente con la postura autotelica di chi vorrebbe per sé un monumento aere perennius, laddove l’accusa si muova scevra di qualsiasi cogenza teoretica dacché, in questo caso, argumenta non datur. Proprio su questo fronte richiamo l’attenzione sugli errori laschi e lascivi di chi, piuttosto che ragionare – ancora – sui testi e non sui post, ignora deliberatamente a spron battuto il contesto di produzione della firma che si accusa, non rendendosi conto che lo stesso, giusto un anno prima – sarebbe bastato leggere l’articolo sulle antologie dei poeti nati negli anni Novanta pubblicato sul sito di Medium – dedicava una cospicua porzione della sua analisi alla poesia di Galloni, sottolineando l’auroralità del suo gesto letterario, gravido di spettri crepuscolari  e caratterizzato da una chiaro sentimento della forma, a mio dire inusitata. Ciò evidenzia che se c’è un’omissione, c’è una ragione. La filologia insegna la prudenza, l’analisi, la ricerca, la pausa, il silenzio. Ma gli “scrittori”, categoria che poi, se non si cade in errore, dovrebbe avere una certa padronanza con la dialettica parola-silenzio, col furore eroico che fa tracimare la prima forma nebulosa di pensiero-istinto sul social piuttosto che per espletare l’esercizio della ratio, si spendono in un compendio di formule allocutive gastriche e ciarliere. Il fatto di non aver dedicato, di conseguenza, un paragrafo, seppur minimo, alla poesia di Gabriele Galloni, deriva dal fatto che la sua opera – secondo la nostra ricognizione critica, trascende il mero dato storico-sociologico dell’esordio tout court. Alpha e omega, cominciamento e conclusione sono intrecciati in maniera indisgiungibile. Di qui l’idea, ai tempi embrionale, di un articolo solo per questo esordio-opera. 

Questa ridda di nomi affastellatesi attorno a questo lavoro storiografico, talune acute, talune risibili, ci pongono necessariamente in condizione di riformulare, anche oggi, vexata quaestio, una domanda sullo statuto della critica letteraria. Chi può esercitarla, dove e in che modalità? Di qui l’ipotesi di un’indagine – biopsie possibili – sulla natura della critica, in questo momento storico: di quali forme di vita possa godere, di conseguenza. 

Una strada da percorrere deve rieducarci al senso di ciò che la critica non deve mai essere: Eliot, in The use of poetry and the use of criticism ci ricorda che “la maggior parte dei critici è impegnata a […] riconciliare, assopire, vezzeggiare, giustificare tutto, nascondere, preparare calmanti piacevoli” (1974, p. 230). Questa forma imbonitrice sembrerebbe configurarsi quale ancella del sistema di produzione e distribuzione. Proprio Fortini, nella Verifica dei poteri, metteva in guardia rispetto al rischio di una mera “funzione tecnica nei confronti di un apparato industriale e commerciale e che, per di più, nell’esercitarla, si faccia latore di tendenze ideologiche e politiche” (1965, pp. 46-47).  Sulla medesima linea Ezio Raimondi nelle sue Tecniche della critica letteraria denunciava il rischio di una “industrializzazione” della stessa. Per scongiurare questo errore, lo scrittore si pone “nel mondo capitalistico come individuo solitario”: un prodigio che gode di un’eccezionalità necessaria, per il critico, ai fini di “rifiutarsi come merce e alienandosi in una sorta di buffoneria” (1967, p. 46). A questo punto gli errori da evitare vengono compendiati in una sorta di tassonomia zoomorfa da parte di Cesare Segre che, nel Ritorno alla critica, esclude “il critico cuculo […] che si mette in concorrenza con l’autore di cui sta occupandosi, […] il critico pavone, per il quale l’opera, qualunque sia, può e deve essere declassata a pretesto per invenzioni in cui sfoggiare i colori della propria fantasia, […] il critico camaleonte, che pensa di parlare adeguatamente di un’opera imitandone lo stile e il modo di esporre” (2001, p. 88). Per questo, come ricorda Fortini – altri tempi, altra stoffa teoretica – “il critico […] è colui che dovrebbe far scontrare, non mediare, nel proprio discorso il momento della produzione e del consumo” (1978, p. 314). Ancora per Segre “il fine del critico è […] descrivere il testo, interpretarlo e in una prospettiva storica valutarlo”. Il primato della testualità, dunque, rispetto alla merceologia dell’ubiquità, finanche al rallentamento necessario posto alla proliferazione dei “testi” che vogliono porsi come “significanti” ma che, per epigonismo non digerito, difettano, per struttura e idea, di semantema. A questo punto sembra impossibile rinunciare, soprattutto per il genere storiografico, crestomantico e antologico – di per sé anfibolico – alla possibilità di costituire, come indicava Sanguineti nel 1969, più che una sala museale da percorrere con placida serenità, “un manifesto”: proporre quindi, una linea di ricerca da sviluppare e in funzione di questa organizzare il tutto (Cfr. La Parola plurale). Se il critico deve porsi nei confronti di un testo senza farsene mero venditore o arrotino pronto ad affilarne le deboli lame, i criteri da seguire, già in parte ricordati da Lotman in La struttura del testo poetico, possono essere sintetizzati nel seguente trittico lemmatico: lingua, storia e senso, con la complessità che ognuno di questi concetti dischiude. Per questo, ancora oggi valgono le indicazioni di Gilda Policastro che, in Polemiche letterarie, sottolinea il rischio di percepire la critica letteraria esclusivamente come un “avversario […] o capro espiatorio su cui rovesciare l’ostilità della frustrazione, del risentimento, della marginalità” (p. 15). Alla luce di questa disamina, sentiamo di aggiungere al nostro precedente articolo  due esordi, non inizialmente analizzati e studiati per ragioni che seguiranno. 

