«Lontano il più possibile da noi». Nota di lettura a “Quando tornerai sulla terra” di Silvia Atzori

Proponiamo una nota critica di Federico Isonni alla silloge di Silvia Atzori, "Quando tornerai sulla terra" (Pordenonelegge Esordi 2023). Il dipinto in copertina è "Persefone" di Dante Gabriel Rossetti.

Introduzione

Una volta terminata la lettura di Quando tornerai sulla terra (Pordenonelegge, 2023), esordio di Silvia Atzori, la sensazione a vincere su tutte è stata lo spaesamento. E, sotto sotto, la convinzione di non avere afferrato del tutto le dimensioni di quanto avevo per le mani. Sono state le letture successive a indicarmi il magistrale lavoro di continuo spostamento della camera come fautore della sensazione di turbamento che accompagna i testi. Lungi dall’essere mimetico o votato a una migliore messa a fuoco, lo scartare, il rincorrere della macchina da presa suscita un sentore di inadeguatezza non meglio distinguibile.
La decisione, per raccogliere le idee intorno a un libro di tale stratificazione, è stata seguire i cambi di inquadratura, spaccare il controcampo. Nel tentativo mi sono servito di Sereni, Caproni e Ovidio (tre presenze più o meno manifeste nel libro, ciò non di meno chiavi interpretative comode) e van der Kolk, che a sua volta si appoggia a Damasio (per quanto riguarda ciò che appare come un perenne stato dissociativo, definito da van der Kolk ‘disconnessione del corpo’).

Legenda: abbreviazione dei testi

Notitia criminis: NC
Descensus: D
Prognosi: P
Sogno zero: SZ

La voce, le voci

L’importante è colpire
alle spalle.
Così si forma un cerchio
dove l’inseguito insegue
il suo inseguitore.[1]

*

M’ero sperso. Annaspavo.
Cercavo uno sfogo.
Chiesi a uno. «Non sono,»
mi rispose, «del luogo».[2]

Ritengo che per una disamina precisa sia utile, in questo caso, partire da Notitia criminis (I): il testo incipitario fornisce più di una coordinata che offre le basi per le conseguenti isotopie. Come anticipavo nell’introduzione, il salto prospettico oggettivo-allocutivo viene segnalato da un cambio di pronomi personali a cui la ‘voce zero’ si riferisce («le hanno cucito […]» contro «non ti serva […]» della prima strofa; «la bocca ha […]» contro «solo tu ricorderai» della seconda e terza); in contemporanea appare una seconda voce, segnalata dal corsivo («Non ti cercheranno qui ma il debito | non si scorderà di te.»). L’incipit presenta alcuni dei fili rossi che correranno lungo tutto il libro: lo «schianto», la colpa («le [sue] colpe»), il «passaggio» e l’assedio («Non ti cercheranno qui ma […]»). Peculiarità fondante, sorta di macro-isotopia qui più esposta e poi diffusa nei testi, è la decisione di assegnare questi quattro temi portanti a tre voci diverse: i primi due alla ‘voce zero’, il terzo alla ‘voce allocutiva’, il quarto a una voce esterna.

Il corsivo in particolare si è proposto come prima via di risalita. Considerando la natura dei corsivi di III (in Descensus) e Proserpina, presi in prestito rispettivamente dagli altoparlanti della metropolitana e da Ovidio, l’opzione metodologica che ho deciso di abbracciare è stata considerare tutti i corsivi come calchi esterni o rimandi a voci esterne, già codificate, e non più in itinere come la ‘voce zero’. Il «debito» del v.14 in NC (I) mi ha fatto risalire a due citazioni delle Metamorfosi ovidiane (delle complessive quattro occorrenze del termine nella traduzione di Scivoletto): la prima del libro VI, in cui il ‘debito’ è un’allusione metaforica alla volontà di vendetta di Filomela nei confronti di Tereo; la seconda nel libro XIV, riferito al senso di debito di Enea nei confronti della sibilla, che gli concede l’accesso agli inferi. Affidando per un attimo il verso a una voce diversa, il libro rivela la quinta isotopia (la catabasi) e un elemento che si connette al trauma. Raffrontando le varie occorrenze dei corsivi si giunge alla conclusione che non si tratta di mere infrazioni discorsive esterne, in qualche modo ‘altre’, atte a manomettere il discorso, disturbarlo o a farne il contrappunto: quanto viene offerto dalla voce in corsivo è essenziale per il completamento testuale e macro-testuale. La suggestione è che la voce zero si serva delle altre voci per completare un discorso (pure in assenza di un vero e proprio dialogo) che altrimenti risulterebbe minato alla base, in cui il rimosso e i vuoti sarebbero tali da compromettere la riuscita stessa della comprensione.

