Menti sommerse 7. “Ventisette anni e cosa sono”: “Lo stato della materia” di Riccardo Socci

Si propone la lettura critica di Massimo Del Prete a "Lo stato della materia" (Arcipelago Itaca, 2020) di Riccardo Socci, da una serie di articoli soppressi usciti originariamente su Menti Sommerse. [L'immagine è stata generata dal nostro AI di fiducia, Fractor Ignotus].

Sono stato attirato dai versi di Riccardo Socci come tutte le volte che mi imbatto, anche senza saperne niente di più, in un libro di poesia che, a qualche livello, si mescola col discorso scientifico.
Certo, introdurre la scienza in un contesto letterario non è mai un’operazione pacifica: mi riferisco, in special modo, alla fisica, soprattutto nella sua declinazione quantistica o relativistica o alla cosmologia che a questa si lega, senza dubbio molto meno digerite dalla cultura generale (e dunque banalizzate) di altri settori come la biologia, la genetica e persino l’astronomia.

L’intento, lodevole, è quello di attingere ad altre sfere semantiche per ampliare la portata delle metafore, condurre dunque letteralmente da un luogo all’altro, cercando la collisione o il conflitto tra i concetti nel tentativo di fornire un surplus di significato.
Ma, molto spesso, attingere alla conoscenza scientifica non è diverso, in essenza, che attingere a qualunque altro sapere, diciamo pure più tradizionale o umanistico (storia, politica, filosofia, letteratura etc) che però, nel nostro immaginario ha molto meno appeal di quella chimera, visionaria e irraggiungibile, che si crede di partorire inserendo una parolina scientifica in coda a un verso.

Non basta, io credo, appropriarsi del portato semantico di una scienza, ma bisognerebbe piuttosto assumerne lo stesso codice, affrontando il problema maggiore della differenza di lingua: il nostro alfabeto non corrisponde all’alfabeto della matematica, fatto di durezza e biunivocità.
Possiamo scrivere poesie scientifiche ma nel farlo stiamo traducendo e dunque tradendo qualcosa nella lingua di partenza; potremmo tentare di scrivere una scienza poetica, ma questo, quasi certamente, non ha ragione di essere o non ha senso, e anche quando volessimo sovra-interpretare formulazioni complesse in un senso diverso dal loro staremmo tornando allo stato di poesia scientifica.

Con la sua raccolta d’esordio Lo stato della materia (vincitrice della 5^ edizione del Premio nazionale editoriale Arcipelago Itaca), Socci tenta il campo minato della poesia scientifica, cercandone tutti i portati e provando a mostrare come la scienza non sia un linguaggio da assumere in momenti di eccentricità ma piuttosto necessario per ragionare con coerenza sul quotidiano.

COME UN EFFETTO DEL VUOTO QUANTISTICO

Provare ad andare, per passi successivi, non in avanti o indietro ma piuttosto su e giù lungo gli ordini di grandezza che conducono agli estremi dell’infinitamente grande e piccolo, in confronto speculare con le misure “centrali” dell’uomo e della sua vita.
È questa la sensazione che mi colpisce leggendo i primi testi della raccolta, il cui focus sembra risiedere nelle esistenze degli individui, certo senza nome, spesso ridotti a semplici pronomi, generiche persone («Ma le persone, quale ordine | le persone?») che si muovono in un’intimità di interni soffusi.

Rappresentativo in questo senso il primo componimento che, dopo un processo di zoom (sia materialmente spaziale che concettuale) arriva a oltrepassare la porta di una casa per dire che «in un appartamento, un ovulo | sta per essere fecondato».
L’atto sessuale, l’eiaculazione stessa che trova pendant nella risalita del caffè nella moka, descritta poco dopo, si protendono a questo: non già alla vita ma alla fecondazione, in un processo primariamente biologico. Questo impone subito una domanda: fecondare, chimicamente, è davvero diverso che generare una coscienza? Davvero la vita appare depotenziata se descritta per quello che è: un’altra collisione di molecole?

Gli interni sono spesso teatro di movimenti sessuali, come nel testo I due, sdraiati sul divano, in cui due persone guardano uno youtuber ingozzarsi e fallendo nel tentativo di trovare un senso e un compimento a «questa esperienza estetica» ripiegano sul sesso: è il sesso allora la banalità e sperare che qualcuno muoia in diretta un motivo di esaltazione?