Il primo caso è il recente libro di Riccardo Frolloni, Corpo striato – nonostante l’autore avesse già all’attivo una piccola plaquette edita nel 2015 per Affinità Elettive, Languide istantanee polaroid – pubblicato con la neonata casa editrice Industria&Letteratura, caratterizzata dallo specioso formato quadrangolare. In questo libro, dove si può ravvisare in apertura la medesima epigrafe di Pianissimo di Camillo Sbarbaro, “a mio padre morto”, si notano subito ampie fronde versali, tendenza metrico-prosodica di una certa lezione della poesia anglo-americana di secondo Novecento, mitigata poi da una chiara cognizione della materia luziana, dove il fondamento invisibile è l’inconcussum quid, la radice invisibile del “corpo striato”, anatomicamente stante ad indicare una specifica area del cervello. Di qui poi una gemmazione linguistica, sempre tesa e plurima: da una parte un ramo dove prevale una lingua letteraria, dall’altro il vernacolo della città di Sarnano, medusante e incantatorio nella capacità di trasporre il lettore nella “parola parlata”: lingua come Volksgeist. Il libro, organizzato in una serie di “sogni”, “movimenti” e  “materiali”, è generato da un tempo estinto dal tempo, volto alla ritentio memoriale. Si rievocano i giorni che hanno seguito il lutto, quando “ci fecero uscire tutti dopo l’ultimo sguardo” (p. 16). Da questi si diramano una serie di “movimenti”- mnestici dell’autore: “c’era sempre imbarazzo a parlare di poesia, di filosofia, di cose così, | ogni volta mi ripeteva le parole dal padre         non ti fidare | dei filosofi” (p. 17). Altro rifugio deputato all’elaborazione del vacuum è la dimensione onirica: 
“nel dolore come in un sogno cercavo | cercavo qualcosa e finivo nella ghiacciaia. Ma nella ghiacciaia c’ero io” (p. 20). Analessi e prolessi si intrecciano, “il calcolo dei dadi più non torna”: di qui la lacerazione del tempo terreno, da cui si alzano due preghiere: “Padre, tu che ora sei infinito | hai chiuso col passato, noi | invece ti cerchiamo nei frammenti” (p. 57).  Di qui vengono incontro il celebre passo delle Confessioni agostiniane: “«[…] Tre sono i tempi: il passato il presente e il futuro; il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro. Queste ultime tre forme esistono nellʼanima […] Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è lʼintuizione diretta, il presente del futuro è lʼattesa» (XI, 20. 26). Il libro è impreziosito da un apparato fotografico paratestuale, integralmente in bianco e nero, grazie al quale si intensifica la fusione delle declinazioni del tempo. 

