“Distruggere” di Simone Burratti. Inedito

Il poemetto in prosa inedito "Distruggere" di Simone Burratti scritto tra maggio 2020 e maggio 2022 durante la pandemia e il lockdown. Immagine: Enrico Baj, "Tu quoque Brute, Fili mi" (1964).

DISTRUGGERE

Sono una persona qualsiasi. Scrivo, dormo, faccio sogni violenti. La faccia di Conte che esplode mentre dice: potenza di fuoco; Roberto Speranza schiacciato da una mano gigantesca.

Se il desiderio è una forma di libidine, il sogno è soprattutto un augurio. Gli auguri si fanno quando non si ha potere sul futuro. I sogni sono l’ultima opposizione al futuro.

Questo succede quando riesco a prendere sonno. Altrimenti non dormo, non esco, ma pratico discipline di meditazione come l’onanismo e la cucina. Uscire è diventata un’attività poco necessaria, soprattutto perché odio le persone.

Fuori c’è il sistema del sole che struttura tutti quelli che non sono come me. Vanno al lavoro e abbozzano, mostrano i documenti e abbozzano, tornano entro le dieci esattamente come gli è stato imposto. Se fermati da un poliziotto, non immaginano di strangolarlo con un cavo elettrico, di sgozzarlo come un maiale.

L’idea del sangue fresco sull’asfalto mi fa venire sete; mi eccitano gli spasmi muscolari. Ma forse sono io che non sto bene, che non sono normale.

C’è una piscina, sulla mia parete, che delimita il confine tra il dubbio e l’azione. Al contatto con la mano il liquido è viscoso, ci faccio i disegni con le dita. Dall’altro lato ci sono i cadaveri dei miei nemici. Mi piacciono, i cadaveri, perché fermano il tempo. Oppure lo deviano. I cadaveri sono come i sogni.

La verità è che mi manca Wendy. Grazie a Wendy mi è ricresciuto il braccio, grazie a Wendy sono stato felice anche mentre mio padre era malato. Ma non ho potuto sentire più niente, poi, senza di lei.

Giocavamo al gioco del rapimento, ad affogarla nella vasca dell’albergo; la sera, appoggiato alle sue ginocchia, mi toglieva il cerume dall’orecchio.

O al parco, in pieno giorno, quando andavamo a caccia di unicorni; e la mattina dopo, con l’amore condiviso stampato nell’odore: nel letto avrei voluto solo lei.

A volte mi cantava una canzone – e potevo sentire la sua voce; altre volte ci urlavamo addosso – e potevo sentire la sua voce.

Wendy era il mio specchio, ma proiettato nel passato; e io ero il suo spavento, l’ostacolo-sostegno, il gatto nero che sbarra il sentiero.

È finita perché lei aveva dei desideri. Durante il confinamento non era concesso avere desideri. Siamo spariti senza lasciare l’ombra, come due voci scritte di cui si scorda il timbro.

Adesso penso a Wendy come all’ultima volta in cui ho provato a fare qualcosa. Adesso vorrei chiederle: ammazzami come se fosse per la prima volta.

Prima degli eventi, l’imperatore si è buttato dal cielo a testa in giù, senza successo. Si è rialzato e ha detto: non appena le leggi diventano necessarie all’uomo, egli non è più adatto alla libertà.

Cos’è la libertà? Non essere guardati. Cosa sono le leggi?

Ho costruito la mia vita su schemi narrativi. Alla fine di ogni storia c’era sempre lo stesso mondo scarico, incartato su di sé, con i fili scoperti e le spaccature nelle strade.

Alla fine di ogni storia c’ero io, perfettamente spiegato. Ma irrelato, inagibile, inerziale. Come una freddura, come un’allegoria senza la chiave.

Vorrei salvare tutti ma non posso. Vorrei distruggere tutto ma non posso.

Da piccolo provavo compassione per qualsiasi cosa venisse rifiutata. Il giocattolo da poveri, il videogioco brutto, il bambino con la madre puttana. Poi ho capito che provavo compassione per me stesso.

Crescere vuol dire soprattutto perdere la compassione. Giudicare al di là del contesto. Oggi, finalmente, posso odiare in un modo inconcepibile.

Per esempio, cosa ne pensiamo dei vecchi? Di quelli che ci rimproverano, che ci mettono in punizione?

Ci hanno chiusi nei recinti come delle bestie. Ci hanno bastonato come si fa con le bestie. Vi è piaciuto? Brave bestie. Ecco lo zuccherino magico, che vi trasforma in fantastici puledri da corsa contro i contagi e le intemperie. Ecco lo zuccherino magico, per addolcire il sapore d’acciaio delle briglie.

Hanno sacrificato i loro figli nella valle dell’Hinnom. Sul Sinai, con le dita incrociate, hanno imposto le loro nuove leggi.

Chi non ha più una casa, non l’avrà. Chi ha un lavoro precario a lungo senza dovrà stare, resistere alle veglie, e lunghi fogli scrivere, nell’attesa che cadano le foglie.