I testi suggeriscono infatti da subito una serie di interrogativi indiretti e ambigui, veicolati dal ritratto di situazioni comuni. Anche quando i componimenti si centrano sull’io aleggia a tratti un moto di indifferenza, come se si compilasse un registro, come se noi leggendo partecipassimo del prezioso e preciso grigiore di un ente più alto, ma non per questo più consapevole di noi. Ne deriva un’atmosfera ovattata, dai suoni e dai contorni lontani, non sempre fatta di cose che si possono spiegare ma che siamo piuttosto destinati a intuire («Mattino, alla finestra bussano | faccende insondabili»).

Le cose però stanno un po’ diversamente: quello a cui forse non siamo abituati è l’effetto di un punto di vista effettivamente scientifico sulla nostra realtà personale.
Ecco allora che non l’io ma il mondo diventa soggetto osservante e noi oggetti osservati, descritti, e forse in grado di esistere attraverso e in funzione di manifestazioni che si spiegano in assenza di noi. «L’onda meccanica della tua voce | si propaga nella stanza» o ancora «mi godo i processi endotermici | del mio corpo», perché le cose sono questo, non noi direttamente ma altro di cui siamo composti e che, sembra suggerirsi, deve essere nominato così, secondo la sua natura più profonda.

Ci siamo domandati se le altezze metaforiche, più o meno ingenue, che la scienza permette siano utili in poesia: di certo sono necessarie qui. A costo di una generale desaturazione dell’immagine si guadagna in precisione, in dolorosa crudezza, in onestà e coerenza («Ti sei visto da fuori: come sono | patetiche le persone», si dice di uno che pensa agli altri come corpi sessualizzati e agisce in relazione a questo), permettendo inoltre salti concettuali tanto grandi che dalla logica passano quasi all’analogia, provocando una fusione della conoscenza poetica e di quella scientifica che non ha più nulla di posticcio.

Certo, il problema del legame tra esperienze di ogni giorno e quelle ai limiti delle scale spaziali resta aperto e conflittuale. A p. 12 dopo una prima strofa che racconta come nasce una stella, in modo tale che potrebbe adattarsi anche a un libro di testo, la seconda si distende improvvisamente così:

«È sabato, le croste si attaccano
agli angoli dell’occhio, mentre vaste
superfici di sole esplose
disturbano nell’etere i segnali,
i voli dei piccioni e delle nuvole […]»

L’enorme delle nebulose in contrazione, della fusione nucleare si attacca al minimo, in modo spiazzante, sostanziando il legame tra i due piani in un disturbo, una lieve asimmetria di cui quasi nessuno sa niente, a meno che non voglia scavare nelle cause e operare quel moto di distoglimento dall’abitudine che il metodo scientifico e la pratica poetica permettono.

Il testo di p. 17 è costruito in modo simile: situazioni diverse, debolmente legate da una catena causale ma sotterraneamente unite. L’io della prima strofa è lo stesso citato più su, quello che si guardava da fuori, che con freddezza valutava «tutto il mondo come appare». Ma ecco come si lega alla seconda strofa:

«Tornando a casa, nel supermercato
un cieco faceva la spesa.
Sembrava a proprio agio
nella sua cecità. Con il bastone
sondava lo spazio intorno
per evitare collisioni.
A volte però, dal buio
fuoriuscivano corpi e oggetti,
sui quali il cieco urtava
sorpreso. Sul suo viso compariva
una smorfia di gioia o di paura,
come un effetto del vuoto quantistico.»

I protagonisti di entrambe le strofe non riescono, anche se in modi diversi, a sapere la realtà. Il primo, infatti, si fa vivere da un mondo deterministico (di cui si illude di avere conoscenza ma di cui è perlopiù inconsapevole) mentre il cieco è sorpreso dall’indeterminazione per cui il grado di consapevolezza delle leggi del mondo non conta: le cose saranno sempre imprevedibili.

La scienza non è dunque risoluzione di nulla ma suggerimento di una qualche vita che, nell’ordinario, la sopravanza. A p. 13, in un testo dal titolo morettiano («Domenica, piove. Sul marciapiede») si racconta che «la vecchia | ha tolto le uova dal nido | sul davanzale della cucina. | Le ha rimesse a posto | dopo averle bollite nell’acqua, | e ha atteso bevendo un tè | che il piccione tornasse»: un male privo di senso, dunque estremo, innumerabile e impossibile da ridurre a schema, nei predittibili modelli della scienza.

«Per immortalare | il vento possiamo soltanto | ritrarre le cose che muove»; conoscere le forze per i loro effetti: come in fisica l’accelerazione, qui la morte è l’effetto del male, di una vita quando non si sa dov’è o com’è fatta, quando la somma di te col mondo non fa differenza sul totale: la «tua voce | […] ritorna in gola, senza | spostare nulla, come il più immediato | dei molti corollari».