Il secondo esordio che vogliamo analizzare è il libro di Paolo Pitorri, Abbiamo discusso dell’Aldilà, pubblicato di recente, negli ultimi mesi del 2021, per Marco Saya, vivace realtà editoriale del milieu milanese. Il libro si apre con un’atmosfera liturgica: un’iniziazione alla parola del poeta che vede “i piccoli spettri” :“nelle mani soffiano una fiamma – la prima fiaba” (p. 9). L’autore li riconosce: “cerco di evitare un dialogo, porgo un dono | a loro che sono una nuova alba”. Di qui la lingua che si dona nella dimensione dello “spettro”, della “fiaba” ma soprattutto in quella onirica: la poesia proemiale che abbiamo appena citato, nella quale campeggiavano come soggetto cardine “i piccoli spettri” ricevono, in clausula, con la forma dell’apposizione, la dicitura di “cervi dei miei sogni”. In questo caso la locuzione enigmatica si può sciogliere nei seguenti termini: il cervo in questione, a nostro avviso, richiama il Giordano Bruno degli Eroici furori, dove Atteone, nel tentativo di catturare i segreti della natura, viene tramutato, per l’appunto in un cervo. Alla luce di questa nota ermeneutica, sembrerebbe che l’autore, nel tentativo di iniziarsi alla parola grazie al medium onirico, trasformi e determini il testo in costante osmosi con i processi strutturali del sogno stesso, ricordando la bi-logica di Matte Blanco. In questo rituale per accedere alla “prima fiaba”, il racconto sul principio della scrittura, Pitorri, nel secondo componimento, evoca “tredici ragazze” che “portano specchi tondi tra le mani” e “gridano al sinonimo del buio di nascere” (p. 10). Gli spettri chiamati in causa in prima battuta, sembrano reificarsi nel procedere del testo: da una parte “il tumore si schiuse in un polmone verde” (p. 11), dall’altra “il cielo è un pane antico dalla crosta bianca”. Una volta avviato il processo generativo del verbo, concluso il rituale d’apertura, Pitorri condensa in una costellazione tematica variegata e criptica gli elementi chiamati al dialogo con i “piccoli spettri” del proemio: inizia così una zona della raccolta in cui si manifesta una figura femminile cui ci si rivolge con formule allocutive scabre e inquiete: “la desolazione e il vuoto dei dispersi | è il volto dei dispersi rinchiuso nella culla dei poeti. | Tu conosci chi aveva troppo sangue. (p. 20). La densità semiotica prosegue in questo anomalo dialogo cripto-faustiano, tra l’autore che, ricordando alcune prose del Notturno di D’Annunzio in cui paragonava il proprio distacco della retina ad un “fiore villoso, tra rossigno e gialligno”, vede dal suo occhio il germoglio di un “fiore | un bulbo oculare pronto a sbocciare | Lo annaffio ogni sera, così sarà finché campo” (p. 23). Il germoglio anomalo della vista trasmuta il femminile nel materno, che diventa poi epifora di senso, nota battente a conclusione di una micro-silloge interna di testi dove, addirittura, si prospetta una efferata nostalgia dell’inorganico: “tornare in lei dove ero l’unico corpo piccolo | in una sacca amniotica” (p. 24). In questo caso si rimanda a Sándor Ferenczi, Thalassa. Saggio sulla teoria della genitalità. Immagini equoree ritornano con una certa frequenza: “protetto dalla sindone del lago […] così ora e qui creo la mia serra” (p. 33).  Di qui la “sete” che dà nome alla terza sezione: “il ramo nel lago, la mano, l’aiuto non li ho mai trovati”. (p. 56). Abbiamo discusso dell’Aldilà si configura, di conseguenza, come libro d’esordio davvero anomalo ed eccentrico, caratterizzato da un tasso figurale tellurico, dove ogni parola è pronta a tracimare nella disseminazione onirica di cui può farsi carico. Iniziarsi al verbo e in esso chiudersi, come la serra poco prima evocata. In conclusione, la precarietà, in origine dichiarata e assurta a protagonista della titolatura incipitaria del percorso di ricerca, si configura nei termini di una forza tellurica, forse arcana, che ci costringe  costantemente a nuove adiectiones, aggiunte o revisioni che, di fatto, troveranno un seguito in un lavoro futuro.

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In memoria di George Steiner | I significati del tradurre nel mondo occidentale

La morte di Steiner, avvenuta il 3 febbraio di questo anno a Cambridge, mi ha riportato alla mente la vorticosità del suo talento e della sua sapienza, e il mio primo incontro attraverso la letteratura (saggistica) con il suo lavoro, uno dei pochi e veri incontri fondamentali in senso pieno. Dunque, questo piccolo scritto va alla sua memoria, e anche a quella di Gianfranco Folena (1920-1992), studioso dimenticato (F.O.).

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