Sul Sinai, con le bocche sottili, hanno imposto le loro nuove leggi.

Ma chi per la collettività eccetera. Chi ha solo abbozzato. E chi ha parlato, chi ha parlato, chi ha parlato.

Cosa faremo di loro, cosa faremo dei vecchi? Vogliamo davvero lasciarli morire? Ovvio che sì, purché prima sciolgano le loro leggi.

Il resto è già letteratura: tubo in gola, ossigeno sparato al massimo, che bruci tutto quello che non avete dato ai vostri figli; e piaghe da decubito, cancrena, ostruzione dell’aorta.

Io vi condanno alla pena più banale, e cioè alla morte. Io chiedo un virus più selettivo, ancor più di così, voglio un virus che faccia andare in positivo l’INPS.

E il mio vicino sbranato dai suoi cani, il mio vicino pestato dai bambini. E Galimberti appeso, e Rosi Braidotti appesa, e Recalcati appeso. Nessuna fantasia per i traditori.

Mentre noi resteremo, saremo ancora qua. Le vostre chiavi nelle tasche delle nostre giacche, fonderemo il metallo e vi ci ingozzeremo, come per il foie gras. Chi ha peccato diventerà cibo; chi non ha cibo mangerà chi ha peccato. E sputerà le ossa.

Sono una persona schifosa. Un carnefice al servizio delle vittime.

Se immagino il caos, è la mia mano che si estende minacciosa sulla terra. La mia mano che scrive, che ara i prati più bianchi, che scava e incide a fondo fino al nero della terra.

Rastrellare il passato, stabilire la soglia del dolore. Seminare la guerra, odiare per amore, regolare tutti i conti in sospeso. E dire io, assumersene il peso.

Io che fiscalmente non esisto. Io che sono più libero di voi, con un terzo del vostro potere d’acquisto. Io che non ho desideri, ma solamente sogni.

E io che non lavoro, io che non so più stare da solo. Io che non so più stare in compagnia. Io che non sono un altro, ma proprio quello lì, quello che avete visto.

Io merda, io terrorista, io dio, io no vax. Io che ho votato PaP, che vorrei massacrarli di botte. Io che una notte, di fronte a un grasso kami che parlava giapponese, ho giurato di trapassargli il ventre. Con in mano niente, l’argenteria di casa.

Perché niente tengo, niente mi corrisponde, e come tutti seguo il ciclo delle ore senza riuscire a scavalcare il tempo. Infatti sto morendo.

Cos’ha fatto per me la medicina? Un antibiotico per il gonfiore al testicolo, un tutore per il braccio rotto. Cos’ha fatto per me la medicina? Ha salvato la vita di mio padre.

Domani, molto presto, avrò bisogno del suo sostegno. Ma la medicina vuole ancora aiutarmi? I protocolli vogliono curarmi? La medicina è sempre un mio diritto, o sono io il profitto della medicina?

La risposta si trova a pagina 47 di un libro che non ho mai scritto. In questo libro ci sono tutte le risposte, tutte le donne che mi hanno fatto male.

Quelle che non mi hanno guardato; quelle per cui non ero abbastanza; quelle che sono entrate nella stanza, hanno visto il soffitto spalancato – e di colpo non sono più tornate.

E tu, oh, le tue velleità rimangiate: ti piegavo a novanta e non sapevo riempire più niente. E tu, Wendy, croce e longinus: resta pure al Salone di Torino.

Volevo solo una che mi diceva, di ritorno da Trieste alle sette del mattino: andiamo ad assaltare il centro vaccinale. E invece ho dovuto spiegarti che odio le persone.

Le persone non sono numeri però sono numeri. Senza un nome e un volto sono numeri, aprósopa. Possono essere cancellati facilmente, per mera sottrazione. È tanto tempo che nessuno ha un volto.

Poi ci sono i numeri con la virgola, per esempio uno-virgola-draghi, uno-virgola-mattarella: i più difficili da eliminare, perché hanno la scorta.

Come posso volere bene a un numero? L’affetto è morto nel decennio scorso.

Vorrei volere un po’ meno bene a Wendy, un po’ più di bene al senzatetto sotto casa, quello che ti urla dietro per tutto il tragitto. Prima o poi lo troveranno riverso lungo la via. Ad ammazzarlo sarò stato io.

Perché le persone uccidono? Perché le persone non uccidono? Perché non conoscono la morte. La paura tiene in piedi la comunità. La comunità alimenta la paura.

E adesso sono qua soltanto a chiedermi quale comunità, attuale o ventura, devo proteggere; quale eludere, quale distruggere. Se sfondare la piscina sulla mia parete.

Ma c’è troppo di me, per me, dovunque. In un mondo esaurito, così magro nel poco che dà, quel che resta è l’ultimo argine ai sogni. Ogni parte è più grande del suo insieme, ogni seme cresce sulle macerie dello stesso muro. Ogni legame fa male in anticipo, se poi mancherà.

Per questo sto fermo, per il futuro. Perché mio padre è vivo. Perché lei, forse, un giorno tornerà. Perché posso ancora perdere tutto.

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