IN UNA DELLE SETTE CHE NON CONOSCIAMO

Proseguendo nella lettura risulta chiaro come ci sia, nel versificare, una continua specificazione del contesto: certo, a macchia, per riprese successive o casuali, come la registrazione di un automatismo visivo talvolta («Due bambine | gemelle mi passano accanto | tenendosi la mano, | e subito dopo una coppia | di adolescenti etero»).

Resta il fatto che spazio e tempo hanno la loro precisione e la loro consistenza, così fondativa in un contesto di scrittura che deve molto, in essenza, alla fotografia di certi racconti in prosa. Ma è solo un’altra forma di contrasto (la prima è quella, già nominata in apertura, tra le scale di realtà) tra l’esattezza – parziale – dell’esterno e l’ambiguità dell’interno, del pensiero, cioè, generato in risposta o anche solo in concomitanza a quel paesaggio. In qualche modo questo corrisponde a dire che rimandare agli elementi più remoti del cosmo sia tornare nuovamente a un paesaggio, ma raggiungibile solo con la mente.

Nei testi si avverte perciò questa perenne tensione tra interno ed esterno, alla ricerca di una composizione che riequilibri la differenza di potenziale tra i due mondi e produca una continuità di senso. Senso che però non torna mai con esattezza, ma solo con approssimazione, intuitivamente, senza la possibilità di affermarlo assertivamente: il conflitto, solo apparente, tra esterno scientifico (oggettivo) e interno della coscienza (soggettivo) non approda mai davvero alla sua tregua. Solo altre domande: «Tutto è incerto» e ciò che la poesia può fare si dice senza bisogno di altre mediazioni in questi versi:

«Scrivere poesie
è simile a potare:
recidere le frasche una alla volta,
finché resti soltanto un tronco nudo
che non rimanda a nulla
e non prospetta niente. Fare in modo
che sia sufficiente l’odore.»

Alla luce di questo vorrei insistere ancora un po’ sul dato scientifico nella raccolta perché, pur non essendo l’elemento identitario, provoca, come per collasso – e dunque paradossalmente – quel surplus di significato che fa della poesia ciò che è. Nel testo a p. 24 si assiste a quella separazione, in apparenza netta, tra situazioni e registri linguistici per cui il dato scientifico vorrebbe fare da collante.

Nella prima strofa si dice: «ho visto un uomo malato | entrare nella sua fine oggi, la fine di un giorno. | […] Il dolore di un uomo | è […] | uno spazio che le parole non percorrono | che il senso del tatto attraversa più a lungo». Si manifesta quindi un moto spontaneo, irrefrenabile della mente che si traduce in una lunga catena versale, lirica a suo modo, senza asperità, dotata di calore.
La seconda strofa si apre invece così: «La teoria del campo unificato | prevede l’esistenza di undici dimensioni. | Oggi ho visto un uomo entrare | in una delle sette che non conosciamo.» L’autore si assume il rischio, nei primi due versi, di essere didascalico perché presume, legittimamente, che l’argomento necessiti di una qualche introduzione.

La scena dell’uomo che cambia dimensione, che ad essa subito si correla, ne consegue però quasi per necessità: forse sarebbe stato sufficiente riferirsi a una generica altra dimensione, senza altre precisazioni, ma l’aggancio, che pure priva il movimento precedente di un po’ di spinta unisce in maniera inestricabile l’ultimo momento della vita a una potenziale descrizione della realtà, al punto che non è più la scienza a sciogliersi nella poesia ma la poesia nella scienza (chi ha qualche contezza di questa teoria della fisica saprà che essa prevede che anche la gravità si diluisca in queste dimensioni extra: qui, con un salto neanche troppo estremo, è la vita a prendere il posto della gravità). In ogni caso, le necessità logiche e strutturali di questo testo nulla tolgono alla sua bellezza immediata che forse risiede nella ripetizione variata del sintagma «finisce una giornata»/«fine di un giorno».

Qualcosa di simile accade a p. 25, in questi versi: «La fusione nucleare delle sfere di plasma | sembrava potessero dire | qualcosa a un uomo attento | e capace di sognare». Una tale definizione di luce stellare sembra eccessiva o fuori luogo ma è proprio il suo esondare a sancire l’impossibilità di qualsiasi illusione ulteriore (il sogno dell’uomo attento, che assume persino una sfumatura sarcastica). Non c’è nessun sogno, c’è solo il caso, il male che ci sfiora e la fortuna («Tornando a casa, la ruota ha mancato | di un niente l’istrice»).