Vi è anche una quarta voce, quella segnalata dal virgolettato, ad esempio, in D II. In P: risulta abbastanza chiaro essere la voce di Proserpina, doppio ctonio della voce zero (si veda NC (II): «aveva | uno strano nome con la P. | oppure | aveva un nome semplice, c’entrava con il bosco»). La natura di questa voce è quindi ibrida per statuto: parla come una degli attanti della voce zero, ma è essa stessa voce zero, seppure ne sia separata. Per una migliore analisi rimando al secondo paragrafo; la suggestione è che P(roserpina) e la persona il cui nome «c’entrava con il bosco» siano la stessa, scissa in due entità, una emersa e una ctonia (da ciò la separazione delle voci).

Nell’Introduzione ho accennato alla possibilità ermeneutica di Sereni e Caproni: esplicitamente evocato il primo (D I: «uscire a ora insolita» – Appuntamento a ora insolita (Sereni, SU); D II, «con che pietà | ingiusta» – La pietà ingiusta (Sereni, SU)) e alluso il secondo (si veda la «guida mancata o spia» di D VIII), risultano nebulizzati nello sguardo della voce zero. La pluri-vocalità come strenua tensione al dialogo (anche interiore) richiama la ricerca sereniana negli Strumenti umani, mentre la percezione della caccia (come cacciatrice o come preda, o, come svilupperò, come assediata e assediante) e la necessità di ricalibrare le coordinate del reale devono molto al Caproni del Franco cacciatore. Tutte le voci, comprese quindi le frequenze neutralizzate o passate sottotraccia, concorrono a una ricostruzione, e la ricorrenza dell’immaginario psicoanalitico (i denti, l’acqua, il sesso, l’ipocondria, il generale senso di allerta che sorregge le sequenze) rendono a questo punto legittimo chiedersi se si possa leggere il libro come una seduta di analisi. Vorrei lanciare l’ipotesi di una ‘divagazione elastica’ che fa da ossatura al libro; esattamente come durante una seduta, il punto di partenza può essere casuale, senza che ciò impedisca di arrivare al nocciolo. Le voci, si è già detto, non dialogano; la via per bucare la bidimensionalità del testo è affidata all’effetto della memoria meccanica del suono di altri. La dimensione da raggiungere non viene concessa dalla parola, ma da quello che c’è oltre la parola: mutuando una metafora dalla musica, la ricerca di Atzori è votata alla ricomposizione di un accordo, e guarda, perciò, agli armonici della lingua.

Quanti Sé?

«Errant exsangues sine corpore et ossibus umbrae»[3]

La discesa infernale comincia con NC (I) e mi sembra a questo punto essenziale una puntualizzazione. Sebbene il titolo si rifaccia alla terminologia giuridica, per cui, letteralmente, si tratta della “notizia di un reato”[4], uno scavo etimologico porta a conseguenze non immediate: si potrebbe intendere il titolo, piuttosto, come “cognizione/presa di coscienza della colpa”. E non mi sembra un caso che la tematica della colpa, vera e propria isotopia del macrotesto, venga qui esposta al v.13. La catabasi viene resa esplicita da D III («La vita è altrove sulla terra») e visivamente, con la corrispondenza puntuale di tratte metropolitane (M1-Cadorna FN Triennale, M2-Romolo) o di treni (Milano Domodossola Fiera, «Il treno per B.», eccetera). Per questo sono significativi due versi di D IX: «Il treno regionale delle diciotto e cinquantadue | mette in risonanza i corpi». I passeggeri, non più persone ma ridotti al proprio sembiante (alla propria «ombra», vedi Proserpina), risultano comunque appartenenti a un piano di realtà superiore agli «oggetti» mossi da qualcuno di SZ III in virtù di quella «risonanza […] senza sfogo» che consente di riconoscerli come simili. La calata negli inferi prosegue lungo il testo, dando vita alla contrapposizione delle voci, come si accennava nel capitolo precedente. La dissociazione, vera e propria disconnessione delle terminazioni sensoriali rispetto a una mente ordinatrice, che non si riscontra da nessuna parte se non nel vocalizzo, si manifesta in altri luoghi: il Sogno zero viene richiamato dal «sogno congelato» di D VI, che a sua volta evoca il freezing (per cui mi rimetto a van der Kolk); Prognosi mantiene una valenza medica accanto a quella oracolare, etimologica, di previsione; viene poi resa icasticamente come «ecfrasi» in D II, con il mancato riconoscimento del riflesso sul finestrino come effettivamente proprio e, similarmente, in D IX, con il poliptoto «non sono io». Sembrerebbe che convergano almeno due istanze, simili ma differenziate, nel rifacimento del reale (nel «Reinventare il rimosso» di P I), atte a completarsi, in maniera analoga al concorrere di più voci per quanto riguarda l’aspetto narrativo del poemetto.

A rimarcare quanto sopra esplicitato, tornerei momentaneamente alla nozione di «colpa generica» (NC (II)): in ambito giuridico, segnala una o più azioni compiute da un soggetto che, pur non violando alcuna legge, provocano un danno a terze persone. Questo dettaglio non deve passare inosservato: è il segnale più preciso, per quanto mascherato, di come il Sé si auto-percepisca come, anche, ‘altro’. L’‘istanza emersa’ della voce percepisce il corpo come un ente a sé stante, in quanto luogo in cui il trauma continua a vivere seppure sia cancellato alla percezione, mentre chi è conscio del trauma è la controparte ctonia, Proserpina, impossibilitata a renderne conto in quanto il dialogo è reso infattibile dalla dissociazione. Manca l’accusa, nessuna delle due voci la muove, ma il senso di colpa rimane, ed è questo un tratto abbastanza comune alle prime fasi di elaborazione di un qualsiasi evento traumatico[5]. «Cosa non si sopporta con la carne | per la carne» (D V): il corpo da solo può ancora tollerare l’accaduto, ma per esprimerlo definitivamente si affida ad altre voci, che fungono da via di fuga o meccanismo di coping.

Una categoria dicotomica larga come quella “dentro/fuori” (o “interno/esterno”) si presta a diverse funzioni e ritengo possa essere una prospettiva fruttifera di decodifica del libro (fin troppo ampia per essere esaurita in questa sede). Mi limito a segnalare alcuni esempi.

Descensus I, avviando, a tutti gli effetti, narrativamente la discesa, apre con il lemma «Uscire». Le considerazioni sarebbero ripetitive, ma è chiaro il setting che Atzori imposta: gli spazi noti sono almeno due, e, per transitare dall’uno all’altro, si cambia di stato: si esce.

Descensus II: il treno è il mondo dei corpi, mentre, scopriremo, fuori sono presenti «oggetti» (SZ III); i corpi non hanno nomi e il loro stato di realtà è sottile.

Descensus IV: il corpo è infastidito dai vestiti: il proprio corpo è ‘dentro’ qualcosa, e questo incrina la percezione di ‘dentro’ e ‘fuori’. Il corpo prende a guardarsi dentro («le costrizioni le _ deiezioni»).

Descensus VII: la relazione fra ‘dentro’ e ‘fuori’ è propria anche del mondo ctonio; il ‘fuori’ assedia il ‘dentro’ («L’aria d’oltremondo s’invischia»).

P:: in maniera esplicita «la sostanza [che] invade l’interno».

Sogno zero I visualizza il dentro e il fuori come una scatola cinese: il labirinto dentro il mare, il corpo (il Sé?) dentro il labirinto, l’«uomo» dentro il corpo.

L’assedio

«Le persone traumatizzate si sentono continuamente in pericolo dentro il proprio corpo».

«Sin dai primi anni Novanta, gli strumenti di neuroimaging hanno cominciato a mostrare cosa accade effettivamente nel cervello delle persone traumatizzate […].

Abbiamo iniziato a capire come le esperienze sopraffacenti influenzino le nostre sensazioni intime e le relazioni con la nostra realtà fisica, il centro del nostro essere. Abbiamo imparato che il trauma non è solo un evento accaduto una volta nel passato, ma si riferisce anche all’impronta lasciata da quell’esperienza sulla mente, sul cervello e sul corpo. Quest’impronta ha continue conseguenze sul modo in cui l’organismo umano gestisce la sopravvivenza nel presente». [6]

Una spia massiccia di come il ‘fuori’ venga percepito si rintraccia nell’ipocondria. Esplicitamente richiamata al v.12 di P II, è riconoscibile fin dalla prima sezione, da cui derivano «l’aria d’oltremondo» di D VII e la presenza ospedaliera di D VIII, che precorre tutte e tre le Prognosi (I, II e P:). Sembra che la volontà di un ambiente asettico, perciò privo di rischi, si estenda alla grammatica: la tecnica della serie elencativa di oggetti inframezzati dai dash (NC (I), D VIII) mima quel «Qualcuno» che «muove da lontano e con pigrizia | gli oggetti uno per uno» (SZ III). Il disagio rispetto al corpo, o al mancato rapporto con esso, finisce per farlo percepire come del tutto fuori controllo e questo scatena l’ipocondria, ogni elemento non-noto lo mette potenzialmente a rischio. Il corpo risulta luogo liminale fra ‘dentro’ e ‘fuori’ e in quanto soglia viene percepito come assediato: il «sogno di nascita» (SZ I) raffigura il momento di passaggio e, apparentemente, di cessione di terreno. Qualcuno finisce per occupare lo spazio del corpo («l’uomo | che si aggira nel mio corpo»), rendendolo inagibile al Sé e dando inizio al processo di dissociazione. Non a caso, il passaggio avviene quando la voce si trova «sul bordo».