Un ultimo esempio a p. 34: in un setting francese si descrivono ragazzi e ragazze «con le birre in mano | e le tette durissime, | con il cazzo sempre pronto | alla prossima eiaculazione» e ne deriva un commento (come sempre nella strofa successiva) di questo tipo: «Allora, nonostante il buco nero | in espansione in mezzo alla Via Lattea | o i capelli che cadono, | credo che esista l’immortalità».
L’accenno astronomico (che parla di annientamento al massimo grado possibile) potenzia questa specifica definizione di immortalità, ovvero la limitatezza a certi aspetti, come un sesso primordiale o un pensiero animale, unidirezionale («il pensiero che ruota dentro un racconto»). La recessione in termini spaziali è anche recessione del male e l’immortalità consiste nell’accettare di essere materia.

Questa idea, sì pervasiva (a partire dal titolo del libro), ci riposta al testo di p. 31 in cui si suggerisce, nuovamente, una visione laica delle cose, priva di attributi a posteriori: «È stata una giornata priva | di fatti notevoli […] |. Scriverlo | non serve a dare loro importanza». Eppure, si descrivono poi fatti disparati che a vederli da vicino possono apparire notevoli o comunque banali ma questo innesca solo l’ennesimo cortocircuito di senso.
Non c’è un’altezza o una distanza privilegiata per osservare le cose, esse sono solo sé stesse, senza saperlo, sono «lo stato della materia», risultato di miliardi di anni di aggregazioni casuali. Così noi, in ogni nostra manifestazione, partecipiamo, quasi senza saperlo, allo stato attuale della materia.

In questa (parziale) incoscienza il sesso, pure già esplorato in precedenza, assume una rilevanza particolare: l’interpretazione di assoluta meccanicità che si può dare dell’atto sessuale conduce in qualche modo a ripensarlo come strumento per un pacifico annullamento di sé.
«A volte, quando sono sotto | e sto per finire, osservo | le zanzare schiacciate | […] e sento il vuoto | nel quale sto entrando, e sono felice’, ‘Mi piacerebbe vivere | sempre sul punto di finire, | come nell’orbita di un orgasmo»: deliberato e confortante piacere di svanire.

D’altronde, anche una certa misura di consapevolezza nel sesso (accompagnato o meno da un legame sentimentale) non porta molto oltre che a una forma effimera di consolazione, senza dubbio insufficiente, traballante sulle sue basi: «Dopo che abbiamo finito, sapere | che una parte di me ti resta dentro | mi consola, come se una strada | ci si aprisse davanti». Ma è davvero una strada o è solo un momento di luce e speranza mediato dalle endorfine, quel senso di supremo benessere e potenza?

Nel testo da cui ho tratti questi versi (a p. 36), la speranza si scontra con l’idea diffusa dell’incertezza del mondo che, da un lato getta ombre sulle impressioni positive dell’io dopo il sesso, dall’altro fa da contrasto a una visione di bambini che giocano a pallone per strada, opposto risultato a quella »chimica che regola | gli effetti della pillola sull’utero».
Bambini che giocano «attraversando liberi | come asteroidi lo spazio e il tempo», coinvolti in ogni viaggio possibile, in ogni possibilità che appare invece preclusa all’io.

È proprio in momenti come questo che la raccolta si mostra nella sua dimessa ferocia, nel suo stupendo e crudele irrisolto, attraverso la vertigine di una solitudine universale («gli uomini | rinchiusi nelle stanze | a generare i loro figli, | come sogni inviolabili | che non ti riguardano, ossia | che nulla di quello che vedi | ti guarda a sua volta») e di una universale impermanenza («il cielo è in espansione | la luce lo attraversa, | la voce dell’uomo è un segnale | tardivo, come il tuono»).

«Quanto sarebbe durato il bianco immoto», si chiede l’io riferendosi alla neve che cade e si posa, ricordando un vecchio gioco di bambini: questo verso sembra rimandare a uno stato di vita definito, conosciuto, con la sua farinosa solidità, con le sue promesse che, almeno temporaneamente, poggiano su alcune fondamenta di certezze.
«Farciremo il ventre svuotato | dei pesci con i limoni | come la realtà con una speranza»: ma prevale oggi, e forse sempre, una profonda prostrazione, quella consunzione quasi fisica all’idea di prendersi un futuro che non intende aprirsi e, come l’universo, tanto più recede quanto più lo inseguiamo.

E tutto quanto condensato in questi tre versi che, lasciati in chiusura a metà libro, lo ridicono tutto nell’essenza:

«Ventisette anni e cosa sono. | C’è una stanchezza | per cose ancora non fatte nell’aria.»

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