La dinamica stessa dell’assedio sembra avere preso il controllo della percezione: tre le occorrenze esplicite del lemma (D IV, P:, P II) e numerose le allusioni, fra cui spicca l’immagine del prato consumato dal gelo di D VIII, a dimostrare che la dimensione di costrizione sia un vero e proprio archetipo per il soggetto emerso, al punto da interpretare la realtà in questa chiave.

L’affacciarsi della prima persona in D VIII mette in luce un punto: «la sola | fiducia che trattengo | è in qualche istanza di riassorbimento». L’anomalia di questa modalità espressiva (più di frequente affidata alle virgolette o a un ‘noi’) potrebbe fare pensare a un momentaneo lampeggiamento, un raro istante di coesione fra voci emersa e ctonia e si connette alla quarta strofa di D VI: il tentativo è di arrivare a «Reinventare il rimosso». A questo fine, le diverse voci si concertano e l’espediente con cui questo tentativo di riassorbimento è attuato prevede di lasciare delle strofe senza la chiusura canonica in punto fermo. Lo stratagemma è evidente e voluto: i singoli stralci legati alla mancata chiusura rendono permeabili altre aree di testo, magari distanti, innestandovisi. Recando con sé un significato esplicito, ma non autoconcluso, aprono finalmente la via al dialogo negato dalla diversità delle voci: se gli armonici della voce permettono uno scavo del reale e sugli eventi, queste aree testuali di frontiera consentono la continuità del processo di autoanalisi e di lavoro sul rimosso (che, coerentemente con la pluri-vocalità, è al contempo anche «Inquinare» e «Curare») e la continuità narrativa. I punti fermi in clausola di testo mancano infatti a cavallo delle sezioni, permettendo quindi a quanto ottenuto in una zona di lavoro di fluire nella successiva e di non disperdersi. Il «rimosso» si ‘reinventa’ con un processo complementare a quello compiuto dal corpo: mentre questo procede a erodere aree di reale da sé stesso, la ‘reinvenzione’ salva muovendosi all’indietro e compensando, similarmente a quanto avviene alle due istanze, ctonia ed emersa, nell’opposizione fra moto discendente e moto lineare (notare che non vi è moto ascendente, ma la verticalità è assicurata dalla distanza fra i due tracciati in raffronto).

Qualche provvisoria conclusione

Non so dire se Quando tornerai sulla terra tenda di più alla ricomposizione di una singola istanza o se si concentri piuttosto nel mostrarne la diffrazione-disgregazione. Le due componenti mi sembrano ugualmente rappresentate nel libro e si equilibrano. Decido di rimanere nella zona d’ombra concessa dal sovrapporsi di questi due movimenti.

Quello che dobbiamo notare, a libro chiuso, e alla luce di quanto ho provato a ipotizzare nelle righe precedenti, è che l’attenzione minuziosa sia volta a mostrare come i differenti strati della realtà tendano a cucirsi tra loro (aprendo a colpo d’occhio NC (I) è impossibile non notare la non-linearità data dai gradini metrici, dal corsivo, dai dash) e trovare il trait d’union dei differenti lacerti: anzi, meglio, trovare quei lacerti che siano uniti dallo stesso filo e rimetterli insieme. La maglia pronominale fitta garantisce una possibilità combinatoria che la voce zero coglie, mettendo insieme un discorso che nei salti e negli scarti improvvisi vede il proprio punto di forza; la garanzia della coerenza e dell’efficacia sono rimesse alla possibilità della voce zero di selezionare e selezionarsi. La prospettiva traguarda un ‘noi’ organico, riunito: ma nel tragitto a questa riconciliazione rende l’idea di quanto diverse siano le istanze che lo animano e quanto necessario sia rispettare e validare ognuna di esse, dando loro la voce e lo spazio della voce zero (meglio, la stessa potenza vocale e lo stesso raggio d’azione della voce zero). Dalla spettrometria dell’infero e dell’exfero che Atzori propone riveniamo un’identità fluida, ma non sfuggente: il Sé è un Io-Noi ancora da pacificare.

***

[1] Caproni, Geometria, in Il franco cacciatore, vv.1-5.
[2] Caproni, Bisogno di guida, in Il muro della terra, vv.1-4.
[3] Ovidio, Metamorfosi, libro IV, v.443.
[4] Da Treccani: «Nel linguaggio giur., informazione ricevuta dal pubblico ministero da fonte privata o pubblica, in modo formale o informale […] di un fatto che costituisce o può costituire reato».
[5] van der Kolk: «molte persone traumatizzate sono ancora più ferite dalla vergogna che provano per ciò che hanno fatto o non hanno fatto in determinate circostanze».
[6] van der Kolk, Il corpo accusa il colpo.

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